NESSUNO
SI SALVA DA SOLO.
Il
ristorante era pienissimo, la gente continuava ad entrare ed uscire, ma
di Akito neppure l'ombra. Non riuscivo a intravederlo da nessuna parte,
ma era già da almeno quindici minuti che aspettavo quindi lo
chiamai al cellulare. Occupato, sicuramente con la sciacquetta di
turno. Non doveva importarmi, in ogni caso. Poteva stare con chi
desiderava, ma la punta di fastidio dentro di me era difficile da
zittire. Controllai di nuovo il telefono, per essere sicura che Sari e
Keishi non stessero distruggendo casa di mia madre che si era offerta
di tenerli durante questa serata con il mio ex marito.
Suonava persino strano dirlo, ex marito, ma da troppo tempo
considerarci come una coppia era stato ancora più difficile
del solito e le cose erano precipitate lentamente. Non ero riuscita a
capire il motivo, i nostri sentimenti ero sicura fossero sempre gli
stessi, ma probabilmente le circostanze della vita ci avevano
allontanato al punto che si era creato un muro tra di noi. Un muro
fatto di incomprensioni, frasi urlate nel bel mezzo della notte,
sospetti di tradimenti probabilmente mai avvenuti, e troppi silenzi. La
cosa peggiore erano stati proprio quei silenzi, ci avevano logorati.
Non parlavamo più, non ridevamo più, litigavamo e
basta, e per noi litigare era sempre stato il nostro modo di
dimostrarci amore. Ma dietro quelle litigate non c'era più
l'affetto, non c'era più il divertimento di infastidire
l'altro per poi fare pace, c'era spesso l'intenzione di ferire. Ecco
cosa ci aveva rovinati, cosa aveva messo fine a quello che avevo
considerato l'amore della mia vita. Non potrei nemmeno dire che non lo
è stato, perchè ho amato quel ragazzo con tutta
l'anima, e ho imparato anche ad amare l'uomo che è
diventato. Ma niente, niente di ciò che avevo cercato di
fare, era riuscito a salvare il nostro matrimonio. Avevo proposto una
vacanza, lontano dalla città che aveva accolto i nostri
infiniti litigi, per ricominciare, per lasciarci alle spalle i
problemi, eppure neanche quello era bastato. Avevamo passato una
settimana stupenda, poi, l'ultimo giorno, per un biglietto dimenticato
in albergo, le urla erano ricominciate e i buoni propositi ci avevano
abbandonati.
"Ciao, Kurata.". Alzai lo sguardo e vidi che era vestito di tutto
punto, probabilmente veniva da un incontro di lavoro, come sempre.
"Siediti, Akito.". Lui non aveva smesso di chiamarmi per cognome mentre
io non riuscivo più a farlo. Mi sembrava di tradire tutti
gli anni di bei momenti, gli anni di confidenze, anni in cui eravamo
stati felici.
Prese posto davanti a me, togliendosi la giacca e rimanendo con la
camicia bianca.
La cameriera si avvicinò a noi porgendoci i menù,
e continuava a fissare Akito come se volesse prendere il mio posto.
Gliel'avrei ceduto volentieri, ma i bambini venivano prima di tutto e
Keishi, in particolare, aveva bisogno del padre.
"Un'Antinori del 2008, grazie.". Scelse il vino e le
restituì l'elenco, senza degnarla di uno sguardo.
2008. Un anno che non avrei mai potuto dimenticare.
Mi venne da sorridere, ricordando il giorno della nascita di Sari, e a
pensare al casino combinato in ospedale perchè non sapevamo
nulla delle procedure, essendo la nostra prima figlia.
"Cosa ti diverte così tanto?". La sua voce mi sembrava
così lontana, come se non fosse la voce della persona che
era stata al mio fianco per un tempo lunghissimo. Come se non avessi
sentito quella voce ogni mattina negli ultimi dieci anni.
"Nulla, l'anno del vino mi ha ricordato bei momenti..." ammisi. Con
lui, nonostante tutto, non ero capace di fingere, non riuscivo mai ad
usare le mie doti recitative con Akito davanti. I suoi occhi
mi leggevano, ed era una cosa che detestavo, perchè io i
suoi non riuscivo mai a decifrarli. Erano oscuri, nascosti, non
lasciavano passare niente e nessuno.
"Sari..." sussurrò infine lui. Ricordavamo esattamente la
stessa cosa, e anche sul suo viso spuntò un sorriso.
Akito era
uscito dalla mia camera nel momento stesso in cui l'infermiera era
venuta con la bambina tra le braccia. Non sapevo come l'avrebbe presa,
già la notizia della gravidanza era stata difficile da
affrontare, sapevo perfettamente che gli sarebbe servito un po' di
tempo per abituarsi all'idea di essere davvero padre.
Ero
consapevole del fatto che non si era allontanato perchè non
voleva vederla, ma semplicemente perchè aveva bisogno del
suo tempo.
Non
passò comunque molto, forse qualche minuto, che lo vidi
rientrare di nuovo e correre ad abbracciarmi. Io ero inguardabile,
sudata in modo imbarazzante, ma felice come mai ero stata prima.
Guardai la mia bambina, la nostra bambina, e mi sembrò di
vedere l'essere più perfetto dell'universo. Poteva esistere
nulla di altrettanto perfetto? Era lì, piccola, indifesa, e
gli unici che avrebbero potuto proteggerla eravamo io e Akito.
"Ciao
piccolina..." sussurrò lui, trattenendo le lacrime. Ero
certa che l'avrebbe amata, ero sicura del fatto che le avrebbe
riservato ogni attenzione possibile, l'avrebbe persino viziata.
"Adesso
però dobbiamo dare un nome a questa bambola..".
Mi
sembrava quasi di non riconoscerlo, non era il mio Akito, il burbero
ragazzo che per nove mesi aveva evitato di parlare della bambina,
ancora troppo lontana da lui, che avebbe potuto portarmi via, come era
successo con sua madre.
Era
un Akito diverso, sembrava improvvisamente diventato uomo. Era un
papà.
"L'abbiamo
fatta noi, Aki.. ti rendi conto?". Non mi sembrava vero, pensavo che da
un momento all'altro mi sarei svegliata nel mio letto, senza il mio
pancione, senza Akito... come se fosse stato tutto un sogno.
"Si,
e se vuoi ti do una dimostrazione pratica di come l'abbiamo fatta.".
Risi. No, non era un sogno, era la realtà.
"Vacci
piano, uomo. Sono ancora tutta ammaccata."
Lui
mi sorrise e mi diede un bacio sulla fronte, per poi darmi un bavaglino
rosa con su scritto un nome. Lo aveva scelto settimane prima, senza
dirmi nulla, perchè sapeva perfettamente che mi sarebbe
piaciuto.
Sari.
"Benvenuta,
Sari..." sussurrò Akito mentre mi stringeva. Quello era
esattamente il mio angolo di paradiso.
"Allora... cosa abbiamo deciso di fare con i bambini?".
"Niente, proprio per questo abbiamo organizzato questa cena. Per
decidere insieme, come dovrebbero fare due genitori.".
"Abbiamo smesso di essere bravi genitori quando abbiamo permesso che il
mondo rovinasse la nostra famiglia, Kurata.".
"Non è stato il mondo, Akito. Sei stato tu a rovinarla."
Non avrei voluto dire quella frase, non era colpa sua se non avevamo
resistito alle difficoltà, ma lui era stato il primo ad
arrendersi, mentre io cercavo disperatamente di salvarci. Ma non
potevo, non da sola, non senza il suo aiuto. E lui, per quanto mi
amasse, aveva scelto la strada più facile, dopo una vita di
sentieri impervi, aveva deciso che di lottare era stanco, aveva preso
baracca e burattini e aveva lasciato casa nostra.
"Vorrei venire a casa, qualche volta.". Aspettai che la cameriera
poggiasse i nostri piatti sul tavolo e che si allontanasse abbastanza
da non sentire la mia risposta.
"I bambini soffrono quando vai via.". Era la verità, ma era
solo una parte della verità. Io soffrivo quando andava via.
E soffrivo così tanto che a volte non riuscivo neanche ad
alzarmi dal letto la mattina dopo. Mi svuotava, mi aveva svuotata anche
quando se n'era andato la prima volta. Quando l'ultima cosa che vidi di
lui quel giorno furono le sue spalle, mentre attraversava la porta e
spariva. Non avevo corso per fermarlo, aveva scelto liberamente di
andarsene e non potevo far nulla perchè rimanesse. Avrei
voluto poter fare qualcosa. Per i bambini. Per me.
"I bambini pensano che le cose torneranno come prima. Prima o poi
dovranno abituarsi alla mia assenza."
Avrei dovuto farlo anch'io, ecco cosa c'era di diverso.
"Si, lo faranno. Sari l'ha già fatto in realtà,
è Keishi quello che mi preoccupa di più. Pensa
che tu ci abbia abbandonato."
"E tu? Tu che pensi?". Non avrebbe dovuto farmi quella domanda,
perchè non avrei saputo controllare la risposta.
"Penso che hai fatto presto a fare le valigie e andare via, ecco quello
che penso."
"Quindi che vi ho abbandonati."
"Hai abbandonato i tuoi figli, non me. Io me ne sono fatta una ragione
tempo fa."
Mentivo, Dio quanto mentivo...ma non potevo dare a vedere il mio stato
d'animo, o ci saremmo ritrovati punto e a capo, e non si poteva
continuare in quel modo. Dovevamo crescere, allontanarci per sempre,
far finta che le nostre strade si fossero incrociate per un breve
tragitto e che poi, per volere del destino, si fossero separate, senza
alcuna cicatrice, senza alcun dolore, rimorso o rimpianto. Era finita,
e dovevamo accettarlo.
"Ne ero certo, non mi aspettavo di certo che versassi una lacrima per
me.".
Ma come ci eravamo ridotti a parlarci in quel modo?
"Ne ho versate fin troppe molto tempo fa, ora ho capito che non ne vale
più la pena."
"Non ne è mai valsa la pena, per te."
Decisi di non rispondere alla sua provocazione e presi un'altro boccone
di pesce, in silenzio.
"Senti, siamo venuti qui per decidere cosa fare con i bambini durante
le vacanze estive, quindi cerchiamo di non uscire armi da fuoco fino
alla fine della serata, va bene?".
E quella gli sembrava un'offerta di pace? Avrebbe dovuto impegnarsi un
po' di più.
Comunque annuii, sperando che la serata passasse il più
velocemente possibile.
*
"Di chi ti stai occupando per adesso?", chiesi quando la cameriera ci
portò il secondo.
"Di un ragazzo che è arrivato da poco alla palestra,
è bravo, ma niente di eccezionale.."
"Non è te, ovviamente."
"Non ho detto questo. Se si impegna almeno un po', ce la
farà."
"Non è di certo l'incarico che ti aspettavi, immagino."
"No, non lo è, ma il lavoro è lavoro e, per
fortuna, posso ancora permettermi di decidere con chi lavorare."
Una frecciatina che avrebbe potuto evitare ma che, prendendo
l'argomento lavoro, sapevo avrebbe fatto.
Lui non sapeva quanto io lo odiassi. Non aveva idea di quanto io
detestassi il mio lavoro per quello che ci aveva fatto. Avevo sempre
saputo che ci avrebbe creato dei problemi, ma non immaginavo che
sarebbe stato uno dei motivi che aveva portato alla fine del nostro
matrimonio.
"Io ho preso una pausa, dopo l'ultimo incarico che ho avuto vorrei
stare un po' con i bambini. Sai, la situazione è
già difficile, non voglio che sentano lontana anche me."
Anche questa era una mezza verità. Avevo chiesto a Rei di
non cercare lavoro per un po', non avevo la forza per affrontare un
divorzio e, contemporaneamente, le follie di qualche regista
psicopatico. Non avevo voglia di lavorare, volevo solo chiudermi nella
mia camera e mangiare chili di gelato. Certo, mi rendevo conto che, con
due bambini, non sarebbe stato facile, e soprattutto che non potevo far
pagare a loro ciò che io e il loro padre stavamo passando.
Era colpa nostra se le cose erano andate male e noi dovevamo gestire i
nostri sentimenti. Loro si sarebbero abituati, prima o poi, i figli di
genitori separati soffrono, ma crescono. Devono affrontare presto le
loro paure, e forse quella era una cosa positiva.
Ero una bugiarda.
Avrei voluto che non dovessero mai affrontarle, quelle paure.
Perchè ci saremmo stati sempre io e Akito a scacciarle via.
Ma non eravamo stati capaci neanche di quello.
"Sei dimagrita."
"No" risposi secca. "Sono sempre la stessa.". Mentivo stavolta. Avevo
perso almeno cinque chili, non mangiavo molto nell'ultimo periodo, ma
nessuno prima di lui se n'era accorto. Forse perchè mi
conosceva come nessuno, anche nei particolari delle mie forme.
"Ieri i bambini mi hanno chiesto perchè papà non
li è venuti a prendere martedì. Ho dovuto dirgli
che avevi avuto un impegno improvviso a lavoro."
I bambini lo avevano aspettato per un'ora, poi avevano capito che non
sarebbe venuto e si erano rassegnati ad andare a dormire. Sari aveva
voluto comprare un vestitino nuovo per la serata con papà,
ed era così felice di farglielo vedere. Keishi si era fatto
i capelli come lui, ridendo dentro la vasca da bagno. Lo avevano
aspettato, e lui li aveva delusi.
"E' la verità, infatti. Tsuyoshi mi ha chiamato mentre mi
vestivo perchè aveva bisogno di alcuni documenti dei ragazzi
del corso pomeridiano."
"Non m'interessano le tue spiegazioni, ne' perchè non sei
venuto. I tuoi figli ti hanno aspettato, Sari è andata a
letto solo perchè le ho promesso che l'avrei svegliata se tu
fossi arrivato.". Finalmente alzai lo sguardo e lo fissai dritto negli
occhi. "Ma, ovviamente, non sei arrivato...".
Lui invece prese a giocare con l'insalata che aveva nel piatto,
cercando di evitarmi. Non era da Akito. Quelli non eravamo noi.
"Mi dispiace... ho dimenticato di avvisare, gli impegni si sono
sovrapposti e... mi dispiace, punto."
"Si, anche a me dispiace."
"E per cosa?".
Presi il mio piatto, con carne e crema di funghi, e glielo gettai in
faccia.
"Per questo.".
"Sai cosa si dice dei
primogeniti?". Era passato un mese da quando avevamo portato a casa
Sari dall'ospedale, finalmente potevamo goderci la nostra nuova vita
come una normale coppia. Non dormivamo da giorni, avevamo delle
occhiaie mai viste, eppure sorridevamo continuamente. Non avevo mai
visto Akito sorridere così tanto. Sorrideva quando Sari si
svegliava, quando piangeva, quando urlava, quando voleva mangiare,
persino quando doveva cambiarle il pannolino.
"No,
cosa si dice? Che i padri diventano degli stupidi se sono femmine?"
Lui
scoppiò a ridere e venne a sedersi sul divano vicino a me.
"No,
cretina. Che sono sempre quelli che poi verranno meno coccolati quando
arriverà il secondo.".
Forse
aveva ragione, il secondo figlio è quello a cui si dedicano
più attenzioni, forse perchè si pensa che il
primo non ne abbia più bisogno.
"Stai
tranquillo, Akito... Sari rimarrà sempre la tua
principessina, anche se dopo ne verrà un'altra."
Lui
annuii, poco convinto di ciò che dicevo. Sperai che capisse
che, anche se avessimo avuto altri figli, l'emozione che avevamo
vissuto con lei, non sarebbe mai stata eguagliabile.
Niente
è così bello come quando accade la prima volta.
"Tu sei una pazza.". Si tolse la crema dalla faccia, cercando di pulire
alla buona la camicia bianca che ormai solo la lavanderia avrebbe
potuto salvare.
"Saresti dovuto venire. Li hai lasciati lì', ad aspettarti,
senza dire nulla. Sono stati tristi tutta la sera!"
"Mi dispiace, okay?! Mi dispiace!! Non posso farci niente, l'ho fatto,
mi dispiace, ma ora basta!!" urlò. Tutti dentro al
ristorante si girarono a guardarci, stavamo dando spettacolo e, se
qualcuno mi avesse riconosciuto, ci saremmo ritrovati giornalisti
ovunque.
Mi venne da piangere. Non riuscivo a trattenere le lacrime.
"Adesso piangi pure?! Ma perchè sei così?
Perchè Sana?!".
Le lacrime cominciarono a scendere ancora più copiosamente
quando lo sentii pronunciare il mio nome. Non lo faceva da molto tempo.
"Loro devono sapere. Non devono ricordare solo questo. Devono sapere
che prima delle liti, delle urla, dei casini... c'era amore. Che prima
di tutto questo schifo ci siamo amati tanto!".
Akito sbattè il tovagliolo sul tavolo, sbuffando, e io non
sapevo più cosa dire. Avevo fatto di tutto, avevo provato di
tutto... non era stato abbastanza.
"Non sono stato io a rovinare le cose, almeno non da solo. Le liti, le
urla, i casini, li abbiamo fatti insieme. Abbiamo fatto anche l'amore,
ma a volte neanche l'amore basta.".
Lui sembrava impassibile, mentre io morivo dal dolore.
"A me bastava! Hai capito? A me sarebbe bastato! Ma tu hai deciso di
andare via... io non l'avrei mai fatto."
"Forse perchè non avevi il coraggio che serviva."
"No, forse perchè ne avevo fin troppo di coraggio."
*
"I
bambini li prendo durante i week-end, durante la settimana ho sempre
lezione, non ce la faccio."
"Prima avevi sempre tempo per i tuoi figli. Arrivavi a casa e Keishi ti
saltava addosso chiedendoti di giocare con lui, Sari si prendeva il
bacio che aspettava per tutta la giornata... adesso hai sempre lezione,
non ce la fai."
"Non è colpa mia se mi sono dovuto trasferire in un bilocale
del cazzo."
"E di chi è la colpa? Tu hai fatto le valigie, io non ti ho
mai detto di andartene."
"Forse non l'hai detto, ma non aspettavi altro."
Mi sporsi verso di lui e gli mollai un ceffone.
"Non dirlo mai più, hai capito? Mai più. Tu
perchè non lo ammetti, che non mi ami più? Dillo!
Dillo che non mi ami più, e le cose saranno più
semplici."
"Non posso."
"Non preoccuparti per il mio cuore, te ne sei fregato tempo fa,
figurati se mi ferisci con una frase così."
"Non è del tuo cuore che mi preoccupo, ma del mio. Non posso
dirti che non ti amo più, perchè non è
vero. Io ti amo ancora. Ti amerò per sempre. Anche se non ti
sopporto."
Le sue parole mi lasciarono interdetta per qualche secondo, non sapevo
se fossero vere o no.
Da una parte gli credevo, aveva quasi le lacrime agli occhi nel dirlo,
ma dall'altra come facevo a credergli se aveva lasciato me e i bambini,
per dei capricci?
Non riuscivo a non pensare al giorno del nostro matrimonio, alle nostre
promesse... tutte quelle parole, dov'erano finite?
"Quando
eravamo piccoli ti odiavo, sai? Avrei voluto non averti mai conosciuta,
perchè in un giorno eri riuscita a toccarmi come mai nessuno
nella mia vita. Mi avevi messo in discussione, e non mi era mai
successo.
Non
ero abituato ad essere sfidato, e tu lo facevi. Lo facevi
continuamente. Non voglio prometterti un matrimonio perfetto,
litigheremo, di questo ne sono certo, ci saranno periodi bui ma... ti
prometto che le cose si risolveranno. Qualsiasi cosa succeda, qualsiasi
persona entri a far parte delle nostre vite, io ti prometto che non
riuscirà ad intaccare il nostro rapporto. Noi siamo un carro
armato, Kurata, e i carri armati non vengono abbattuti."
Non
mi aspettavo una cosa del genere da lui. Non pensavo neanche che
avrebbe scritto qualcosa, ma le sue parole mi fecero rabbrividire.
Aveva ragione, eravamo un carro armato. Presi il mio foglio e, con le
lacrime agli occhi, cominciai a leggere.
"Tu
non eri nei miei piani. Non lo sei mai stato. Ma, nel momento stesso in
cui il mio cuore ha capito cosa rappresentavi per me, non ho aspettato
altro che questo momento. La mia promessa è una, ed
è semplice. Io ci sarò. Ci sarò quando
le cose andranno bene, quando andranno male, è con te che io
voglio riempire la mia vita, e sarà così...
finchè morte non ci separi."
"Lo
sai anche tu che non possiamo basare più la nostra vita su
un ti amo. Ci amiamo, ci ameremo sempre... ma come facciamo a far
funzionare le cose se non riusciamo neanche a discutere senza urlarci
contro?".
La
cameriera ci portò il dolce, segnale che la serata stava
finendo.
"Non
lo so, Kurata... Non lo so."
Sentivo
nelle sue parole una rassegnazione che io non avevo mai avuto, che
speravo di non avere mai. Non volevo rassegnarmi, volevo credere,
volevo sperare. Volevo amarlo, volevo che lui mi amasse disperatamente,
come io avevo sempre amato lui.
Mangiammo
la torta al limone in silenzio, chiedendo poi il conto e litigando
perchè io avrei voluto pagare. Lui non me lo permise, come
sempre, e io uscii dal ristorante arrabbiata.
Camminammo,
camminammo molto. In silenzio. Nessuno dei due sapeva cosa dire.
Entrambi ci sentivamo sperduti, in una situazione che non ci
apparteneva. Tutte le molecole del nostro corpo si attraevano, si
cercavano, ma non si toccavano mai.
I
nostri sguardi si incrociavano, si sfioravano, ma non riuscivano mai a
tenersi.
Eravamo
destinati ad essere due linee parallele che non si sarebbero mai
incontrate.
Quando
tornammo alle nostre macchine, entrambi ci guardammo come se fosse
l'ultima volta che ci vedessimo. Ero spaventata a quell'idea, ma sapevo
che non potevo evitarla. Sapevo che, prima o poi, i bambini sarebbero
cresciuti e che noi non avremmo più avuto nessuna scusa per
essere legati.
"Ci
pensi mai a come sarebbe andata, se invece di mollare avessimo
resistito?".
La
sua domanda mi travolse come un treno, ugualmente la consapevolezza
che, se solo avessimo voluto, avremmo potuto sistemare le cose. Per
questo, mi avvicinai a lui e, invece di salutarlo come mi ero
programmata di fare, lo baciai. Lentamente. Un bacio come i vecchi
tempi. Un bacio puro. Un bacio che avrei voluto non finisse mai.
Akito
mi avvicinò ancora di più a se', stringendomi dai
fianchi.
Forse
due linee parallele possono incontrarsi, forse noi due eravamo
un'eccezione. Due linee parallele che fanno dei percorsi complicati, si
allontanano, si avvicinano, ma alla fine non possono fare a meno di
unirsi, per sempre, come avevamo fatto noi tanto tempo prima.
"Resistiamo
adesso... ti va?" chiesi, sperando di non essere l'unica a volerlo. In
un millesimo di secondo pregai ogni dio di cui ero a conoscenza, non
potevo perderlo un'altra volta.
"Siamo
un carro armato." rispose infine lui.
Gli
gettai le braccia al collo e cominciai a piangere, perchè
mai avrei potuto immaginare che la serata che temevo tanto sarebbe
finita in quel modo.
I
carri armati possono essere scalfiti, ammaccati, ma mai distrutti.
Noi
eravamo un carro armato.
Bè...
lo so che dovrei aggiornare University life, ma oggi ho rivisto il film
Nessuno si salva da solo e le idee hanno affollato la mia mente. So che
troverete MOLTISSIME uguaglianze con il libro (che non ho letto) /
film... e non voglio assolutamente nessuna pretesa, perchè
è semplicemente qualcosa che mi ha ispirato e mi piaceva
riproporla con protagonisti i due amori della mia vita, tutto qua.
Ringrazio già da ora chi l'avrà letta, chi
deciderà di lasciarmi una recensione, solo per farmi sapere
il suo parere, anche negativo, non importa.
Spero
che non vi crei problemi, un bacio... e al prossimo capitolo di
University life!
Akura.
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