C'era
molta gente quel pomeriggio
ma nessuno osava fiatare e si udiva appena qualche bisbiglio. In
molti si erano presentati per recare omaggio e dare un ultimo saluto
a signora Gavina, e sua figlia si spostava scricchiolando sulla
ghiaia con i suoi tacchi neri a uno a uno fra i presenti per
ringraziare tutti di esserci in quel giorno per lei così
triste.
Sua madre le aveva pregato di
farle compagnia ma Laura non aveva mai conosciuto quella donna e lei
aveva paura di sentirsi un po' in fuori luogo, dandole fastidio la
giacchetta nera che aveva dovuto indossare per l'occasione. Signora
Assunta le vide a distanza e si accostò a passo svelto in
compagnia
di un'altra donna, più bassottina e anche lei dai capelli
corti e
bianchi, che salutarono entrambe con un abbraccio.
«Mancu mali ca
c'è genti, lè
[Meno male che
c'è
gente, eh]»,
sussurrò
quella donna, con un accennato colpo di tosse.
Signora Assunta
annuì e la madre
di Laura la seguì poco dopo.
«Beh, dai, era molto
conosciuta», aggiunse quest'ultima, «certo che
doveva venire tanta
gente».
«Eh, ma du scisi
cumment'esti…
[ma sai com'è…] Gavina a tempo ha litigato con
molti», le ricordò
l'altra.
Lei ascoltava senza proferire
parola, finché quella donna non la investì con
un'intensa e curiosa
occhiata.
«Filla rua,
lè? [Tua
figlia, eh?]»,
domandò, continuando a fissarla, «Ugualisi [Uguali]»,
tentò un sorriso e con una mano le carezzò una
guancia, mettendola
in imbarazzo.
Sua madre annuì e
lei si
distanziò di mezzo passo, per non darlo troppo a vedere.
«Piacere
di conoscerla, sono Laura».
«Bellu nomini [Bel
nome]», sorrise,
«Io
Efisia. Nome antico», bisbigliò, dando una veloce
occhiata a sua
madre, che sorrise a sua volta.
La gente iniziò a
camminare con
lentezza inoltrandosi verso il cimitero e loro quattro seguirono gli
ultimi in coda. Lei allungò lo sguardo alle tombe che
conosceva a
memoria, ritrovandole così diverse e così uguali,
talmente antiche
da essere quasi un monumento, fra angeli e bambini. Si
guardò
attorno con curiosità, non vedeva l'ora che la internassero
per
tornare a casa, quando il suo sguardo fu catturato da ombre che si
muovevano furtive fra bare lontane. Erano due, forse. Ed erano
veloci, tanto. Lei le seguiva con gli occhi al punto da inciampare su
una pietra e reggersi con le gambe all'ultimo, ritrovando quelle
ombre. Si erano spostate: erano a qualche bara più vicina.
Deglutì.
Si voltò verso il resto della veglia ma nessuno oltre lei
sembrava
interessato a quello che stava succedendo, così si
voltò per
cercarle ancora ma erano scomparse. Cominciava a credere che era solo
frutto della sua immaginazione. Un uomo le andò quasi sopra
un piede
e si voltò infastidita, bloccandosi, quando
scoprì che le ombre non
c'erano più perché chi ne era proprietario stava
dietro di lei, a
una decina di metri: erano due mamuthones, in piedi, con maschere
nere e lunghe, arrabbiate. I campanacci sembravano ricoprire tutto il
loro pelo nero. L'uomo le schiacciò il piede ancora e si
costrinse a
continuare il cammino, tenendosi più stretta a sua madre e
signora
Assunta.
«Vedi mamuthones
ovunque?».
Daniele rise così forte da darle quasi fastidio.
«Mi sembra di
diventare matta»,
sbottò lei, «c'è ben poco da
ridere».
Lui sfogliò con gli
occhi le
carte nella mano di lei come se avesse potuto leggere quello che
nascondevano e poi si decise, gettando una carta blu al tavolo, o
meglio sul muretto che faceva da tavolo. «Evidentemente ti
mancava
così tanto la Sardegna che adesso un suo simbolo ti
perseguita»,
pescò una carta, mettendo la mano alla bocca.
Lei sbuffò.
«Guarda che non sto
giocando, ho visto davvero due mamuthones che mi fissavano, al
cimitero». Si grattò la nuca e sbuffò
ancora: le carte in mano non
la aiutavano per niente.
Daniele la scrutò
attentamente e
le mostrò l'unica carta in mano, estraendo un sorriso
trionfante.
«Uno!»,
gridò, gettandola sulle altre, mentre lei buttava via le
carte nella
sua mano sul muretto, sparpagliandole dappertutto. «Non
giocavi a
Uno
a Londra?», rise, gustandosi la vittoria. Per poco, non lo
vedeva
alzarsi e sgambettare per la felicità.
Lei stava per rispondere ma un
uccellino le volò accanto e si poggiò sul
tronchetto di un albero,
ricordandole il mamuthones che aveva visto dalla finestra. Osservando
il suo sguardo perso nel vuoto, il giovane le gettò una
carta
contro, richiamando la sua attenzione.
«Vedi un altro
mamuthones? Qui,
adesso?».
«Smettila di
prendermi per il
culo», gli rigettò la carta addosso e una signora
coprì il sole,
facendo ombra ai due giocatori.
«Su mamuthones? [Il
mamuthones?]»,
esordì
una voce roca dall'ombra. «Chini biri su mamuthones? [Chi
vede il mamuthones?]»,
rise la donna, aprendo le braccia e aspettando una reazione.
I due sorrisero e lei si
alzò da
terra lentamente, andando ad abbracciarla. «Ciao,
nonna».
«Laura»,
rispose il ragazzo,
«Dice che i mamuthones la perseguitano».
L'anziana sorrise, scrutandola
appena, passandole la mano sul mento, in una carezza. «Ohi
ohi,
nepori mia… [nipote
mia] I mamuthones
fanno paura perché sono selvaggi, diciamo, ma non sono
cattivi. Ih,
tutte qui le disgrazie», ansimò, ridendo e
scuotendo la testa,
reggendosi meglio la borsa nera sotto spalla. «Se proprio ne
vogliamo… Ce ne sono altre di creature sarde che devono fare
paura
davvero».
«Tipo?»,
le chiese Daniele con
curiosità, mentre la ragazza si risedeva al suo posto e
riprendeva
le carte per formare un mazzo.
«Tipu sa bruxa [Tipo
la bruxa]», annuì
ed
entrambi si bloccarono, fissandosi per un momento. «Non la
conoscete? La bruxa è una strega. Ce n'era una, qui, anni
fa…».
«Qui
dove?», domandò la
ragazza, reggendosi le ginocchia e lasciando le carte da un lato del
muretto. Daniele si strinse le labbra e annuì alla domanda.
«Qui a Iglesiasa [Iglesias]»,
si passò una mano sul mento, «Si diceva che
l'avevano bandita
perché l'avevano trovata con una neonata in braccio e la
bruxa se ne
ciba… Sono racconti popolari, la bruxa è
pericolosa».
Lei storse un sopracciglio.
«L'hanno solo trovata con una neonata in braccio ed
è bastato per
bandirla?», alzò un poco la voce e Daniele la
fissò per un
momento. «Non è un po' poco?».
«L'ha detto: la
bruxa si mangia
i neonati. È una motivazione sufficiente, mi
pare», lui accennò
una risata, indicando l'anziana.
«No»,
obiettò, «Detto così
fa pensare che l'abbiano bandita solo perché l'hanno vista
con una
bimba in braccio, che potrebbe voler dire molte cose. Non la stava
mangiando», fissò l'uno e poi la nonna, che
scrollò di spalle. «La
bambina poteva anche essere sua sorella, sua nipote o sua
figlia».
«Sì,
certo», rispose lui
sarcasticamente, invece la nonna scuoteva la testa.
«Ohi, nepori
mia… [nipote
mia] Pensi subito il
bene, ma una bruxa è solo una strega, e non ci si
può fidare delle
streghe». Lei abbassò lo sguardo e
deglutì, intanto che la signora
distribuiva un po' di caramelle che aveva trovato nella borsa ai due,
facendo aprire loro bene le mani. «Andatevene dentro a
giocare,
piccioccusu. [ragazzi]
Che qui si sta facendo freddo, non lasciatevi ingannare da quel bel
sole che è uscito che poi vi ammalate. Siamo a febbraio,
dai».
Entrambi si alzarono, pronti
per
rientrare in casa.
Il viaggio in treno sembrava
volesse crearle problemi alla pancia più di quanto non ci
avesse già
pensato prima l'aereo. Questo rallentò sui binari in vista
dell'ennesima stazione, dove i passeggeri diretti a Iglesias
avrebbero fatto scalo, e Laura si alzò in piedi, tirando con
sé il
trolley fino alle porte automatiche. Quando queste si aprirono, Laura
fu una delle prime a scendere, quasi spintonata, ma non aveva voglia
di ribellarsi. Stanca e affamata, si guardò in cerca di un
distributore automatico senza risultati, così decise che si
sarebbe
fatta una corsetta al bar lì vicino prima di ripartire. Si
affacciò
ai bagni della stazione e, vedendo che nessuna fila le avrebbe dato
filo da torcere, trascinò il suo trolley fino al bagno
dedicato alle
signore, chiudendo la porta alle sua spalle. La porta interna era
chiusa e accostò la valigia ai lavelli, poggiando i palmi
delle mani
sul piano e affacciandosi al grande specchio. Aveva le occhiaie,
constatò. Passò le dita sui capelli sciolti e li
smosse un po',
sbuffando. Pensò di sembrare un cadavere. Amareggiata,
sfilò il
cellulare dalla borsa e diede una veloce occhiata a Facebook,
incappando su un post di sua madre raffigurante dei gattini.
Ansimò
e si morsicò un labbro, pensando che era decisamente
arrivato il
momento di avvertire i suoi del suo ritorno a casa. Si sentiva
estremamente sconfitta e si vergognava molto, ma non aveva
più
alternative. Iniziò a digitare quando la porta del bagno si
aprì e
lei restò a bocca aperta, con il cellulare a mezz'aria. I
capelli
corvini raccolti in una coda alta, sguardo serio e irremovibile,
quasi senza espressione. Diane.
Laura sorrise ma era troppo
sorpresa per fare nient'altro, e si guardò attorno con un
po' di
imbarazzo, come appena scoperta in un momento solo per lei da una
persona importante.
«D…
Diane? Cosa… Cosa fai tu
qui?».
«Ti
aspettavo».
Signora Efisia era
un'abitudinaria. Usciva presto per fare la spesa e tornava a casa per
preparare il pranzo, che la impegnava molto. Amava cucinare.
Preparava con cura e apparecchiava la tavola, aspettando che il
marito, ormai pensionato da un po', tornasse dall'orto. Mangiavano
con la televisione rigorosamente spenta e, mentre lui usciva di
nuovo, lei spazzava in terra e lavava i piatti. Dava una pulita alla
cucina e al bagno, per poi tornare a cucinare per la cena, e
così
uscire per andare in chiesa, fino a che la messa serale non le
avrebbe dato il permesso di tornare a casa. Quel pomeriggio si era
portata avanti coi lavori e aveva già finito di preparare la
minestra per la cena, così spense il fornello e corse al
bagno,
armandosi di straccio e prodotto spray. S'inchinò per lavare
la
vasca, spruzzando il prodotto sulla superficie, ma udì
qualcosa
sbattere in cucina e si alzò con fatica; ormai la vecchiaia
cominciava a farsi sentire. Affacciandosi alla porta di cucina, vide
che la porta finestra che portava fuori si era spalancata e che il
vento aveva aperto tutti i suoi pensili, facendo cadere fogli e
centrotavola. A passo svelto si mobilitò per chiuderla ma il
vento
si fece ancora più forte, costringendola ad arretrare,
finché non
udì l'acqua del bagno scorrere e, chiamando il marito,
lasciò
perdere la porta finestra e tornò indietro. Il marito non
c'era ma
l'acqua della vasca era così piena da salire sul bordo e
gocciolare
per terra. Lei corse talmente veloce a chiudere i rubinetti che
scivolò sulle pianelle bagnate e sbatté la testa
con forza, udendo
solo allora il suono di una campanella. Cercò di urlare,
chiamando
il marito, ma nessuno poteva sentirla. Un'ombra si distese lungo
signora Efisia e aprì la bocca contornata da denti fini e
stretti,
forse rotti e marci. «Chi ti pighiri su mali [Che
ti prenda il male]»,
recitò quella voce disturbata, e la povera donna ansava
ingoiando
l'acqua che scendeva copiosa dalla vasca, finendo per farla affogare.
Lei si svegliò di
soprassalto,
toccandosi il petto agitato. Quegli stupidi mamuthones non riuscivano
a lasciarla in pace neppure durante il sonno. Si posò adagio
sul
cuscino, tremando come una foglia, e tentò di richiudere gli
occhi;
quelle maschere nere le apparivano come nebbia e li riaprì,
sbuffando. Decise di alzarsi e mangiare qualcosa, forse andare in
bagno e, magari, cercare su internet qualcosa di più sui
suoi nuovi
stalker. Così accese il portatile e compì qualche
ricerca con
mamuthones
come parola chiave, leggendo articoli su di loro fino al sorgere del
sole.
Quel mattino fu duro un po'
per
tutti. Sua madre accese la televisione e a Videolina
passarono la notizia di un'altra anziana morta in casa sua a
Iglesias: a trovarla fu il marito, immersa nella sua vasca da bagno
completamente vestita. La donna era affogata e ancora non si
conoscevano i dettagli del caso. Lei entrò in cucina quasi
in punta
di piedi, ascoltando la notizia con interesse e preoccupazione,
incrociando le braccia al petto.
«Ti ricordi di
signora Efisia?
L'abbiamo incontrata al funerale di signora Gavina», le
ricordò la
donna e lei annuì, lentamente, increspando lo sguardo.
«È
morta?».
«Ieri pomeriggio, a
quanto
pare», rispose, preparandosi il tè.
«Povera donna… Cosa fai in
piedi a quest'ora?».
«Non riuscivo a
dormire», si
prese una sedia e si accovacciò sul tavolo, osservando la
madre ai
fornelli. «Mamma?», aspettò che le desse
un cenno, per continuare,
«Pensi che i mamuthones esistano davvero?».
L'altra rise, chiedendole se
voleva del tè anche lei. «No, Lau. Certo che no.
Sono leggende».
Riempì di nuovo il pentolino d'acqua e riaccese il fornello.
«Ti
preoccupano queste cose?».
«Un po', a dire il
vero.
Sembrerà sciocco, ma mi stanno incasinando la testa, e per
questo
non riesco a dormire», si ammutolì di colpo,
voltandosi verso la
televisione. «E poi pensaci, prima signora Gavina, adesso
signora
Efisia».
«Cosa c'entrano con
i
mamuthones?», le servì il tè davanti al
naso e lei si distanziò
appena, cominciando a soffiare.
«Non lo so,
però a me questi
qui stanno tormentando l'esistenza e non vorrei essere la prossima in
lista».
«Non dire scemenze,
Lau. Questi
sono solo incidenti, e gli incidenti purtroppo succedono», le
avvicinò una mano a una sua, tentando di sostenerla.
«E a te questi
cosi stanno tormentando perché sei stanca dall'Inghilterra e
il
resto. Hai bisogno di pensare ad altro», aggiunse,
«Staccati un po'
da qualsiasi cosa vuoi fare e vai a farti una passeggiata. L'aria
fresca ti farà bene».
Lei annuì.
Suonò al campanello
e aspettava,
incrociandosi le dita delle mani, che qualcuno andasse ad aprire la
porta. Daniele si stropicciò un occhio e
sbadigliò, quando la vide
così presto davanti a casa sua, mentre signora Assunta
sorrise,
ringraziandola che lo facesse alzare dal letto invece che lasciarlo a
poltrire tutta la mattina.
«Andiamo a fare una
camminata,
ci guardiamo le vetrine; dai!»,
cercò di spronarlo. Daniele si trascinò in camera
sua per
prepararsi e lei si sedette su una poltrona del piccolo soggiorno con
palese imbarazzo, dando una rapida occhiata alle foto appese alle
pareti e incorniciate sopra gli scaffali. Molte di quelle erano
antiche, giallognole, e rappresentavano sicuramente signora Assunta
da giovane, pensò, per continuare fra le foto di una bambina
e poi
ragazza, di qualche festa, perfino un matrimonio, che doveva essere
quello della madre di Daniele con suo marito. C'erano anche parecchie
foto di Daniele da bambino. Laura era già entrata parecchie
volte in
quel soggiorno e nelle altre parti della casa, ma non aveva mai
badato troppo a quelle foto come faceva lei in quel momento.
Signora Assunta smise di
annaffiare i vasi, accorgendosi dello sguardo un po' perso della
ragazza, guardando incuriosita dove si volgeva il suo sguardo.
Poggiò
l'annaffiatoio ormai vuoto e si accostò a una delle foto
posta
accanto a dei libri; vecchia, gialla, un po' sbiadita, raffigurava
tre ragazze al mare, coperte da pesanti gonne spostate dal vento.
«Guarda,
Lauretta», disse,
prendendo la foto in mano. Lei alzò il suo sguardo e fece
due passi
verso la donna, osservando la foto. «Queste siamo
io», indicò la
ragazza in mezzo, dai capelli corti e disordinati, «e Gavina,
e
Efisia», spostò il suo dito indice sulle altre
due, prima a
sinistra e poi a destra.
Lei fissò quella
foto e deglutì.
«Eravate molto amiche, voi tre, vero?»,
domandò.
«Molto»,
annuì. I suoi occhi
si chiusero per un secondo, diventando lucidi.
Le si strinse un nodo in gola.
Laura voleva molto bene a signora Assunta e vederla così
triste per
la morte delle sue amiche le infondeva profondo dispiacere.
Daniele esordì con
uno
sbadiglio, passandosi con insistenza le mani sul ciuffo castano,
disposto verso l'alto con un po' di gel. Sua nonna rise, nel vederlo,
risistemando la foto sullo scaffale.
«Di cosa parlavi con
mia nonna?
Non dirmi che ti ha fatto vedere le foto». Daniele si
accostò a una
vetrina e si appiccicò al vetro come una falena, tenendo
d'occhio un
paio di scarpe molto costose, indicandole.
«Una
sola», sospirò. «Non te
le puoi permettere, smettila», ridacchiò e lui
scese dallo scalino
della vetrina con un balzo, agganciandosi a lei per non cadere. Le
sorrise e lei altrettanto, allontanando poi lo sguardo. «Non
essere
severo con tua nonna, ha perso due amiche in poco tempo».
«Già»,
scalciò una carta
incastrata fra i ciottoli, riprendendo a camminare, infilandosi nelle
mani nelle tasche del pesante giubbotto. «Non la vedevo
così giù
dalla separazione dei miei», sbuffò, alzando gli
occhi al cielo. La
scrutò solo per un attimo, il tempo di vederla abbassare lo
sguardo
e aggrottare le sopracciglia.
Il ricordo di un Daniele
ancora
molto bambino e arrabbiato, in seconda media, si fece spazio fra i
suoi pensieri: i suoi genitori litigavano spesso e avevano deciso di
separarsi.
«Come vanno le cose
fra loro,
adesso?», chiese, scartando una caramella e infilandosela in
bocca.
Giocava distrattamente con la carta, stropicciandola e piegandola,
svolgendola e osservandone con minuzia i dettagli.
«Bene.
Più o meno. Da quando me
ne sono andato di casa meglio, credo, lui va a trovarla spesso e
parlano, da che ne so…», rispose, abbracciando la
ragazza
all'improvviso, a cui cadde la carta dalle mani. «Lui le ha
chiesto
scusa per un sacco di cose, e anche lei si sta dando da
fare… Non
dico che ritorneranno insieme, ma ancora non si parla di firmare per
il divorzio, ecco. Forse stanno bene così. Sai, lui in fondo
l'ha
lasciata spesso sola e si sente in un po' colpa».
«Per
cosa?».
«Perché
mia madre da quando
l'ha saputo si è sempre sentita un po' sola e incompleta
e…»,
scosse la testa, mordendosi un labbro, «Non che mia nonna le
abbia
fatto mancare qualcosa, per carità, però forse
avrebbe dovuto
dirglielo prima. Al posto suo, io avrei voluto saperlo prima.
Assolutamente». Lei lo guardò con aria
interrogativa e lui la
fissò, battendole un'affettuosa pacca sulla spalla.
«Dai, te lo sei
dimenticata, non fa niente. Te ne avevo parlato qualche mese fa,
quando stavi a Londra, per telefono: mia madre è stata
adottata».
«A-Adottata?»,
lei spalancò
gli occhi e il ricordo di quella telefonata le arrivò veloce
nella
mente, «Accidenti, sì, scusa. Me ne ero proprio
scordata».
«Nulla. Ci
mancherebbe che ti
ricordi tutto quello che ti dico», rise.
Lei tentò un
sorriso ma si voltò
a breve, fermandosi, sentendosi osservata. Via Azuni era colma di
gente ma c'era qualcosa di diverso, fra loro: s'intravedevano degli
scarponi neri, fermi proprio in sua direzione. Deglutì e
afferrò il
braccio del ragazzo, tirandolo, indicandogli dietro di loro.
«Non vedo niente;
cosa? Oddio»,
ansimò, «non dirmi che c'è un
mamuthones?! Devo spaventarmi?»,
rise più forte e lei gli lasciò la presa,
infastidita dal suo
comportamento.
La gente si divise lentamente,
camminando via, e lei cominciò a vedere la pelliccia nera di
quell'essere e i campanacci, finché non si mostrò
la maschera
enorme e più nera della pece, dallo sguardo triste. Il
mamuthones
alzò il braccio destro e raggiunse un occhio della maschera,
stringendo la mano ricoperta di cerone nero e simulando il pianto.
Lei arretrò e gemette dalla paura, seguita dallo sguardo
attento del
ragazzo.
«Tu lo vedi
davvero…?» , le
domandò, controllando il punto interessato, stringendo gli
occhi.
«Andiamocene»,
asserì,
riprendendo il braccio di lui, «Per favore».
Si voltò e lui poco
dopo,
fissando ancora quel punto, cambiando espressione e facendosi serio.
Mangiarono una pizza e
passarono
insieme una bella mattinata, parlando di com'era scura Londra e delle
piogge, senza accennare ai mamuthones che ancora riusciva a vedere,
sopra le strutture dei negozi e delle case: era sicura che la
stessero seguendo ma si sforzava di fare finta di niente. Le ricerche
su internet non avevano portato a nessuna svolta interessante, non
c'era molto, se non com'erano fatti i loro abiti e le dinamiche delle
esibizioni. Tuttavia, era praticamente certa che quelli che lei
vedeva non erano uomini vestiti a maschera ma qualcos'altro.
Comparivano e scomparivano nel nulla e poteva vederli solo lei. Non
erano uomini ma altro. Qualcos'altro che l'aveva presa di mira.
La borsa a ruote si
bloccò e
signora Assunta dovette spingerla con più forza per farla
arrivare a
casa, quella sera. Aveva pregato tanto per Efisia e Gavina, in
chiesa, tanto che le avevano fatto male le ginocchia, per com'era si
era accovacciata sulla panca. Molte signore le avevano fatto le
condoglianze e perfino il prete si era fermato con lei due minuti
dopo la messa, per ricordarle che, se ne voleva parlare, lui era
disponibile. Ma Assunta non voleva parlare; non ne voleva parlare con
nessuno. Era quasi certa che la morte di Gavina fosse stato un
incidente ma quello di Efisia a poco dal suo e in circostanze ancora
ignote, le avevano fatto rimettere qualcosa in discussione. Loro tre
erano legate da un segreto, oltre che da un'amicizia che era durata
tantissimi anni. Un segreto pericoloso.
Tornò a casa con
l'ansia che le
percuoteva il cuore in gola e ci si chiuse così in fretta
che le
tremavano le mani raggrinzite. Aveva gridato il nome di suo nipote ma
sapeva che era ancora fuori come ogni mercoledì, per la
serata film
con gli amici. Scommetteva che, se gli avesse detto che lo voleva a
casa, sarebbe rimasto, ma non voleva rovinargli quella serata
speciale con delle persone speciali, poiché i ricordi con
loro un
giorno sarebbero stati come oro prezioso. Più di tutto, in
ogni
caso, non gli avrebbe parlato della paura che la attanagliava dalla
morte di Efisia.
Corse in cucina e accese la
televisione, mettendola per la prima volta ad alto volume, dandole un
fastidio necessario: doveva distrarsi. La preghiera per le sue due
amiche le aveva dato modo di pensare a lungo su ciò che
avevano
fatto almeno cinquant'anni prima e una vena di terrore le aveva
percorso il corpo come un serpente freddo. Si domandava chi fosse a
conoscenza di ciò che era successo ma non trovava risposta.
Non ne
avevano mai fatto parola con nessuno e, comunque, nessuno avrebbe
potuto volere la loro morte per quello. Avevano fatto bene,
continuava a ripetersi; era stato triste ma necessario. Era stato a
fin di bene. Neppure lei poteva volerle ammazzare, sarebbe stato
assurdo, e non ne era capace. E quella
non poteva tornare. Sarebbe stata l'unica con un motivo.
Si mantenne la fronte e si
accorse che era molto sudata. Si strofinò gli occhi poco
dopo,
alzandoli verso la televisione, all'ennesima pubblicità,
senza
davvero ascoltarla.
Era stata una sciocchezza. A
fin
di bene, ma forse era stata solo una sciocchezza. Erano solo delle
ragazze quando era successo e stavano pagando con la vita dopo
così
tanto tempo. Ansimò, deglutendo, e rizzò le
orecchie, quando udì
una porta aprirsi, quella d'ingresso. Si era aperta e richiusa subito
dopo; si sentivano dei passi. La donna si mantenne il petto e si
alzò
dalla sedia lentamente, allontanandosi verso l'andito che portava al
soggiorno.
«Dani! Giai torrau? [Già
tornato?] Ohia, filmi
curtu custa diri, ah? [Film
corto quest'oggi, eh?]»,
urlò. Stava per raggiungerlo quando si accorse che il volume
della
televisione si era abbassato di colpo e si voltò, vedendo
che
qualcosa faceva interferenza. Deglutì. Il cuore aveva
ripreso a
battere molto rapidamente e percorse l'andito con la paura dipinta
sul volto. La luce era spenta.
«Nun seu Dani [Non
sono Dani]»,
dichiarò
una voce a lei familiare, tanto che, per un attimo, pensò di
poter
stare tranquilla, reggendosi ancora il petto.
«Cosa ci fai qui a
quest'ora?
Masi fattu pigai un accidenti! [Mi
hai fatto prendere un colpo!]
Appu lassau opertu? [Ho
lasciato aperto?]»,
si trascinò nel soggiorno. Stava per dirle di accendere la
luce ma
si accorse che gli occhi di quella sagoma, delineata dalla luce che
filtrava dalle finestre, erano rossi come il sangue. Si
fermò,
tremando impercettibilmente. Era lì per lei.
«Sa
bruxa…
[La
bruxa]»,
sussurrò,
irrigidendo i denti.
Si voltò per
correre verso la
cucina ma la sagoma balzò come se potesse volare e le
arrivò
addosso così velocemente che signora Assunta fece appena in
tempo a
chiudere la porta, spingendola con le braccia e mettendole una sedia
davanti. La donna era troppo agitata e questa non riuscì a
stare in
equilibrio, cadendo. La porta si riaprì con un cigolio
fastidioso e
l'anziana arretrò, immobile, fissando l'andito con
preoccupazione.
La strega era sparita. Portò una mano al tavolo e prese il
cellulare, in fretta, cercando di comporre il numero di suo nipote,
l'unico che avrebbe voluto chiamare, in quel momento. Continuava a
sbagliare e iniziò a piangere. Non aveva mai voluto quel
telefono e
Daniele aveva insistito perché lo avesse e imparasse a
usarlo. Non
avrebbe mai più rivisto il suo adorato nipote. O la sua
amata
bambina. Sapeva che era arrivata la sua morte e il momento di pagare
per i suoi peccati.
La campanella
iniziò lentamente
a suonare e lei tremò, singhiozzando.
Compose il numero e
portò il
telefono all'orecchio, voltandosi verso il televisore che continuava
a fare interruzione, ma quello che l'aspettava alle sue spalle era il
volto tumefatto della bruxa: i suoi occhi rossi la ipnotizzarono e la
sua grande bocca dai denti marci e nera come un baratro la
divorò.
«Chi ti pighiri su
mali [Che
ti prenda il male]».
Bentornati!
Dovevo
postare ieri, lo so, ma… mi
sono dimenticata! Aemh,
capita anche ai migliori, figuratevi a me XD
E
anche Assunta è morta, uccisa da
qualcuno che pareva conoscere. Qual era il segreto di Assunta, Gavina
ed Efisia? Al prossimo e ultimo capitolo ^_^
Intanto,
colgo l'occasione per
ringraziare Eirein98
per aver messo Figlia della
Terra nella sua lista delle
seguite :)
Alla
prossima settimana!
Se
vi fa piacere, lasciatemi un commento
in recensione :)
A
presto, chu
^^
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