dedicata a Fujiima
e a Furbacchina,
che mi hanno inserito tra i loro autori preferiti. Grazie
I SOGNI
La notte scese a coprire le articolazioni fredde
e reumatizzate del cielo. La luce finta dei lampioni dava un senso alle
strade, le infinite strade che percorrono il buio. Ad ognuno tocca la
propria. La mia (non che io sia uno solito a criticare il
fato…) era però più scura, o forse
meno illuminata. Insomma, era meno finta. D’improvviso
intravidi una sagoma, scura (ovviamente), in lontananza. Mi veniva
incontro. “Senz’altro suggestione”
pensai. Ma non era così. Una donna bellissima, acerba in una
bellezza intoccabile ma già sfiorata con la mente, stava
percorrendo il mio stesso tragitto. Le sorrisi. Certo un sorriso da
lontano, nel buio, non tange. Ma si sente, comunque. Lo so, sono sicuro
che anche lei, beffarda, quasi per gioco, mi rispose con un altro
sorriso: più vissuto, malizioso e forse anche più
autentico del mio. Poi tutto tacque. Anche il buio.
Mi ritrovai, con il fiatone e il cuore battente, tutto sudato, nel
letto della mia semplice stanza. Le palpebre, che raramente tendono ad
aprirsi così di getto, fendevano ad ogni battito
l’indeciso colore cupo, da serranda abbassata, che riempiva
la mia camera. Il rumore ripetuto, matematico ed incessante del mio
respiro torturava i miei timpani, che fino ad un istante prima erano
immersi nell’atavico silenzio. Neanche una bestemmia, una di
quelle che fanno aprire il cielo, sarebbe riuscita a colmare il divario
tra realtà e sogno. Mi alzai, asciugandomi la fronte, e mi
diressi, con indosso il mio pigiama ridicolo, in cucina. Il frigo non
mi riservava che latte. Scaduto. Presi un bicchiere e lo riempii con
l’acqua del rubinetto. Bevetti tutto d’un sorso ed
incominciai stupidamente, tentato dal sonno, ad appannare alitando il
vetro del bicchiere.
Senza nemmeno fare rumore, dalle mie spalle, giunse un profumo di rose
e di arance che mi coprì il capo come la cenere in tempo di
Quaresima. Voltandomi di scatto, sapendo già cosa avrei
trovato, la rividi lì, ad un palmo da me, che mi fissava con
quegli occhi di madreperla. Ero il suo bicchiere. Cominciò
con il suo respiro ad appannarmi i sensi, a sradicarmi dalle percezioni
che congiungono ogni uomo al proprio mondo. Mi sentii inebetito,
pallido nel fuoco del desiderio che mi consumava. E chiusi gli occhi
strizzandoli con violenza, per scindere la bellezza dalla tentazione di
quel volto etereo che non concedeva niente alla mia ragione.
Riaprii gli occhi ed ero ancora in cucina, con il capo chino sul
tavolo: innanzi il bicchiere, vuoto. Mi ero nuovamente addormentato.
Portai indice e pollice della mano sinistra al principio del naso,
assumendo una posa meditativa. Ma non c’era nessuno che mi
avrebbe potuto immortalare in una foto, ed il pensiero – oggi
– non è fatto che per farsi applaudire in un
teatro. E poi, su cosa avrei dovuto meditare?… sul sonno, il
sonno elefante che mi perseguitava dalla sera prima, complice una
nottata in bianco? No, non c’era niente su cui riflettere, ed
allora decisi di tornarmene a letto, per dormire finalmente, sperando
di poter dimenticare anche i sogni nel sonno. Ma l’oblio che
mi ero proposto non mi sorvegliò che per il breve tragitto
che conduceva dalla cucina alla mia stanza. Una volta lì,
rimasi impietrito accanto alla porta. Nel mio letto dormiva lei, quella
donna che mi aveva disturbato il sonno. Quella maledetta vergine
terrena che mi aveva tolto l’ossigeno nei sogni. Ed allora,
preso da un’insopprimibile ira, con un ghigno di assoluta
violenza, afferrai tra le mani il cuscino e soffocai
quell’insostenibile tentazione.
Io amavo mia moglie. L’avevo sempre amata. Eppure, quando con
gli stessi occhi provi a guardare lo stesso mondo, ma lo scopri diverso
da come te lo ricordi, beh…allora non puoi fare altro che
scegliere una delle strade che il fato ti ha offerto, e distruggere
l’altra. Resta infine, però, un canto, un canto di
sirene in lontananza, che ti rammentano l’occasione perduta.
Che ti perseguitano, ricordandoti che non c’è mai
sogno che tenga alla realtà.
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