Fate1
.:Fate:.
Prologo - Il Death Note
*\* Mm... Non
mi picchiate!
ù.ù
Ecco, dopo il mio sclero-urletto vi spiego un po' da dove esce questa
storia: è colpa di Elie. Sìsì. Aveva
scritto una storia, tempo fa, che oggi mi ha fatto leggere. E io l'ho
costretta ad accettarmi come partner e scriverla con me. XD
La riscriveremo da capo.
Poi... *.* Ci ispireremo a DN! [Death Note per i profani]
Ovviamente, la storia sarà diversa.
ù.ù Ma... Leggete, vah. XD E commentate, se
volete il prossimo capitolo! XD (Se non si fosse capito, sono quella matta di Roro XD). */*
“In piedi.
Saluto!”.
Sollevai
appena gli occhi dal quaderno consumato,
continuando a giocherellare con una penna che avevo rinvenuto nei
meandri del
mio astuccio, nascosta da un evidenziatore che
non avevo mai usato e una gomma da cancellare nuova di zecca.
Facevo il
minimo indispensabile, a scuola, con risultati ugualmente ottimi.
E mi annoiavo comunque.
“Kagome,
c’è Koga alla porta”, mi
avvisò una mia compagna di classe – bassa, e
piuttosto
tarchiata –, indicandomi l’avvenente youkai che mi
attendeva accanto
all’ingresso. Il suo sguardo era curioso,
e si aspettava di vedermi saltellare di gioia, alla notizia che il mio
nuovo
ragazzo – o, perlomeno, quello che si professava tale
– aveva deciso di
lasciare la sua classe per raggiungere me, una primina.
Sospirai.
Koga.
L’ennesimo
problema della mia vita.
Per
carità, bello, con un sorriso mozzafiato, abbastanza capace
nello sport e
assolutamente negato per tutto il resto.
Bello, ma inadatto. Per me, almeno.
“Arrivo
subito!”, borbottai, afferrando malamente il mio quaderno di
matematica e
riponendolo, indispettita, all’interno dello zaino rosa
confetto. Avevo dei
gusti assurdi. Che schifo.
Non
avevo voglia di sopportarlo, quel giorno. Non avevo voglia di
sorridere, gentile,
e di chiedergli – ipocrita
–
informazioni – di cui non mi
interessava
nulla – sulla sua giornata. La nostra relazione era
così effimera che
ridacchiai, pensando a come sarebbe stato bello mollarlo davanti a
tutti senza
una spiegazione. Avrei trovato eccitante,
sentirmi dare della puttana, e
della traditrice.
Ma
Koga era un gentleman. Neppure se avessi baciato con
la lingua un altro ragazzo davanti a lui, mi avrebbe
insultata.
Era
un idiota.
“Ciao,
tesoro”, mormorò, vedendomi. Si sporse in avanti,
attendendo un mio gesto, ma
io lo ignorai palesemente, continuando a sistemare l’interno
del mio zaino.
“Ciao”,
dissi a denti stretti, perseverando a camminare, imperterrita.
“Oggi il
professor Totosai ci ha fatto la predica. Sono ancora
arrabbiata”, spiegai – falsamente
– per rabbonirlo. Poverino.
Lo trattavo sempre piuttosto male.
Lui
sorrise, afferrandomi per la vita e camminando abbracciato a me. Odiavo quel contatto. Ma, alla fin fine,
detestavo fare del male alle persone – specie se innamorate di me. Ero una crocerossina.
Mia mamma lo ripeteva sino alla nausea, mio nonno lo diceva per
scherzare, mio
fratello mi insultava per questo.
Non
riuscivo a maltrattare nessuno.
Ipocrita.
Preferivo
sorridere gentile.
Ipocritamente.
“Andiamo
a casa mia?”.
Mi
fermai di botto, stringendo convulsamente le dita intorno allo zaino, e
lasciando andare i lacci con cui stavo giocando. Non
aveva ancora capito nulla. “Ti ho ripetuto
centinaia di volte
che non desidero fare nulla. Non ti
basta starmi accanto?”, sbottai, dimenandomi – la
presa sui miei fianchi
s’intensificò, ma scorsi nei suoi occhi un velo di
scuse. Non mi lasciai traviare.
“Koga, mollami. Voglio tornare a
casa mia. E tu non sei compreso nel
mio itinerario giornaliero”.
Sospirò
– affranto – e
mi lasciò andare.
Sentii il mio corpo reagire di sollievo, e mi domandai – per l’ennesima volta
– perché avevo accettato di stare con lui, se non lo desideravo.
Non
ero bella.
Non
particolarmente, almeno.
Un
metro e sessantasei scarso, i capelli ondulati lunghi sino a
metà schiena e gli
occhi eccessivamente grandi. Colori banali – nero
e cioccolata –
e
stereotipati creavano un orrendo contrasto con la mia carnagione
pallida, e la
mia aria stressata non mi aiutava
ad
apparire bella, donandomi due occhiaie spaventose.
Non
capivo cosa ci trovasse Koga in me.
E non mi importava.
“Scusami”,
mugugnò, facendo un passo indietro e sospirando.
“Non volevo irritarti, Kagome.
E la mia proposta non aveva quella
motivazione. Pensavo… Pensavo che avremmo potuto studiare
insieme”. Le sue
ultime parole – false
– furono un
flebile sussurro, e lo osservai mettersi la mani in tasca, abbassando i
suoi
occhi color del mare. Era imbarazzato. E sapeva che non me la sarei
bevuta.
Tenero, alla fin fine. Stronzo,
ma tenero.
“Oggi
torno a casa da sola”, commentai, dandogli un colpetto sulla
spalla e
allontanandomi lungo il corridoio, lenta e indispettita.
Poteva
avere tutte le ragazze della scuola.
Aveva
scelto me, ma, se gli avessi dato buca, ci sarebbero state trecento ragazzine urlanti disposte a
consolarlo.
Lo
tenevo legato a me solo per non darlo a loro, in realtà.
Salutai
svogliatamente la bidella seduta all’ingresso, poggiando la
mano sull’enorme
maniglia antipanico e spingendola verso il basso – con un clic rugginoso si aprì, e io
uscii all’aria aperta, seguendo i miei
compagni di classe per il vialetto.
Una folta di vento.
Mi
voltai, notando che il mio fermacapelli – il mio fermacapelli
preferito – era volato
via, atterrando
qualche metro più in là, nei pressi del magazzino
in cui solevamo riporre gli
articoli sportivi. “Cavolo”, commentai sottovoce,
correndo sull’erba ancora
umida per la precedente pioggia e chinandomi.
C’era
qualcosa di strano, lì.
Dalla
minuscola stanza proveniva un cupo rumore – ferro
che sbatte – e una voce, roca e divertita,
raggiunse le mie orecchie.
Sobbalzai.
“Chi sei?”, chiesi, ben conscia che no,
non avrei ricevuto risposta.
Era
forse Koga?
Magari,
voleva punirmi. Voleva prendermi un po’ in giro per averlo
piantato ancora una volta in asso.
O, forse,
voleva attirarmi nello stanzino solo per gioco. Voleva farmi
paura.
Ridacchiai,
aprendo la porta e chiamandolo a gran voce.
Nessuno.
La
stanza era vuota.
Non
un’anima, non una persona. Solo palloni, tappetini e corde
per saltare.
Null’altro.
“Koga,
se il tuo è uno scherzo non fa ridere”, sbottai,
frustrata. Ero insofferente
alle prese in giro, e odiavo cordialmente coloro che sfottevano.
Se Koga non l’avesse smessa, non gli avrei più
rivolto
la parola.
Era una promessa.
“Koga?”.
Inciampai.
C’era
qualcosa, sul pavimento. In quei
pochi metri – era la stanza più piccola di tutto
l’istituto – c’era qualcosa
di strano. Gattonai un po’,
finché con le dita non sfregai quel
qualcosa.
“Che…?”,
esordii, alzandolo – un quaderno.
Un
banalissimo quaderno nero, unto, sporco, vecchio.
Banale,
e inutile.
“Chi
ti ha dimenticato?”, chiesi retorica, aprendo la copertina. Non c’erano nomi. Solo una
scritta,
scolorita. “Death Note?”,
lessi,
sfiorandola. Era incavata nel nero.
Le parole erano ossa bianchissime,
e
le osservai, sorridendo. Intrigante.
Poi
un rumore – passi – raggiunse le mie orecchie. Mi
voltai di scatto, incontrando
due iridi d’oro.
“Tu
chi sei?”, mormorai, la voce rotta dal terrore
e l’adrenalina che scorreva nelle vene.
Lui
rise, passandosi una mano tra i lunghi capelli d’argento e
sospirando. “Uno
Shinigami”, gongolò, facendo un passo in avanti ed
inchinandosi – beffardo.
Mi stava prendendo in giro. “Salve,
nuova padrona del Death Note”.
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