La casotta
bianca e gialla riposava quietamente
nell’angolo più recondito della piazza. Il vento
tiepido spazzava senza posa
l’acciottolato polveroso, mentre i caldi raggi di sole, di un
doloroso giallo
brillante, incendiavano le guarnizioni in ottone della statua al centro
della
piazza.
Se la Piazza
aveva avuto un nome, ora non lo ricordava più nessuno.
Se la Statua
rappresentava realmente qualcosa, qualsiasi cosa, di
certo nessuno sarebbe più stato in grado di dire cosa,
esattamente.
Era una
Statua Senza Volto al centro di una Piazza Senza
Nome, accerchiata a sua volta da tante case, di tanti tipi diversi,
tutte senza
scopo.
In effetti
le case, al sole del primo pomeriggio,
apparivano dolci e fresche, pitturate com’erano di colori
brillanti e vivaci,
colori che risaltavano sul bianco dell’intonaco come il
sangue sulla pelle
bianca. Ognuna aveva il suo cortiletto, ovviamente delimitato da alte
ed aguzze
sbarre, terminanti in poco rassicuranti spuntoni. Il portone principale
di
ognuna era invariabilmente rosso, l’erba invariabilmente
verde, i muri
invariabilmente bianchi. E le pareti sembravano frutto delle crisi
d’isteria di
un pittore pazzo, che piangendo e ridendo dipingeva i suoi incubi su
ognuna di
quelle facciate, che accerchiavano la Piazza Senza
Nome, che toglievano luce alla
Statua Senza Faccia.
Eppure,
eppure.
In quella
piazza oppressa, a portata d’occhio della
Statua Senza Volto, vi era una casotta che, piuttosto che imporre la
propria
ombra e la propria snella e alta presenza, sembrava sforzarsi di essere
la più
bassotta tra tutte le case, la più polverosa tra tutti i
giardini, la più
scrostata tra tutti i portoni.
Le sue
pareti erano il gioco ad incastro di disordinate
macerie, il portone più grande dell’uscio, il
rosone composto da vetri colorati
di diverso tipo, colore e consistenza. Il suo giardinetto sembrava
avere il
morbillo, dato che l’erba verdina era costellata di
cespuglietti d’erbacce di
un verde cupo e chiazzata di macchie d’erba secca, alla
portata del piede di
qualunque estraneo, dato che non v’era traccia di recinto
nè di sbarre, nei
pochi metri di quel giardinetto.
La
Ragazza Stanca continuò a fare
paragoni tra la
graziosa Casetta Perfetta alle sue spalle e la Goffa
Casotta
grassotta alla sua sinistra. La sua voce, sciupata e stanca, eppure
ancora
squillante dell’allegria distratta di qualche tempo fa,
risuonava dentro il
guscio stanco del suo corpo con lo stesso rumore secco di mille semini
dentro
il guscio di cocco di una maracas. La pelle della ragazza era bruciata
dallo
stesso sole che screpolava la tintura della casotta grassotta, i suoi
capelli
erano crespi a causa dello stesso vento tiepido che rimuoveva la
polvere
dell’acciottolato della Piazza Senza Nome. Eppure i suoi
occhi, così strani, al
confine tra banalità e follia, sembravano venire da un luogo
molto distante da
quella piazza, molto diverso dalla Statua Senza Volto.
Con un
gesto stanco, la Ragazza, per
l’appunto, Stanca, si girò a
guardare la Casetta Perfetta alle
sua spalle con lo stesso sguardo opaco con cui
guardava qualsiasi cosa da tanto, troppo, tempo. La casetta le
sembrò uno
spettacolo nuovo e mai visto, eppure le sembrava di aver sempre vissuto
lì.
Forse che
al piano di sopra non ci sarebbe stato un
lettino dalle immacolate lenzuola bianche ad aspettarla?
I suoi
capelli non si erano forse arruffati su un cuscino
che profumava leggermente di bucato?
Eppure, sembrò sussurrarle lo
stesso cuore che le tamburellava in petto, ne
sei proprio sicura?
La
Ragazza Stanca lo mise a tacere con una carezza
distratta, sfiorando il tessuto bianco di un vecchio abitino prendisole
che non
si ricordava di aver mai comprato, tantomeno avuto.
Il vento
gracchiò tra le sbarre che delimitavano il
giadinetto della Casetta Perfetta. I raggi di sole non entrarono
nell’interno
buio di questa, non fecero luce nelle stanze che si affacciavano sulla
Piazza
Senza Nome, pur essendo queste dotate di grandi finestre di lucido
vetro.
Perchè?
La
domanda, come un urlo lanciato distrattamente da una
gola ormai rauca, risuonò per ogni dove, rimbalzando su ogni
spigolo delle
tante Casette Perfette.
Per la Ragazza
Stanca girarsi e mettere un passo di fronte
all’altro
fino ad arrivare al cancello fu facile. Fu facile anche ignorare il
freddo che
la colse alle spalle nel momento esatto in cui si girò, come
se la casetta
l’avesse guardata con rimprovero.
La
Ragazza Stanca era stanca anche per questo.
Appoggiò
le dita lunghe ed imperfette per le troppe ore
passate a disegnare ed a calcare con forza la mano su di un foglio
bianco, e
spinse il cancello. L’aprì con naturalezza, con la
calma dell’abitudinario,
eppure una gocciolina di sudore colò lungo la sua fronte.
Respirò più a fondo,
mentre il cancello si chiudeva con uno stridente rumore di catene alle
sue
spalle.
Ma non
era tutto perfetto, qui?
Il
silenzio polveroso della Piazza Senza Nome fu l’unica
risposta alla sua domanda.
Il vento
le scompigliava i capelli, indeciso se essere
gentile o dispettoso, quando arrivò alla Statua Senza Volto
al centro della
piazza. Da là, dal centro di ogni cosa, si accorse come le
ombre di tutte
quelle casette si proiettassero lungo l’acciottolato come
lunghi artigli scuri,
privi di consistenza e colore, e per questo più pericolosi.
I loro
bordi, precisi ed affilati come seghetti,
formavano un cerchio d’oscurità attorno al
piedistallo della statua, lasciando
a malapena qualche passo di pura luce.
Un
carosello angosciante, non trovi?
Chiese il
volto della Statua Senza Volto alla Ragazza
Stanca, che questa volta ricambiò con uno sguardo
interrogativo.
Il fruscio
dell’emozione che, quatta quatta, si fece
spazio nel cuore della ragazza, fu amplificata mille volte
dall’apatia della
facciata di ogni Casetta.
E quando,
per la prima volta da quando lei ricordasse,
mise prima un piede fuori dal reticolato di ombre, e poi
l’altro, il sollievo
che le spumeggiò in petto fu come il risuonare secco di uno
schiaffo.
Improvvisamente
più leggera, la Ragazza non seppe
calibrare bene i movimenti, ed, incampando, potè evitare di
cadere solo
agrappandosi alla mano tesa della Statua. Che, incredibilmente forte
per essere
solo un’ammasso di bronzo ed ottone, la sostenne per tutto il
tempo che lei
impiegò per rimettersi in piedi. Lo stupore distese per un
momento le labbra
screpolate della Ragazza Stanca, labbra talmente rovinate da stillare
qualce
goccia di sangue che ferroso scivolò sulla lingua di lei,
quando socchiuse la
bocca.
La
superficie della Statua Senza Volto era calda. Ma non
calda come poteva esserlo il metallo arroventato da un sole
dorolosamente
brillante, bensì tiepida, come una vecchia eppure ancora
soffice coperta.
La
Ragazza non seppe spiegarsi
perchè l’avesse
paragonata ad una coperta.
Lei
neanche lo sapeva, cos’era una coperta.
Non
serviva, per quanto poco potesse ricordare, nelle
stanze buie della Casetta Perfetta, così lontana da lei,
adesso.
Spalancando
gli occhi, come non faceva da tanto tempo, o
forse non aveva mai fatto, la Ragazza
Stanca diminuì la stretta, liberando
la mano da
quella dalle dita perfette della statua. Eppure, non volle lasciarne il
confortante calore. Se la sua pelle era bruciata dallo stesso sole che
illuminava il resto della piazza, perchè allora il calore di
quel metallo
sembrava colarle tra le dita, fin sotto la pelle, fino a quasi farla
sentire
meglio?
Fastidio.
Come fa
a non darti fastidio?
Non
vedi come sta prendendo possesso
di te, questo sollievo istantaneo?
Santa
apatia che volteggi con la polvere, torna a spazzare il mio cuore, si
ritrovò a pregare la Ragazza
Stanca.
Quindi,
con un’espressione nuovamente distratta, staccò
anche l’ultimo polpastrello da quel caldo palmo, volgendo le
spalle alla
statua, tornando ad osservare distratta, la testa piegata su una
spalla, la sua Casetta Perfetta.
Eppure
quel “sua” le irritò profondamente il
palato,
nonostante fosse stato solo pensato, neppure con troppa convinzione.
Ma cosa
era successo, nel breve tempo che lei aveva impiegato per liberarsi
dalla presa
della statua?
Il cerchio
di ombre sembrava essersi fatto più stretto,
le case più alte, i davanzali più aguzzi, i
colori più brillanti, le sbarre più
aguzze. Il cielo si era fatto polveroso, come se l’azzurro
fosse stato diluito
con terra chiara, sabbia bianca.
E la
sensazione di opprimente vicinanza e stordente
lontananza fece paura alla ragazza forse non più stanca.
E lei
conosceva un unico mezzo per mettere in fuga la
paura.
O i
sentimenti in generale?
Sembrò
tamburellarle di nuovo in petto il cuore. La sua
vocetta rauca venne affogata dalla cantilena della Ragazza, Che Non
Sapeva Più
Cos’era.
Santa
apatia che volteggi con la polvere, torna a
spazzare il mio cuore.
Non hai
mai avuto freddo, in tutto questo tempo?
Santa
apatia che volteggi con la polvere, torna a
spazzare il mio cuore.
Non ti
sei mai sentita sola, quando l’eco di ogni tuo passo
risuonava in un silenzio
spesso come piombo?
Santa
apatia che volteggi con la polvere, torna a
spazzare il mio cuore.
Non hai
mai avuto paura di chiederti perchè sei così stanca?
Strisciando
in sibilante silenzio, il cerchio di ombre
stava finalmente inghiottendo ciò che rimaneva
dell’alone di luce attorno al
piedistallo della statua, con la stessa voracità di un
goloso alle prese con
una succulenta tavola di cioccolato. I contorni aguzzi delle ombre
affogavano
con un sibilo di piacere nel giallo paglierino
dell’acciotolato polveroso, che
sotto quell’attacco continuo, si stava via via spegnendo.
Fu allora
che la
Ragazza si sentì prendere dal panico,
e volse le
spalle a quello spettacolo agghiacciante. Il suo piccolo cuore
accellerò di
qualche battito, quando il suo sguardo tornò ad accarezzare
i lineamenti della
Statua Senza Volto. Che le porgeva la mano, come a chiamarla a
sè.
Salire non
fu facile. Il piedistallo era di marmo nero, e
scottava sotto la pianta dei piedi, mentre quando abbracciò
la statua, impresa
complicata visto che anatomicamente la ragazza e l’ammasso di
metallo non
avevano nulla da spartire, si sentì scossa da un calore
morbido e soffice,
piacevole e soverchiante come un liquore paglierino che le scendeva
giù per la
gola con una lentezza esasperante.
Eppure
quell’abbraccio non l’avrebbe salvata. La Ragazza
lo sapeva, eppure
non smise di stringere più forte che potè, fin
quasi a farsi male, fin quasi a
fondersi con la sagoma d’ottone e metallo, perchè
sapeva che, se voleva avere
una seppur minima possibilità di scampo, doveva dominare
quel calore, a volte tenero, a volte
voluttuoso, fino
a farlo suo, incanalarlo per servirsene e non per esserne asservita. E
fu solo
quando l’ultima stilla di paglierina essenza le fu colata
lungo la pelle che
osò aprire di nuovo gli occhi.
Per
ritrovarsi accerchiata.
La
perfezione di mille Casette Perfette era una
tentazione vecchia, così come ora le risultava ingombrante,
il loro tentativo
di apparentare equilibrio nei volumi, se troppo diversi erano i
materiali da
cui erano composti. Quell’eccesso di perfetto era l’imperfezione
dell’incommensurabile, mentre
il dicibile si ea fatto indicibilmente detto, parole vane che
riempivano il
vento e sazivano solo i divoratori di speranza.
Le mille
Casette Perfette adesso sì che dominavano la
piazza senza nome, con le loro ombre ben delineate, i loro colori
brillanti, le
loro porte appena riverniciate, i prati all’inglese, i loro
limiti così ben
marcati da dolorose sbarre.
Eppure,
eppure.
La
Statua ancora brillava. Il corpo
d’ottone,
avvolto dentro informi vesti di bronzo, dal volto nascosto da un velo
di rame,
la mano tesa verso qualcosa in basso, pronta a sfiorare una platea
invisibile,
l’altra mano stretta attorno al manico di un qualcosa ormai
contorto dalle
tenebre di ombre che troppo a lungo si erano succedute in eterni
pomeriggi
polverosi e soleggiati.
Ed era
l’ultima roccaforte prima delle tenebre, fonte di
luce nel buio, o forse fonte di dolce buio delimitato da un cono di
luce
crudele.
La ragazza
non lo sapeva, non le interessava. Piuttosto
seguiva con lo sguardo una linea di luce dorata che, fragile e sottile,
si
dipanava dalla statua fino alla porta della cara, vecchia, Goffa
Casotta.
Come
poteva essere vecchia, se lì tutto era nuovo?
Come
poteva essere cara, se lì tutto era sconosciuto?
Eppure
l’ansia pungolava la Ragazza, che fremeva di
un
nuovo calore, stanamente leggera perchè ormai lontana dal
cono d’ombre, non più
sola perchè la pelle della Statua pulsava sotto di lei, come
sotto la sua le
pulsava sangue.
Allora la Ragazza
prese fiato, forza e coraggio, confezionò un elisir
con la sua diperazione ed un fondo di vecchie speranze,
stracciò illusioni per
servirsene come scudo, seppe cosa doveva fare quando tutto sarebbe
stato
perduto. Chiuse gli occhi per ricordarsi cosa stava per perdere e li
riaprì per
ricordarsi cosa stava per guadagnare.
Sogghignò,
tirò con forza la mano della Statua ed iniziò
a correre sul sottile filo di luce, senza mai guardarsi indietro.
E
sentì che tutto stava per cambiare, e cercò di
correre
più veloce per accelerare, per poi lasciar perdere e
proseguire e basta, senza
dar conto a qualsivoglia scadenza o termine, suo o di estranei che
fosse, con
un passo che seguiva l’altro perchè via via il
buio si faceva sì più fitto,
però filo di luce più forte, spesso.
Con il
verde sciupato di un prato incolto come unica
meta, con l’unico obbiettivo di sfiorare la porta scrostata, la Ragazza Non
Più Stanca
arrivò finalmente alla soglia del portoncino, appoggiandovi
la fronte.
Chiuse gli
occhi per un momento, inspirò nuova aria dai nuovi
odori, fino a farsi quasi scoppiare i polmoni.
Poi,
senza lasciare un momento la stretta, spinse la porta ed
entrò.
...
Fu solo
molto tempo dopo, tempo in cui la Ragazza
si fece Donna, e
da Donna divenne Saggia, che il suo cuore tamburellante, a cui adesso
finalmente dava ascolto, le consigliò di girarsi a
controllare cosa esattamente
stesse stringendo da tanto, tantissimo tempo ormai.
La
Ragazza scosse forsennatamente la testa, la Donna
s’incupì in viso, la Saggia
consolò entrambe con
la forza della sua voce pacata, mettendole a dormire tra mille premure
e
coperte calde come abbracci. Perchè tanto tempo era ormai
passato dacchè la Saggia viveva nella
Casotta
Goffa, osservando il continuo mulinare di vecchi fantasmi e nuove
illusioni al
di là dei vetri dai mille colori, illuminati dalle mille
luci che volteggiavano
in ogni stanza.
Aveva con
pazienza scrostato la porta di altre casette
perfette, rovinandone le forme e donando loro armonia nel caos. Aveva
accolto
altri Ragazzi e Ragazze Stanche, pur senza facilitar loro nessun
passaggio
della Via. Aveva fatto molto e ricevuto il doppio, ed era ricca di
tutta una
serie di cose che non si possono comprare.
Eppure non
aveva mai dormito.
Eppure non
aveva mai lasciato la mano della Statua.
Sempre
che fosse ancora una Statua.
Quindi un
giorno raccattò ogni sua più piccola cosa, le
mise dentro una cesta di vimini, che
sistemò in una delle tante camerette della Casotta Goffa.
Salutò con un carezza
distratta le pareti, mentre le sue labbra si stendevano in un sorriso
particolare, come uno di tanti anni fa.
Anche
allora come adesso, dalle sue labbra screpolate
stillarono gocce di sangue che però questa volta non
asciugò, preferendo
semplicemente aumentare la stretta della mano, chiudere gli occhi e
girarsi, sentendosi
di nuovo scattante e leggera come un tempo.
Si
sollevò sulla punta dei piedi nudi, i bordi del
vestitino bianco a solleticarle le cosce, i capelli di nuovo un covo
polveroso
e selvaggio. Poi appoggiò le labbra su quelle della Statua,
della sua Statua,
del suo Leone dalla criniera dorata.
Ed una
litania nostalgica l’accompagnò finalmente nel
sonno profondo.
.-.-.-.-
Ad essere
del tutto sinceri, non ho la benchè minima idea
del perchè sia nata questa storia. Le originali non sono il
mio forte, ma
leggere quelle chicche scritte da Lady Vibeke
è stato un po’ la molla. Se poi ci unite le
Strane Sensazioni Senza Nome che mi assalgono in ogni momento da quando
sono
tornata a Siviglia, potreste anche trovare un seppur vago significato a
tutto
questo.
Dedicato a
parecchia gente (la linkata e tutto il
gruppetto in primis XD) e ad un solo luogo: Alameda de Hercules.
Ah, quasi
dimenticavo: la statua potrebbe essere
chiunque, non ha un reale volto. Lo stesso vale per la ragazza senza
volto.
A meno che
voi non siate me. In tal caso, sapreste che
lui è il Leoncino e lei lo Specchio. E la smetto, promesso.
<3
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