Ciao,
se state leggendo questo messaggio sappiate che dovete...correre!
Esplosione tra dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre,
due, uno...Scherzavo! Beh se avete aperto storia, prima di leggere
dovete sapere che i Tokio Hotel non mi appartengono e nessuno di
questi eventi è accaduto nella realtà (a parte
gli
EMA). La protagonista è frutto della mia fantasia e spero
sarà
di vostro gradimento in questa avventura, che non vi
risparmierà
risate e lacrime.Ora
sicuramente avrà piacere la mia creatura di mostrarvi la sua
storia, con le parole adeguate, che io decisamente non avrei. :) Buon
viaggio :)
Capitolo
1: Cosa me ne poteva fregare del monsone?
Lie.
All'esordio di tutto.
Era buio. Davvero buio. Non vedevo
niente o semplicemente non volevo vedere niente. Ero confusa. Era
successo tutto così di fretta.Ora mi
ritrovavo a camminare sotto la
pioggia mentre il freddo gelido della notte mi penetrava nelle ossa
per via della giacca che indossavo e che era estiva. Non avevo altro.
Quella giacca era l’unica che mio
papà
era riuscito a permettersi. Ce l’aveva messa tutta, ma dopo
aver
scoperto di avere il tumore non aveva più potuto lavorare.
Quel pensiero mi fece troppo male.
Il ricordo del mio caro papà nel
letto di morte che mi stringeva gentilmente prima di chiudere gli
occhi per sempre mi si presentò vivido nella mente. Dentro
di
me lo stomaco si rivoltò.
Come potevo andare avanti? Ma non potevo
nemmeno tornare indietro. Non volevo.
Cosa mi sarebbe accaduto? Se mia madre
mi avesse trovato mi avrebbe picchiata o chissà cosa. Non
era
mentalmente stabile. Si drogava dalla separazione con mio padre.
Progressivamente non fu più in grado di badare a se stessa,
era finita in una clinica. Ma poi credendo che fosse guarita la
fecero tornare a casa e ora io ero stata affidata a lei. Ma mia madre
non era guarita. Le servivano soldi per la droga e se io fossi
tornata mi avrebbe venduto oppure mi avrebbe sbattuto sulla strada
solo il signore sa a fare cosa.
Il solo pensiero mi fece arrabbiare e
cominciai a covare un fuoco di puro odio per quella madre che non mi
aveva mai amato. Provavo odio per il mondo che non mi amava. Nessuno
su questa terra mi amava. Potevo scommetterci.
Passai accanto all’edificio scuro con
su scritto “DATCH FORUM”. Il Datch forum di Milano.
Quello in cui
quella sera si svolgeva il concerto del gruppo tedesco. Come si
chiamava? Ah si! Tokio Hotel!
Non erano male di aspetto, quei quattro.
Ma a me cosa me ne poteva fregare del monsone?
Io soffrivo giorno dopo giorno di un
dolore immenso. Soffrivo la solitudine. Quelli erano solo quattro
stupidi ragazzi che erano diventati famosi e della vita non sapevano
un cazzo.
Come potevano? Erano troppo giovani e la
fama forse aveva offuscato loro la testa. E poi da dove sbucavano?
Non avevo mai sentito parlare di loro prima di
quell’estate…Ma
perché poi mi ero soffermata a pensare a loro?
Il ricordo vivido di mio padre mi si
parò davanti ancora e le lacrime mi riempirono gli occhi.
Non vedevo altro che luci sfuocate. Dove
era la strada? Oh, forse quella…
Mi fermai e misi un piede giù dal
marciapiede. “Ti prego papà aiutami…Non
posso andare
avanti da sol…”.
Non so come fosse possibile, ma non
capii perché non riuscii a finire la frase. In quel momento
sentii solo una frenata. Un frenata e vidi buio totale.
Sembrava passata un’eternità,
quando sentii delle voci e degli urli. Una mano mi sfiorò,
ma
non capivo niente. Non capivo dove ero. Non capivo chi fosse quel
qualcosa che mi toccava. Che mi accarezzava la testa.
Dove ero finita?
Sentii urla concitate e captai diverse
parole tedesche. Io lo capivo bene. Mia mamma era tedesca. Qualcosa
di caldo mi calò dalla fronte. Cos’era? Il dolore
al corpo
era troppo forte.
Cosa mi era successo? Dove ero? Volevo
solo mio papà.
“Papà…”
L’unica cosa che riuscii a capire era:
“Sono qui, non abbandonarmi”.
Era tedesco.
Il silenzio mi svegliò. Non so
perché, ma io odiavo il silenzio. Io amavo la musica e il
silenzio mi innervosiva terribilmente. Aprii gli occhi che richiusi
subito perché una luce mi ferì. Una luce
artificiale
proveniente dall’alto. Mi protessi con una mano la faccia e
mi
sedetti.
Una volta abituata alla luce cominciai a
guardarmi intorno e non ci volle molto per capire che ero
all’ospedale. Ero confusa, non sapevo perché mi
trovassi li,
ma non volevo rimanere, volevo andare via subito. Mia mamma avrebbe
potuto rintracciarmi.
Nonostante sentissi un fortissimo male
dalla vita in giù provai a alzarmi.
Il mio tentativo non ebbe risvolti
positivi. Ci riprovai e sporgendomi troppo caddi sul pavimento. Solo
allora mi accorsi che avevo le gambe ingessate. Il sangue nelle vene
mi si gelò di colpo. Non potevo fuggire.
Mentre il mio sguardo scorreva sulle mie
gambe immobilizzate un orribile pensiero mi attraversò la
testa. E se avessi perso l’uso delle gambe? Chiusi gli occhi
e le
lacrime mi bagnarono il volto. Ero sconvolta.
Capitavano tutte a me. Ma perché?
In quel momento una porta, o meglio la
porta, della camera si aprì di scatto e entrò
qualcuno.
Non volevo farmi vedere in quelle
condizione chiunque fosse, ma non avevo la forza per alzarmi e aprire
gli occhi.
Dei passi affrettati si avvicinarono a
me. Qualcuno si chinò davanti a me e mi
abbracciò.
Aprii gli occhi d’improvviso. Da
quanto non ricevevo un abbraccio? Da secoli ormai. Quel contatto era
troppo insolito. Ancora di più perché quel
qualcuno che
me lo stava offrendo era…
Lui si staccò ed entrò
nella mia visuale.
Era un uomo.
“Che cazzo…?”
L’uomo era…il cantante dei Tokio
Hotel!
Ora si che ero completamente andata.
Perché un cantante avrebbe dovuto abbracciarmi?
Lui indossava delle semplici scarpe da
ginnastica, una maglietta nera e un paio di jeans.
I capelli piastrati verso il basso e gli
occhi liberi di qualsiasi trucco, semplici e tristi.
Il color nocciola non era vivace come
quello delle volte che lo avevo visto in televisione. Era un colore
spento. Ma perché?
“Scusa…scusa…Sono
qui…Se per
caso ti serve qualcosa…per rimediare.”
In quel momento entrarono un dottore e
l’infermiera seguiti da gli altri componenti del gruppo.
Mentre il
dottore mi alzava e mi rimetteva a letto i miei occhi non smisero di
lacrimare e si bloccarono insistentemente sui volti sconvolti dei
quattro ragazzi.
Cosa potevano volere quelli da me? Cosa
li…? Ma certo!
Le urla in tedesco. Loro mi avevano
soccorso! “Grazie” fu l’unica cosa che
riuscii a dire in un
semplice sussurro.
Bill il più vicino a me era
l’unico ad aver sentito. Sgranò gli occhi e
portò una
mano alla bocca. Mentre molto probabilmente cercava di calmarsi per
non essere sopraffatto da qualcosa che ribolliva dentro di lui.
Una volta sotto
le coperte il torpore mi
fece addormentare con l’immagine sconnessa di Bill e dei suoi
occhi.
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