base capitoli HOLG
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[Ray]
Londra
in estate è una delle cose più irritanti di
questo mondo.
Non
che io non adori questa città in ogni singolo giorno
dell'anno,
ma... insomma, è proprio necessario che sia tutto sempre
così
umido!?
D'accordo, va bene, non c'è caldo e questo è un
essenziale punto a
favore, ma... dannazione, non c'è un giorno in cui non piova
o,
peggio ancora, in cui non ci sia questa dannata umidità che
ti
infradicia i vestiti e ti si appiccica alla pelle, rendendo
difficoltoso persino il respiro.
Sospiro,
riemergendo dalla mia enorme borsa con in pugno – dopo almeno
cinque minuti di forsennata ricerca – le chiavi di casa.
Lancio
un'occhiata al vialetto laterale e vedo l'auto di Ben parcheggiata al
solito posto, accanto alla moto che, dato che oggi sembrava
essere una bella giornata, avevo deciso di non utilizzare, preferendo
andare al corso in metropolitana... e, ovviamente, la bella giornata
è diventata una giornata di pioggerelline e continue
schiarite, col
risultato di rendere ancora più difficoltosa la mia
traversata della città e intasata di persone la metro.
Le
lezioni che
sto seguendo sono
interessanti e
meritano lo
sforzo, è
vero, ma le
trecento ore di corso che devo seguire su tutto ciò che un bobby
– un rinomato membro della Metropolitan
Police Service,
meglio conosciuta come Scotland Yard –
dovrebbe sapere stanno diventando eterne.
Mi infilo in casa con un gemito di sollievo: l'aria condizionata e
deumidificata mi accoglie in una bolla dove, finalmente, riesco a
riempirmi i polmoni senza l'impressione di star respirando attraverso
una spugna bagnata.
-Ben?
Sei a casa?- chiamo, abbandonando disordinatamente la borsa, la felpa
madida di pioggia e le scarpe nell'ingresso.
-Sì.-
Qualcosa
non va.
Vivendo
al suo fianco tanto a lungo ho imparato
a riconoscere ogni singola sfumatura della voce di Ben, ogni
inflessione del suo accento ricercato, ogni traccia di turbamento
nelle sue parole... e, in quel “sì”,
c'era una tensione tale da far irrigidire ogni singolo muscolo del
mio corpo, improvvisamente pronto a scattare o, per quanto ne so, a
ricevere un colpo.
Ben appare sulla soglia del salotto e, nel suo volto, riesco a
riconoscere il medesimo nervosismo che ho ravvisato nella sua
risposta.
-Abbiamo
un ospite.- mi annuncia, rivolgendomi uno strano sguardo dispiaciuto
che non riesco proprio a comprendere. Chi mai potrebbe essere venuto
a casa nostra per ridurre Ben in questo stato?
-Chi...-
comincio, avvicinandomi a lui per sbirciare oltre la sua spalla; ma,
per appena un istante, Ben mi trattiene contro di sé, quasi
come se
volesse impedirmi di capire, di vedere – per
proteggermi,
realizzo, nello stesso attimo in cui il volto di una persona che non
ho mai potuto dimenticare si presenta davanti a me.
Mi sembra che il tempo rallenti e si fermi in questo preciso momento,
nel secondo stesso in cui i miei occhi incrociano quelli dell'uomo di
mezz'età rigidamente seduto sul divano.
Tutto si blocca come per un qualche sadico gioco di magia,
congelandosi in quella faccia, in quella persona, nelle rughe di
preoccupazione che gli solcano la fronte e le guance.
-Papà.-
Questa
parola sembra così sbagliata, sulle mie labbra... la sento
stridere
fra i denti, sulla lingua, e ne avverto il saporaccio metallico
–
lo stesso sapore che ha il sangue.
-Ciao,
Ray.- anche il mio nome sembra strano, detto da lui. Non lo sentivo
da almeno quattro anni.
Mio
padre si alza e, stranamente, mi sembra meno alto e imponente di
quanto fossi in grado di ricordare, ma forse sono io ad essere
cresciuta. Ho ereditato da lui la mia altezza fuori dalla media
femminile, la forma degli occhi, il colore dei capelli... eppure,
nonostante le somiglianze fra noi, lui mi sembra talmente alieno
–
qui, in casa mia, nel mio salotto, sul mio divano
– da stridere con tutto ciò
che lo circonda – da stridere con me.
-Sei__-
comincia, incerto, ma io scosto bruscamente Ben e faccio un passo
avanti, senza nemmeno accorgermi delle sue dita che mi sfiorano le
braccia e poi scivolano via, rinunciando anche soltanto all'idea di
trattenermi.
-Viva.-
lo interrompo, avvertendo il familiare brivido freddo che preannuncia
un'incazzatura spettacolare scorrermi dal collo alla base della
schiena. -E non certo per merito tuo.- aggiungo, cercando di
mantenermi calma e controllata nonostante io senta le mani tremare
dalla rabbia.
Todd
Cooper si passa una mano fra gli ormai radi capelli bianchi, a
disagio.
-Ray,
sono qui per__-
-Non
mi interessa.- sbotto, piantando le unghie nei palmi delle mani per
tentare di arginare il gelo che mi sta riempiendo l'anima,
annegandomi in un mare di ricordi che speravo di aver represso
abbastanza in fondo perché non tornassero più a
tormentarmi.
-Lascia
che__-
Qualcosa
si spezza nello stesso attimo in cui vedo la supplica nei suoi occhi.
-Non
voglio ascoltarti.- il tocco di Ben – freddo al confronto con
la
mia pelle che scotta, ma bollente rispetto al ghiaccio che mi sta
divorando dentro – mi fa capire di aver rivolto a mio padre
qualcosa che assomiglia più ad un ringhio che ad un tono
normale.
-Puoi anche andartene, perché non ho nemmeno nulla da dirti.-
Tutto
ciò che avrei potuto dirgli è morto, dentro di
me, troppi anni fa.
-Ray...-
mormora, ma non capisce che continuare a dire il mio nome non fa
altro che farmi infuriare sempre di più: quale diritto ha, lui,
di parlarmi, di guardarmi, di chiamarmi con quel nome che speravo
avesse dimenticato!? -...mi dispiace.-
Ben mi serra la mano sulla spalla nel momento stesso in cui sento gli
argini in cui stavo cercando di trattenere la mia rabbia, il mio
dolore, spaccarsi.
-Ti
dispiace?-
sibilo,
liberandomi bruscamente dal tocco di Ben e avanzando verso mio padre
fino a trovarmi ad un soffio da lui; è ancora più
alto di me, di
almeno una spanna, ma non mi intimorisce più – ha
smesso di
intimorirmi da molto, molto tempo.
-A te dispiace, papà?-
-Avrei dovuto cercarti molto tempo fa, solo che__-
Non
ci vedo più.
-Tu
saresti dovuto venire a prendermi quando lei mi ha cacciata via!- mi
rendo conto di aver urlato solo quando lo vedo tremare sotto il peso
delle mie parole.
Sarebbe
dovuto venire a prendermi. Avrebbe dovuto proteggermi.
-Saresti
dovuto venire quella sera e invece no,
tu sei rimasto là, tu mi hai lasciata sola e ora
vieni qui con la faccia tosta di volermi porgere le
tue
scuse?-
Avrebbe
dovuto salvarmi. Avrebbe dovuto.
-Ra__-
-Io ti ho aspettato, quella sera. Ti ho aspettato per tutta la notte,
seduta su quella pensilina, mentre sentivo l'umidità
arrivarmi fino
alle ossa.- per la prima volta nella mia vita desidero ardentemente
fare del male a qualcuno – a lui. Gli
punto l'indice contro
il petto, stringendo le labbra e assottigliando le palpebre. -Io
speravo che tu mi proteggessi, papà, che risolvessi le cose.
E
invece non sei venuto.-
Invece
mi ha abbandonata.
-Quando ho visto l'alba, dopo tutte quelle ore, ho capito che non
saresti arrivato. E mi sono arrangiata.-
Invece
mi ha lasciata sola.
La rabbia scema nello stesso momento in cui la sua espressione sembra
spaccarsi a metà, ridursi in briciole: nonostante tutto,
nonostante
io sappia che lui merita tutto questo, continua a
non piacermi
fare del male. Non a qualcuno a cui ho voluto bene. -Ora, per favore,
vattene.- sospiro, lasciando cadere il braccio lungo il fianco e
voltandomi – perché non posso più
sopportare di guardarlo, di
vedere il mio passato scritto in quello sguardo pieno di senso di
colpa.
-Non vuoi nemmeno sapere perché sono venuto qui?- mi chiede,
ma
quando lo sento fare un passo verso di me mi ritraggo come se avessi
ricevuto uno schiaffo.
-A meno che non riguardi mia sorella, no.-
Posso quasi vedere Ben trasalire: lui non sapeva che io avessi una
sorella. Anzi, a dir la verità lui non sapeva nemmeno che io
avessi
ancora un padre... -Shirley sta bene?- chiedo, stancamente,
allontanandomi ancora e accostandomi alla finestra: ha ricominciato a
piovere.
-Sì.- quella risposta è tutto ciò che
mi basta per sentire la
morsa rilasciare un poco la sua presa sul mio cuore.
-Bene. Fuori.-
Questa volta, per fortuna, mio padre mi dà retta e se ne va,
lasciandomi sola con Ben e con dei demoni che credevo di aver
seppellito dentro di me.
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[Ben]
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Il silenzio cala come
una cappa di fumo nello stesso momento in cui
la porta si richiude dietro la figura piegata dal dolore di Todd
Cooper.
Non so come sentirmi nei confronti di quell'uomo: vedere una persona
in quel modo non è un bello spettacolo, e scorgere il
tormento che
lo ha dilaniato ogni volta che ha guardato sua figlia in faccia mi
renderebbe molto più partecipe e solidale nei suoi confronti
– se
solo sua figlia non fosse Ray.
Ray è una delle persone più pazienti che abbia
mai conosciuto,
nonostante il suo carattere focoso. È raro che alzi la voce,
che si
arrabbi tanto da tremare, che esploda così come ha fatto
pochi
istanti fa: è questo, più delle parole piene di
sofferenza che ha
sputato in faccia a suo padre, a confondermi e a trattenere la
compassione che, se non fosse coinvolta lei, proverei di certo per il
signor Cooper.
Torno in salotto in tempo per vederla accucciarsi, come un animale
braccato, nel suo angolo preferito del divano: stringe le braccia
intorno alle ginocchia e fissa il nulla davanti a lei con gli occhi
spalancati, vitrei.
-Non ho fatto in tempo ad avvertirti.- mormoro, col cuore pieno
d'angoscia nel riconoscere quell'atteggiamento che ho già
visto, in
lei – che avevo sperato, dopo la lunga convalescenza che ha
attraversato dopo l'incidente d'auto, di non rivedere mai
più sul
volto della donna che amo.
-Non è colpa tua.- mormora, talmente piano che debbo
avvicinarmi a
lei per sentire le sue flebili parole.
Mi spaventa questa sua voce sottile, vacua. Ray non permetterebbe mai
alla creaturina lacerata e traumatizzata che ho davanti agli occhi di
prendere il sopravvento sul suo carattere energico, sulla sua intensa
voglia di vivere – non vorrebbe che la ragazzina spezzata che
è
stata riaffiorasse in questo modo, sfuggendo alle maglie del suo
autocontrollo.
-Non è stato un bello spettacolo, vero?- mi chiede quando mi
siedo
accanto a lei senza, però, sfiorarla, rispettando il suo
bisogno di
spazio.
-Direi che “illuminante” sia il termine adatto.- la
correggo, e
lei annuisce in risposta, debolmente.
La conosco abbastanza bene da sapere che cos'è che il suo
sguardo
vuoto mi sta silenziosamente chiedendo: se la lasciassi in pace, se
non insistessi per sapere che cosa è successo fra lei, suo
padre e
probabilmente la sua intera famiglia, Ray si chiuderebbe in se stessa
e lascerebbe che il tormento la divorasse da dentro, strappandole
ogni oncia di serenità fino a lasciare, di lei, solamente un
guscio
vuoto.
Vuole parlare, io lo so... ma so anche che ogni
fibra del suo
autocontrollo sta lottando, adesso, per tornare a schiacciare i
ricordi ed il passato sul fondo di quel pozzo infinito che è
la sua
anima, complessa e splendente in tutti i suoi rattoppi, le sue
cuciture, i suoi rammendi.
-Ray, io ti ho raccontato molte cose sul mio passato. Ti ho
raccontato di Tamsin, ti ho raccontato della scuola, dei miei
genitori, del college.- comincio, con tutta la delicatezza e il
savoir faire di cui sono in possesso: so che, se
esagerassi
appena un poco di più, Ray si rifugerebbe in se stessa,
spaventata
anche solo dal pensiero di aprirsi. -Tu, invece, sembri essere nata
nel momento in cui ti ho incontrata in quel locale.- aggiungo,
dolcemente, allungando con cautela una mano per sfiorarle un ricciolo
che, dispettoso, è sfuggito alla coda disordinata in cui
raccoglie i
capelli d'estate.
-Non volevo raccontarti nulla del mio passato.- mugugna, allungandosi
un poco per cercare il tocco delle mie dita, socchiudendo gli occhi
quando le accarezzo una tempia. -Non fa più parte di me da
molto
tempo.-
-Permettimi di dissentire.- scuoto la testa, inarcando un
sopracciglio in risposta alla sua espressione perplessa. -Vedere tuo
padre ti ha ridotta in briciole.-
La bellezza del rapporto che Ray ed io abbiamo costruito, negli anni,
permette ad entrambi di essere sinceri e diretti come, credo, non
siamo mai stati nei confronti di nessun altro: è una
sensazione
incredibilmente rassicurante quella che trasmette la consapevolezza
che, nella tua vita, esiste una persona davanti a cui non devi
fingere mai nulla, con cui puoi essere semplicemente te stesso, con
cui non devi soppesare le parole per timore di essere frainteso.
-Già.- sbuffa, roteando gli occhi verso il soffitto prima
che, con
uno di quei movimenti fluidi ma repentini che ho imparato ad
aspettarmi, si sciolga dalla rigida posizione in cui si era raccolta
per accostarsi a me, rifugiandosi fra le mie braccia.
Il sollievo che provo nel poterla stringere finalmente a me
dev'essere pari solo a quello che, a giudicare dal profondo respiro
che la sento prendere, a pieni polmoni, sta probabilmente provando
anche la mia Ray, che si rilassa fra le mie braccia mentre King, che
era fuggito a nascondersi sotto il letto – non apprezza gli
ospiti,
proprio come la sua mamma umana –, ci raggiunge e salta sul
divano,
appoggiando la testolina bionda sulla coscia di Ray fino a che lei
non si allunga per grattarlo dietro un orecchio.
-Presumo di doverti una spiegazione.- mugugna lei, dopo un po',
sfregando il viso sulla mia maglietta. Scuoto la testa, chinandomi
per baciarla sulla fronte.
-Tu
non mi devi né mi dovrai mai nulla, Ray.-
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-Fuori
da casa mia!-
La
voce di mia madre è piena d’odio, di rabbia, di
rancore. Per
l’ennesima volta provo a ricordarmi che non è lei
che parla, è la
sua malattia, è il dolore che la attanaglia, ma…
non ci riesco
più.
Il
veleno nelle sue parole mi penetra le orecchie ed il cervello,
trafiggendomi e piantandosi lì, da dove non credo
riuscirò più ad
estrarlo.
-Non
la voglio una puttana in casa mia!-
Non
so bene dove la vedi la puttana in me, mamma, ma non fa niente. Ho
smesso di cercare una spiegazione ai tuoi insulti senza senso, al tuo
odio senza ragione, alla tua rabbia immotivata.
Tu,
papà, non dici niente.
Ti
limiti a tenerla indietro per evitare che si scagli su di me o,
più
probabilmente, si faccia del male da sola nel tentativo di picchiare
me. Sento mia sorella piangere, al piano di sopra, e mi strazia il
cuore il pensiero di doverla lasciare qui…
-Fuori!
Prendi le tue stronzate e vattene da qui!-
Mia
madre mi tira addosso libri, vestiti, scarpe. Con le lacrime che mi
rigano le guance, costringendomi però a rimanere in
silenzio, ficco
tutto il possibile in uno zaino, ripromettendomi di venire a prendere
il resto non appena lei sarà fuori di casa; in un lampo di
lucidità,
infatti, ho infilato anche le chiavi della porta sul retro sotto
tutto il resto, e lei non se n'è accorta.
-Non
voglio più vederti!-
…per
la prima volta da tanto tempo, mamma, sono d’accordo con te.
Eppure
vorrei non andarmene, vorrei restare e prenderti a calci
perché
davvero non se ne può più di te, del tuo odio che
riversi
sull’unica persona che non è più
disposta ad essere il tuo
scorticatoio morale e che, per questo, nella tua distorta visione del
mondo va allontanata e cancellata al più presto per
riportare la tua
supremazia al predominio incontrastato.
Vorrei
restare, vorrei lottare per la bambina che ho cresciuto come se fosse
mia mentre tu facevi carriera e, dopo, mentre ti lasciavi sprofondare
nella malattia che covi dentro da chissà quanto tempo, ma ho
solamente sedici anni e non posso portarla via con me. Non esiste
legge che me lo permetterebbe.
Vorrei
almeno riuscire a dirle addio, ad abbracciarla un’ultima
volta.
Ma
tu non me lo permetti. Mi spingi fuori di casa con veemenza,
ignorando le urla di quel padre che solamente ora sta cercando di
rimediare ad un danno che non può più essere
aggiustato, ed io cado
per terra, scorticandomi le ginocchia ed i palmi delle mani.
Vorrei
restare, mamma, ma non posso farlo.
Se
tu ci fossi ancora, là dentro, da qualche parte in quel
cancro di
rabbia e di sofferenza che ti è cresciuto
nell’anima e ti ha
divorata, rimarrei. Lotterei per avere indietro la mia mamma, fino
all’ultimo.
Ma
tu non ci sei più, mi dico, mentre mi rialzo e mi allontano
lungo il
vialetto di quella che non è più casa mia.
Non
ci sei più.
___
-Mia
madre era malata.-
Rimango
in silenzio, cercando d'impedire che il mio intero corpo
s'irrigidisca per la tensione che sento scuotermi dentro mentre Ray
continua a raccontare, incapace di fermarsi, incapace di trattenere i
ricordi che, come il contenuto del vaso di Pandora, una volta liberi
d'imperversare sembrano impossibili da rinchiudere una seconda volta.
-Ha
cominciato a soffrire di depressione quando aveva appena otto anni ed
aveva appena iniziato un ciclo di chemioterapia...- sospira, e sento
la sua voce incrinarsi e riempirsi di malinconia e di una densa,
pesante ironia che probabilmente, una volta, è stata
rancore.
-...certo, questo non significa che avesse il diritto di ridurre
anche me e mia sorella in quello stato.-
-Quanti
anni ha?- le domando, accarezzando lentamente la pelle morbida del
suo braccio. -Shirley.- preciso, in risposta alla sua espressione
confusa; lei sorride, mesta, abbassando lo sguardo.
-Ne
farà quindici il mese prossimo.-
La
tenerezza che vedo lampeggiare nello sguardo di Ray mi stringe il
cuore: non mi ha mai parlato di sua sorella, non mi ha mai nemmeno
detto
di avere una sorella,
ma la dolcezza e l'affetto che traspare dalle sue parole e dai suoi
gesti quando si riferisce a lei sono quasi palpabili.
Chissà
quanto le manca.
Sono molto affezionato a mio fratello Jack: siamo cresciuti insieme e
non saprei immaginare la mia vita senza di lui... non voglio nemmeno
provare ad immaginare la sofferenza che Ray ha provato, e
probabilmente prova tuttora, nell'essere tanto lontana dalla sua
sorellina.
-Le
scrivo tutte le settimane e lei mi risponde dopo appena un'ora al
massimo, mi scrive delle mail lunghissime per raccontarmi tutto
quello che le succede e tutti i pensieri che le girano in testa...-
sorride lievemente e tira su col naso, stringendosi ancor di
più a
me. -Aveva undici anni quando mia madre mi ha cacciata.- aggiunge,
cupa, abbassando lo sguardo.
Istintivamente
la stringo ancora più forte, perché i pezzi in
cui si sta riducendo
nel parlare di tutto questo hanno bisogno di essere tenuti insieme
–
e lo sa anche lei, perché si arrotola contro il mio petto e
appoggia
la fronte nell'incavo della mia spalla, respirando diverse volte per
recuperare l'autocontrollo.
-Perché
lo ha fatto?- le chiedo, infine, quando sento il suo corpo rilassarsi
un poco.
-Ufficialmente,
perché volevo uscire con un ragazzo.- risponde, con uno
sbuffo che
vorrebbe essere divertito ma che, ai miei occhi, appare soltanto
infinitamente triste. -Avevo sedici anni e un ragazzo mi aveva
invitata ad uscire con lui, era un ragazzo gentile e molto timido,
voleva solo offrirmi un cinema e una pizza...- si rannicchia un po'
di più, nascondendo il viso fra le ginocchia e lasciando che
solo la
sua arruffata massa di riccioli biondi e i suoi occhi blu spuntino da
sopra le sue braccia incrociate. -Non riesco nemmeno più ad
odiarla,
ora. Se ripenso a come si era ridotta provo solo una gran pena...-
Annuisco,
capendo il significato delle sue parole: i miei genitori mi hanno
insegnato a non odiare nessuno, per quanto male gli altri possano
fare, perché nove volte su dieci il dolore che infliggono
non è che
una minima parte di ciò che hanno subito loro... tuttavia,
nonostante questa mia convinzione, so che per Ray dev'essere stato
difficile lasciar andare il livore che ha sicuramente provato nei
confronti di sua madre.
-Invece
sei ancora arrabbiata con tuo padre.-
-Oh,
sì.- annuisce, e la rabbia lampeggia nuovamente fra le sue
parole e
nei suoi occhi. -Lui è un vigliacco.-
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-Papà?-
La
mia voce trema mentre serro le dita sulla cornetta del telefono
pubblico – incredibile eppure vero, esistono ancora i
telefoni
pubblici –, spaventata all'idea che non sia mio padre ad aver
risposto al telefono o, ancora peggio, che sia lui ma che non abbia
intenzione di parlare con me.
-Ray!-
il sollievo che mi riempie quando sento l'esclamazione rasserenata di
mio padre è enorme. -Stai bene? Dove sei?-
-Sono...
alla fermata degli autobus. Papà...-
Non
devo piangere, non devo piangere, non devo piangere. No, no, no,
respira, prendi fiato, calmati e stai tranquilla: andrà
tutto bene.
Papà sistemerà le cose, ha sempre sistemato le
cose, vedrai che
andrà tutto bene... non piangere, Ray.
-...papà,
vieni a prendermi.-
-Arrivo
appena posso.-
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-E
non è mai arrivato?- le chiedo, ma conosco già la
risposta.
-Mai.-
Come
può, un padre, fare una cosa del genere ad una figlia?
Non
sono un illuso, so che sono fin troppe le cronache di padri violenti
che abusano delle figlie, di genitori senza un briciolo di
moralità
che le sfruttano, le maltrattano e, purtroppo, le uccidono... ma
ciò
che mi sta raccontando Ray è comunque inconcepibile,
perché sono
cresciuto in una famiglia in cui tutti mi hanno sempre amato e
incoraggiato a diventare la persona migliore che io potessi essere:
per me è difficile, se non quasi impossibile, pensare a come
dev'essere stato essere seduti là, alla fermata di un
autobus,
aspettando un padre che non era mai arrivato.
-Passai
la notte all'addiaccio. Era primavera, ma di notte faceva ancora
molto freddo... a volte mi sento ancora quel gelo dentro.- continua,
e rabbrividisce nonostante l'afa estiva che permea l'aria – ecco
perché odia così tanto sentirsi
l'umidità addosso,
realizzo.
-Al
mattino, quando riuscii a smettere di piangere, presi il primo
autobus e andai da mia nonna. Le spiegai che cosa era successo e lei
mi disse che dovevo andare via, che dovevo scappare ora che ne avevo
la possibilità. Io però non volevo lasciare
Shirley in balia di mia
madre...- la voce di Ray scema e muore nello stesso momento in cui i
suoi pugni si serrano.
-Così
chiamai i servizi sociali.-
Il
tono incolore con cui pronuncia queste poche parole mi fa accapponare
la pelle.
Dev'essere
stato orrendo, per Ray, affrontare la consapevolezza di aver
strappato sua sorella ai genitori, di aver sicuramente ferito quel
padre e quella madre che, in fondo, aveva amato, di aver
probabilmente traumatizzato quella bambina che stava solo cercando di
proteggere...
-Portarono
via mia sorella due giorni dopo che io avevo lasciato quella casa.-
prosegue, animata da un'urgenza febbrile che posso spiegarmi solo con
un bruciante desiderio di buttare fuori tutto, di liberarsi di quel
fardello che ha portato nascosto dentro di sé per tanti anni
– sa
che nulla di ciò che mi sta dicendo mi farà mai
cambiare opinione
su di lei, ma sbaglia: la stima che provo nei suoi confronti
è
appena aumentata considerevolmente.
A
sedici anni Ray ha compiuto una scelta difficile e drammatica, che la
maggior parte degli adulti prega, in segreto, di non dover mai
affrontare... ed è stata l'unica scelta possibile per
assicurare a
sua sorella Shirley un futuro sereno.
-La
affidarono alla nonna, diffidando mia madre dall'avvicinarsi... io
però non potevo restare lì.- ammette, ed un
sorriso triste le si
disegna in volto. -Io non ero sotto la tutela di nessuno, non__-
-Perché?-
la interrompo, perplesso, ma qualcosa mi dice che potrei già
conoscere anche questa risposta. -Perché non hai chiesto il
loro
aiuto?-
Ray
mi rivolge quella che vorrebbe essere una smorfia divertita ma che,
purtroppo, assomiglia molto di più all'espressione
perennemente
contratta ed angosciata di un veterano di guerra... ed un veterano
lei lo è davvero, realizzo, perché la battaglia
che ha combattuto –
contro sua madre, contro se stessa – le ha lasciato dentro
molte
più cicatrici di quante se ne possano contare.
-Volevo
andare via.- afferma, semplicemente, e c'è talmente tanta
tristezza
in quelle sillabe che anche King, che è rimasto silenzioso e
fermo
fino ad ora, si rianima per avvicinarsi a noi, sfregando la testa
contro il fianco di Ray per confortarla, per trasmetterle tutto
l'amore che prova nei suoi confronti.
-Amavo
mia madre, nonostante tutto. Sapevo che non sarei stata in grado di
stare lontana da lei se fossi rimasta in città, sapevo che
sarebbe
tornato tutto come prima... ma avevo fatto un passo troppo grande nel
toglierle mia sorella e sapevo che mi avrebbe solamente odiata e,
probabilmente, fatto anche del male.-
La
calma con cui Ray pronuncia queste frasi è agghiacciante.
Mi
accorgo di averla quasi soffocata nella mia stretta quando lei,
comprensiva, mi accarezza il dorso di una mano e intreccia le dita
alle mie, che si sono serrate sulla sua spalla con tanta forza da far
sbiancare le nocche.
Non riesco ad affrontare l'idea che qualcuno – sua
madre! –
possa aver desiderato di farle del male. Non posso,
è più forte
di me: soltanto il pensiero mi manda il sangue agli occhi, mi offusca
la vista, e la rabbia mi allaga i pensieri annebbiando il mio
giudizio.
Ray, che di sicuro ha capito cosa mi stia passando per la testa,
scuote i riccioli e si sporge per lasciarmi un soffice bacio sul
mento irruvidito dalla barba.
-Mia
nonna, quando avevo dieci anni, mi regalò un corso di
scherma per
principianti... io ne feci una passione e, più tardi, un
vero e
proprio talento.- continua, sapendo che solo la sua voce ed il suo
racconto potranno distogliermi dall'orrida consapevolezza che la sua
stessa madre,
la donna che
avrebbe dovuto amarla e proteggerla da ogni bruttura, abbia
desiderato di ferirla e di vendicarsi per un affronto che, in
realtà,
non è mai esistito. -Il mio insegnante era un
amico di nonna
e lei mi riferì che di lì a qualche mese ci
sarebbe stato un
concorso per un posto di apprendista a New York in una palestra in
cui insegnano tuttora la scherma e le arti marziali agli attori
famosi.-
Ray
riesce nel suo intento di distrarmi, me ne accorgo nello stesso
momento in cui ricollego i fatti di cui mi sta parlando e quelli di
cui, invece, ero già a conoscenza: Ray ha conosciuto Will
proprio
durante l'allenamento del suddetto biondo a New York, nella pausa fra
i due film di Narnia...
-Era
l'unica possibilità che avevo.- ammette, ed una luce
conosciuta
rianima quegli occhi blu che tanto adoro.
-Mia
nonna mi diede tutto quello che aveva e mi raccomandò di
stare
attenta. Abbracciai mia sorella e presi il primo autobus per New
York.-
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My space
Salve a tutti!
L'avevo detto
o no che sarei tornata su questa coppia e su questa
storia? Ed eccomi qui, con una mini-long che durerà 4
capitoli
contati (che sono già scritti, quindi non temete, gli
aggiornamenti saranno regolari e sicuri!) e che, finalmente, mostrerà ai
lettori e al povero Ben quello che Ray ha attraversato prima, in
America, quando ha conosciuto William.
In questo
primo capitolo possiamo vedere una sedicenne Ray molto
diversa da quella che abbiamo conosciuto nelle precedenti storie che ho
scritto su di lei: a sedici anni si è turbolenti, inquieti e
si
ha la testa calda, ed è così che lei si comporta:
scappa
da una situazione familiare molto difficile e si butta in un'avventura
assurda e senza garanzie di successo, fuggendo da una vita che non le
appartiene per poter cercare un posto dove imparare ad essere libera. Chi non l'ha desiderato, a
sedici anni, di fuggire? Vi confesso che io ci penso anche adesso, a
volte.
Spero che
questo progetto vi entusiasmi come ha entusiasmato,
emozionato e fatto soffrire anche me. Devo dire che tengo molto a
questi quattro capitoli, e il finale sarà una gradita
sorpresa
un po' per tutti, spero :)
Questa storia
è ambientata nel 2010, mentre Ben stava per cominciare a
lavorare per Killing Bono. Ho
fatto una faticaccia immane per far quadrare i conti temporali,
sappiatelo. Ed è tutta colpa di Ben che non sta mai buono.
Mi sono presa
una piccola licenza poetica: William Moseley non ha
seguito i corsi di scherma (e di recitazione) a New York ma a Los
Angeles, dove attualmente risiede. I bobby
sono i poliziotti inglesi e le informazioni che ho citato nel capitolo,
relative alle modalità di entrata in questo corpo di
polizia,
sono state prese da Google. Il titolo e la citazione presente
nell'introduzione della storia vengono dalla canzone Holding
on and letting go di Ross Copperman., mentre il titolo del
capitolo è quello dell'omonima canzone degli Imagine
Dragons, Lost cause.
Questa
è la tabella degli aggiornamenti: sarò
puntualissima, promesso.
NB: per chi
segue "Leggi per me", ho avuto qualche problema con il capitolo VI ma,
promesso, arriverà in tempi brevi anche quello!
CAPITOLO |
DATA |
I.
Lost Cause |
01/04/2015 |
II. Kiss the rain |
11/04/2015 |
III. Broken |
23/04/2015 |
IV. Let it go |
05/05/2015 |
E niente, ho
finito di sproloquiare! Spero vogliate farmi sapere che cosa ne pensate
:)
Un
grandissimo saluto,
B
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