Still-born

di BukowskiGirl2
(/viewuser.php?uid=838211)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Era sera, notte più che altro. Erano le 2.10 del mattino, ecco. Il locale non era esattamente colmo di gente, ma traboccava di poveracci che avevano perso una scommessa, una speranza, una donna. Stavo lì ad aspettare che qualcuno mi chiedesse di riempirgli il ventunesimo bicchiere di vodka. Era un macello, un disordine assoluto. E dire che odiavo quel genere di posti. Pensare che ero finito a lavorarci, mi faceva sentire davvero una cattiva persona. Sicuramente non avevo mantenuto la promessa, non ero riuscito a realizzare i miei sogni. Ma non è tutto così facile, non è come ti dicono. Non è che ti svegli un giorno e capisci di essere abbastanza maturo per una cosa e troppo maturo per un’altra. Non ero pronto per l’università, ma forse non ero nemmeno pronto a qualcosa come l’Amarcord.
La “gente” si concentrava in un angolo del locale, dove tutto era molto triste e grigio, dove anche la muffa aveva la meglio sullo splendido intonaco color ocra.
Entrò una ragazza. Capelli corti, molto corti, camicia stropicciata, occhi semichiusi, sguardo assente, braccia ciondoloni. Si avvicinò al bancone, si sedette. Si resse la testa con una mano e iniziò a fissarmi. Mi guardai intorno imbarazzato, deglutendo.
-Non credi di essere già abbastanza ubriaca?
Aprì gli occhi e lasciò scappare una risata malefica, quasi dolce.
-Bene, quindi sembro anche sbronza. Evviva i sonniferi!
La guardai stranito, accennai nervosamente un sorriso.
-Non sei sbronza?
-No, sono solo stanca.
Stanca. Come poteva essere stanca? Una persona così ben vestita, alle 2 di notte, in un locale, era stanca.
-E allora cosa ci fai qui?
-Guarda che sfacciato. Ti pagano per cacciare i clienti, non è vero?
Aggrottai la fronte, le versai dell’acqua in un bicchiere. Lei si guardò intorno, individuando il cartello che consentiva ai fumatori di fumare, e accese una sigaretta.
-Mi sono svegliata e qualcosa mi ha detto che eri qui, Leopardi. Tu ascolti quello che ti dice la testa dopo esserti svegliato da un incubo?
-Be’…No, credo. Insomma, come fai? Se la testa ti dice di uscire e buttarti dal balcone, tu lo fai?
-Se ne sono proprio convinta, sì.
Voltò la sedia girevole, dandomi le spalle. Adagiò i due gomiti sul bancone e portò indietro la testa.
-Certo che qui è proprio uno schifo, eh.
Smisi di ascoltare ciò che diceva, iniziai a lucidare dei bicchieri. Si voltò nuovamente. Accovacciata sul piano da lavoro, mi guardò dal basso verso l’alto.
-Sei di Milano, Leopardi?
-No… Ma abito qui. Mia madre è americana e mio padre emiliano.
-Quando finisci il tuo orario?
Guardai l’orologio.
-Fra 7 minuti.
-E poi sei libero, no?
-Dovrei… Perché?
Tirò su con la bocca l’ultimo respiro fumoso, per poi spedirmelo dritto in faccia. Tossii infastidito.
-Facciamo gli sperduti per la città, ti va? Se ti sembro troppo serial killer, be’, puoi anche perquisirmi.
Mi lasciai convincere dall’invenzione folle di una tossicodipendente. Era forse quel suo modo assurdo e sprovveduto di dire qualsiasi cosa, che mi aveva portato a compiere un gesto così pericoloso. Non conoscevo quella zona della città, dato che prendevo il tram che mi portava dritto dritto a casa.
-Hai freddo? Vuoi che ti dia la mia giacca?
-Placida notte, e verecondo raggio. Della cadente luna; e tu che spunti fra la tacita selva in su la rupe…
Scoppiai in una risata.
-Dovresti smetterla con questa storia di Leopardi.
Sorrise.
-Nunzio del giorno. Oh! Dilettose e care… Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato.
-Come si fa a tapparti la bocca?
Mi guardò un attimo, poi andò avanti senza aspettarmi.
-Va bene se ti chiamo Giacomo?
-Guarda, va benissimo.
-Ok. Giacomo, vieni con me, per favore.
Iniziò a correre.
-Ehi! Aspettami!
Le corsi dietro chiedendomi cosa stessi facendo.
-Ci siamo.
-Ci siamo per cosa?
-Questa è casa mia, vieni.
-Sai…Magari è troppo…
-Giacomo, rinunci proprio adesso? Guarda che non voglio mica saltarti addosso. Non fai mai cose assurde tu? Vergognati.
Ebbi un brivido, così, una cosa veloce. Volevo lasciarmi andare, senza pensare alle conseguenze, senza preoccuparmi se fosse una cosa giusta o meno. Ed era lì, il mio momento. Accettai di entrare.
-Posa qui la tua giacca, se vuoi. Io devo lavare i denti, ho ancora il saporaccio di medicina in bocca. Ah, fai come vuoi, qui: ci starò ancora per poco.
Chiuse la porta del bagno dietro di sé. La stanza era piccolissima, c’era una tendina degli anni 60 almeno e un computer non esattamente di ultima generazione. Fogli sparsi ovunque, sulla scrivania, e una libreria che occupava tutta la parete laterale. Mi sedetti su una poltrona, ad aspettare che uscisse.
-Eccomi. Bene, ti chiami?
-Ah, Giacomo non ti piace più, non è così?
-Si, è così. Qual è il tuo nome?
-Mi chiamo Lorenzo.
-Si chiama Lorenzo e fa il barista, che vita triste la tua.
Si sedette a terra, abbracciandosi le ginocchia, come una bambina.
-E tu? Come ti chiami?
-Mi chiamo Marzia. Il che è molto brutto, molto.
-Non ti piace il tuo nome?
-Dopo tanti anni ti stanchi del tuo nome, no? Io mi sono proprio stancata. Comunque, vieni, vediamo un film.
Aveva tanta fretta. Fretta di cosa? Andava tutto veloce, una strada che non portava in nessun posto. Non era spiacevole, ma neanche rincuorante.
-Ho poco, qui. Tutti i miei cd sono a casa di mia madre. Ho solo Una giornata particolare e Rapunzel.
-Vada per Sophia Loren.




Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3123424