“E
questa è
una foto di papà con i Maori” spiegava
l’uomo, indicando l’immagine al bambino
che teneva sulle ginocchia.
“Che
bello,
papà! Hai visto tantissimi posti!”
commentò il piccolo.
“È
il mio
lavoro!”.
“Anch’io
voglio vedere tanti posti e conoscere tante cose”.
“Lo
farai di
certo, mon petit garςon!”.
“E
quando mi
porterete con voi, tu e la mamma?”.
“Beh..tu
che
dici, cara? Nel prossimo viaggio..”.
“Ma,
Emile!
La Russia non è un luogo per un bambino! Non ti sembra
troppo piccino, ancora?”.
“Scherzi?
Alla
sua età mio padre mi portava ovunque! Il cervello dei
bambini è una cosa
spettacolare ed è meglio riempirlo il più
possibile! Il nostro piccolo vedrai
che si divertirà ed imparerà cose
nuove”.
“Non
lo
so..sono dubbiosa..”.
“Sarà
con
noi, tesoro. Che pericoli potrebbe mai correre? Avanti, Giselle! Pensa
a quante
cose potrà vedere! Cose che sui libri non potrà
mai trovare, per quanti ne
legga!”.
“Già
non è
normale che legga cose del genere alla sua età..”
borbottò la donna, indicando
dei grossi volumi di vari autori francesi .
“Non
essere
noiosa..”.
Il
bambino,
sentendosi di troppo, sgattaiolo giù dalle ginocchia del
padre e tornò dedicarsi
ai libri.
“Ma..non
hai
freddo?” rabbrividì il padre.
“Non,
mon
père” sorrise il bambino, mentre la madre tentava
di avvolgerlo per l’ennesima
volta con una sciarpa pesante.
Il
clima
russo era rigido e, come si aspettavano i viaggiatori, nevicava. Al
piccolo
piaceva la neve e ci affondava volentieri con gli stivaletti. I
genitori
sorrisero, divertiti dal suo incedere goffo.
“Sembri
un
pinguino” ridacchiò Emile “Vuoi
incontrarne uno? Con questo freddo..”.
“Ma
papà! I
pinguini non stanno su questo emisfero! Dobbiamo andare al Polo Sud per
vederli!”.
“Come
sempre
hai ragione, piccolo esploratore! Allora vorrà dire che in
questo momento sei l’unico
pinguino del nord!”.
Il
bambino
mostrò la lingua e corse via, divertito.
“Non
allontanarti!” lo richiamò la madre “Con
la neve, non ti vediamo!”.
“Farò
versi
da pinguino, mamma!”.
“E
che
diamine di verso fa il pinguino?”.
Il
piccolo
lo imitò, emettendo uno stranissimo suono dalla bocca e
ondeggiando qua e là. Tutti
e tre risero. Chi li guidava, al contrario, non era per nulla
divertito. Il tempo
stava peggiorando ed il porto distava ancora qualche ora di cammino.
“Non
so se
sarà possibile la navigazione sul fiume”
spiegò una delle guide “Con questo
tempo..”.
“In
qualche
modo ci dobbiamo spostare” ribatté Emile
“Se gli aerei non volano e le navi non
partono, useremo i cani!”.
“Ma
questo
renderà il viaggio molto più lungo e
pericoloso!”.
“L’alternativa
qual è?”.
“Raggiungere
il paese e rimanervi finché non cessa la tempesta”.
“Non
abbiamo
molto tempo..”.
“Caro..potremmo
lasciare il bambino al villaggio e partire io e te, così da
farti rispettare i
tempi e non far correre rischi al piccolo” propose Giselle.
“Come
sempre, amor mio, hai ragione”.
“Dove
sono
la mia mamma ed il mo papà?” domandò il
bambino.
Era
stato
lasciato in una taverna e si stava preoccupando. Il tempo passava e
nessuno
sapeva dargli notizie. Quasi nessuno comprendeva la sua lingua e lui di
russo
sapeva solo poche frasi. Poi sentì un gran abbaiare e,
affacciandosi, riconobbe
uno dei cani da slitta. Cosa ci faceva lì? Doveva essere
successo qualcosa!
“Qualcuno
mi
capisce?” gridò il piccolo “Aiuto, per
favore! на
помощь!”
Un
paio di
autoctoni tentarono di avvicinarsi, ma non capivano che problemi avesse
quel
moccioso francese. Lo invitarono a tornare in camera, senza risultato.
Guardando
il cane, il bambino prese coraggio e lo seguì. Sapeva che
era una cosa
sconsiderata e stupida ma doveva farlo, perché qualcosa gli
diceva che era
successo qualcosa. Si avvolse in un mantello e camminò nella
neve. Il cane lo
precedette, guidandolo. Lo condusse fino ad un ampio spazio bianco. Con
i
fiocchi che continuavano a cadere, il piccolo chiamò i
genitori.
“Père!
Mère!”
gridò.
Ma
la sua
voce si perdeva nella tormenta e non vedeva altro che bianco. Si
strinse nel
mantello, cercando di ripararsi dal vento gelido.
“Ah,
devo
calmarmi!” si disse “Agitarmi non mi
aiuterà a trovare mamma e papà”.
Camminò
ancora
ed il cane guaì.
“Cosa
c’è?”
domandò il bambino, guardandolo.
Sotto
i suoi
piedi, si accorse che non vi era più neve ma ghiaccio.
Riprese a camminare,
percependo che ad ogni passo era solido e rigido sotto gli stivali. Poi
intravide
qualcosa di familiare. Riconobbe la borsa di suo padre. La raggiunse
correndo e
la prese fra le mani.
“Père!”
chiamò ancora.
Intravide
un
ombra e riprese la corsa. Il padre si era aggrappato al bordo del
ghiaccio. Era
ferito e riuscì a fatica ad aprire gli occhi.
“Mon
petit
garςon..”
mormorò, riconoscendo
il figlio.
“Père..”.
“Vai
via da
qui. È pericoloso!”.
“Ma
io devo
aiutarti! Adesso corro a chiamare qualcuno!”.
L’uomo
tentò
di risalire. Il bambino non sapeva che cosa fare. Fu preso dal panico.
Sentì una
lacrima scivolargli sulla guancia e poi uno scricchiolio. Un grido gli
si
arrestò in gola, quando si accorse che il ghiaccio si stava
sciogliendo. Cedette
di scatto e il piccolo chiuse gli occhi, preso dal panico. Credeva di
ritrovarsi in acqua ma non fu così: qualcuno lo teneva
sollevato da terra.
“Calmati,
ragazzo” gli parlò una voce maschile
“Sono le tue emozioni incontrollate a
sciogliere il ghiaccio”.
“Le
mie..emozioni?” si stupì il bambino.
“Non
te ne
sei accorto? Controllavi il gelo sotto i tuoi piedi ma, appena ti sei
agitato,
questo potere lo hai perso”.
“Ma..i
miei
genitori..”.
“Sono
stati
inghiottiti dal lago”.
“Che?!
No! Non
è vero! Questa è la borsa di mio padre..e mio
padre era..”.
“Temo
che
per loro non ci sia nulla da fare..l’acqua gelata non lascia
scampo”.
L’uomo
si
chinò, mostrandosi al bambino da sotto il pesante cappuccio.
Era anziano e la
sua lunga barba era piena di ghiaccio e neve.
“Ma
no!”
protestò il bambino “Papà era
lì!”.
“Il
ghiaccio
ha ceduto”.
“E
allora
vai a riprenderlo!”.
“Già
è
scomparso. Non possiamo fare nulla”.
“No!
Mère!
Père!”.
“Smettila..”.
Il
bambino
rimase in silenzio. Cercò di trattenere le lacrime. Era
tutta colpa sua, si
ripeteva dentro di sé. Se non si fosse agitato, il ghiaccio
sarebbe rimasto
intatto e quel signore avrebbe salvato suo padre. Si
rannicchiò su se stesso,
incapace di smettere di piangere.
“Su.
Alzati”
lo rimproverò l’uomo “Piangere non serve
proprio a niente”.
“Mamma..papà..”.
“Piangerli
non li farà tornare. Muoviti, o finirai
assiderato”.
“Lasciami
in
pace! Chi sei? Che cosa vuoi?”.
“Mi
chiamano
Borea, in onore dell’antica divinità del vento del
nord. Vieni con me, piccolo.
Capirai presto perché gli Dei mi hanno condotto qui da
te..”.
“E
se ti
dicessi di no?”.
“Resteresti
qui, da solo, nella bufera. Vieni con me, ho tante cose da
insegnarti”.
“Ma
è vero
quello che hai detto? Che io controllavo il ghiaccio?”.
“Non
sarei
qui se non fosse stato così. É
stato il tuo cosmo a chiamarmi”.
“Cosmo?”.
“Sì.
Ti
spiegherò anche questo. Oltre a come sfruttare le tue
capacità. Vieni?”.
Borea
si
girò ed iniziò a camminare. Il bambino rimase
qualche istante fermo. Aprì la
sacca del padre e vi trovò un libro. Aveva un segno su una
pagina ed una frase
sottolineata.
“Nella
profondità dell'inverno, ho imparato alla fine che
dentro di me c'è un'estate invincibile”
Albert
Camus
“Camus! Sei pronto?”
domandò Borea.
“Certo, maestro”
annuì il bambino.
“Oggi dovrai dimostrarmi di essere
degno dell’armatura d’oro”.
“Lo sarò”.
Ora il giovane allievo aveva sette
anni. Solo da due era rimasto per l’addestramento in quella
terra gelida ma fin
da subito si era dimostrato all’altezza del compito. Seguendo
il suo mentore,
il bambino che ora si faceva chiamare Camus non si era accorto di dove
quel
cammino lo aveva condotto. Poi capì: quello era il luogo
dove i suoi genitori
avevano perso la vita.
“Dimostrami che sai controllare le tue
emozioni, mio allievo” mormorò Borea, indicando un
punto del lago.
“Che devo fare?”
domandò l’apprendista,
stringendo i pugni.
“L’armatura è in
fondo a questo lago. Va
a prenderla. Controlla il gelo e non affogare”.
“Io..”.
“Non avere timore, non titubare o
tentennare. Sii fermo nelle tue azioni e controlla i sussulti del tuo
cuore.
Sii tu stesso il gelo, Camus, e torna qui da me con
l’armatura”.
L’allievo annuì. Dopo pochi
attimi, in
cerca dell’assoluta concentrazione, il bambino
saltò e si tuffò nel lago. Subito
l’acqua gelida lo avvolse. Questo non fermò il
piccolo, che continuò a nuotare
verso il fondo. Qualcosa scintillava laggiù. Eccolo lo
scrigno della sua
armatura! Nuotò ancora e raggiunse la meta. Fece per
indossare la pandora
usando le spalline quando si voltò. Sobbalzò,
lasciandosi sfuggire un po’ dell’aria
che tratteneva. Qualcosa si era mosso nell’acqua ed aveva
capito cos’era. I cadaveri
dei suoi genitori, tenuti ancorati al fondo dalle cinghie della slitta,
fissavano il vuoto. Erano messi in modo tale da sembrar proteggere
l’armatura,
custodirla per il proprio figlio. Il bambino iniziò a
tremare, provando di
colpo un gran freddo. Panico, quello era panico! Mise rapidamente lo
scrigno
sulle spalle e tentò di ritrovare la superficie. I suoi
pensieri però erano
appannati ed i suoi movimenti incerti. Risalendo troppo in fretta, con
ormai
pochissima aria nei polmoni, capì di avere una parete di
ghiaccio sulla testa. Si
agitò, disperato ma poi, di colpo, si fermò. Si
morse il labbro, fortissimo, e strinse
i pugni. Doveva controllare le sue emozioni! Ma come poteva farlo in un
momento
del genere?! Si concentrò e si scosse. Non poteva e non
voleva morire così!
“Mère, père..je
le fais pour
vous!” si disse, e riuscì a riemergere, trovando il
punto da cui si era tuffato.
Ansimando, uscì dall’acqua
gelida. Con
sé, aveva lo scrigno dell’armatura
dell’Acquario.
“Tutto bene?”
domandò il maestro.
“Sì..”.
L’allievo non mentiva. Sentiva una
gran calma nel cuore, una gran pace. Sentiva come se, ottenendo
quell’armatura,
avesse donato la pace ai suoi genitori.
“Loro volevano che imparassi tante
cose, che fossi qualcuno. Lo sono. Mamma, papà..sono un
Saint!”.
“Maestro?” domandò
Hyoga, perplesso
nel vedere Camus perso nei suoi pensieri.
“Che stai facendo, Hyoga?
Perché non
ti alleni?” sbottò l’Acquario.
“Lo stavo facendo ma..il vostro
sguardo..”.
“Sei troppo distratto. Se vuoi
diventare cavaliere, non devi perdere tempo con simili
sciocchezze”.
“Ma state bene?”.
“Certo. Sta tranquillo”.
Il bimbo biondo tornò ad i suoi
allenamenti. Camus guardò l’orizzonte. Erano di
nuovo su quel lago. Chissà quante
vite giacevano sotto la sua coltre ghiacciata!
“Hyoga..spero che un giorno il tuo
cuore possa essere più gelido del mio, che a volte ancora
sussulta per i mali
del mondo..”.
Ed ecco anche Camus. Ho voluto
creare un collegamento fra maestro ed allievo. Spero sia gradito. A
presto, con il prossimo piccolo Saint!
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