Can't
let you leave
can't
let you live?
L'inverno
aveva portato via tutto il calore, esiliato in luoghi impossibili da
raggiungere la vita stessa dalla terra e dal cielo. Jean osservò
il cielo grigio – era così da quando erano tornati dalla
spedizione, e non accennava a cambiare. L'umidità appesantiva
l'aria come un manto ma le nuvole non sembravano voler cedere loro la
pioggia necessaria a coltivare i campi, e la situazione tra i
contadini e il Regno rischiava nel prendere pieghe pericolose. Era
una buona cosa che il Re fosse un uomo capace ma severo, per quanto
riguardava il governo.
Chinò
il capo e sistemò meglio la cappa sulle proprie spalle,
sospirando. Un tempo non si sarebbe mai preoccupato della situazione
politica all'interno delle Mura – ma era stato il tempo
dell'ignoranza e delle illusioni, il tempo in cui credeva ancora alle
voci del popolo povero e ignorante con cui era cresciuto.
Passeggiando tra le strade della capitale era tanto probabile
incrociare nobili in abiti di tessuti raffinati quanto mendicanti
impegnati ad elemosinare qualche moneta; i palazzi dorati di cui
aveva parlato la sorella di suo padre un giorno si erano rivelati
tristi abitazioni grigiastre abbastanza vicine l'una all'altra da
regalare al paesaggio un'aria opprimente anche lontano dalle vere e
proprie Mura, e nei marciapiedi non erano incastonati diamanti e
gemme preziose come aveva sussurrato la vicina di casa a sua madre,
mentre lui origliava in cortile. Il quartiere in cui si dirigeva,
poi, era così decadente da sembrare un luogo delle Mura
Esterne anziché un viale della capitale; ma era anche il posto
in cui era situata la clinica che aveva scelto lui, ed era giusto
rispettare la sua scelta. L'ultima che avesse fatto da sette anni a
quella parte.
Bussò
al portone di legno e attese che lo spioncino si aprisse, rivelando
il volto di una giovane donna. - Capitano! - Esclamò,
richiudendo lo spioncino e aprendo dopo pochi istanti il portone. -
Non la aspettavamo oggi. È successo qualcosa? -
Jean
scosse la testa. Quell'appellativo e i modi gentili erano sempre una
lieve sorpresa, nonostante si fosse ampiamente meritato entrambi con
l'impegno dimostrato nella Legione Esplorativa. - Il Comandante ha
deciso che meritavamo un giorno libero dopo il successo dell'ultima
missione. - Spiegò brevemente. - Lui come sta? -
Il
sorriso debole della ragazza appesantì il cuore di Jean come
un macigno. - Come sempre, Capitano. Si rifiuta di parlare per la
maggior parte del tempo, ma non ha più causato danni dopo
l'incidente dell'anno scorso. - Le ultime parole furono poco più
di un sussurro; alzò il braccio ad indicare alla loro
sinistra, verso uno degli edifici. - È nell'ala ovest, lo
abbiamo trasferito lì per motivi di sicurezza del personale.
Nelle sue condizioni non è pericoloso, ma è comunque un
soldato addestrato. Spero che non... -
Jean
alzò una mano per zittirla, ringraziando per un solo momento
che l'autorità del suo titolo gli permettesse di far cessare
quel fiume di parole così dolorose. - Puoi andare, sorella. Da
qui posso proseguire da solo. - Mormorò. La giovane non se lo
fece ripetere una seconda volta, congedandosi rapidamente. Jean
abbassò il cappuccio della cappa verde e sospirò una
seconda volta, consumando a rapide falcate i metri che lo separavano
dall'ala ovest. All'interno la clinica era arieggiata e illuminata
dalla luce proveniente dal cortile; Jean sbirciò dentro ad
ogni stanza, prima di trovare ciò che stava cercando.
Anche
dopo sette anni, quel profilo rovinato da ustioni e cicatrici
riusciva sempre a stringergli lo stomaco e a farlo sentire in colpa
per una serie praticamente infinita di motivi. Marco non si voltò
neanche quando Jean tamburellò con le nocche sulla porta per
segnalare la propria presenza, l'unico occhio sano rivolto alla
finestra. Era seduto su una delle due poltrone della stanza, un libro
posato sulla gamba sinistra e la mano destra poggiata sulla
copertina, immobile. Jean lo raggiunse e si sedette sulla poltrona a
fianco alla sua, accavallando le gambe e premendo una mano contro la
bocca per soffocare la necessità di parlare immediatamente.
Non
era cambiato molto dall'ultima volta che Jean aveva messo da parte le
proprie paure e aveva deciso di andare a trovarlo, circa sei mesi
prima; i capelli erano sempre troppo lunghi per quelli che Jean
sapeva essere i suoi gusti, e l'espressione distante del volto così
atipica del ragazzo che era stato da renderlo una persona del tutto
diversa. E poi c'era la cornice, un corpo martoriato e sfigurato. Il
moncherino del braccio sinistro arrivava fin sopra il gomito, ma la
gamba destra era recisa fino a metà coscia. Jean ricordava
chiaramente la maniera brusca in cui uno dei medici che avevano
trascinato via da lui il suo corpo agonizzante si era fermato a
dirgli di essere grato; se il morso non fosse stato quello di un
Titano, la ferita non sarebbe mai stata esposta al calore elevato del
corpo di quei mostri, né sarebbe stato possibile cauterizzarla
come invece era avvenuto naturalmente, seppur con risultati orribili.
Aveva dovuto ringraziare il bastardo che gli aveva quasi portato via
Marco.
Il
braccio non era stato altrettanto fortunato. Avevano dovuto
cauterizzare la ferita coi mezzi a disposizione del campo medico
improvvisato appena all'interno del Wall Rose, e un Jean in stato
catatonico era stato informato della necessità di recidere
tendini e muscoli vari. C'era voluta tutta la sua forza di volontà
per non vomitare addosso al dottore, ma non era bastata nemmeno
quella la prima volta che aveva visto Marco dopo le operazioni. Era
corso via da quella mostruosità, l'ombra distorta e macabra e
sbagliata del suo amico. Poteva sopportare il braccio e la
gamba amputati; ma la pelle della parte destra del volto e del torace
era rossa e gonfia, carne viva che non si sarebbe mai rigenerata; e
poi c'era stato quella maledetta cavità dove prima c'era
l'occhio, e Marco era sembrato così piccolo, fragile e
patetico che dopo aver svuotato lo stomaco sul prato appena
fuori dalle tende Jean era scappato dove nessuno avrebbe potuto
vederlo piangere, ed era rimasto nascosto per ore, maledicendosi di
averlo salvato ogni minuto di più.
La
cosa peggiore, ora, non erano le cicatrici o gli arti mutilati. No,
la cosa peggiore era vedere riflesso nello sguardo e nei modi lontani
di Marco quel suo pensiero di sette anni prima, quella sua colpa.
Ogni centimetro di lui sembrava esprimere ribrezzo e rancore. Lui che
era stato un amico e un confidente ora mutava nel più odioso
degli estranei – e la cosa era reciproca.
-
Ciao. - Lo salutò dopo un lungo silenzio, consapevole che non
avrebbe mai ricevuto risposta. Non c'era stata una sola volta in cui
Marco gli avesse rivolto la parola, nonostante con gli anni avesse
preso a parlare saltuariamente con le suore e alcuni degli altri
pazienti. Anche la gola era stata gravemente danneggiata
dall'ustione, ma Jean non aveva idea di come ciò avesse
influito sulla sua voce. Quei silenzi erano uno dei tanti motivi per
cui le sue visite si erano fatte più rare. - Spero non ti
dispiaccia se rimango qui per un po'. Una volta non ti dispiaceva. -
Come
previsto, Marco non rispose. Jean gettò un'occhiata al libro
tra le sue mani – le dita gli impedirono di leggerne il titolo,
ma aveva un'aria vecchia e consunta. - Di che si tratta? - Domandò.
Non
avrebbe risposto. Già sapeva che non lo avrebbe fatto –
e già una parte di lui si chiedeva perchè mai gli
facesse ancora visita, perchè mai pagasse la retta di quella
stupida clinica. Un suono basso lo distrasse dai suoi pensieri, e
solo dopo qualche istante Jean si rese conto che si trattava della
voce di Marco. Roca, quasi un sussurro, ma era la voce di Marco.
-
Armin me lo ha portato. -
Rimase
a fissarlo sbalordito, cercando di metabolizzare tutte le nuove
informazioni. Marco aveva aperto bocca per rivolgergli la parola dopo
sette anni – guardava ancora imperterrito fuori dalla finestra,
ma stava parlando; e Armin sapeva dove lui si trovasse, da abbastanza
tempo da portargli uno dei suoi libri. - Marco. - Esclamò; la
sua stessa voce gli suonò pietosa. Strinse le dita nei
braccioli della poltrona. - Cosa...come fa a sapere...Armin? -
Il
suono che seguì fu ancora più sorprendente del
precedente – perlopiù accompagnato da un cambiamento
nell'espressione fino ad allora immutabile di Marco. Il ragazzo
scoppiò a ridere – e come la sua voce era una risata e
così carica di disperata tristezza da far risalire un brivido
sulla schiena di Jean. - È un segreto? - Domandò. Jean
si morse la lingua. - Sono il tuo segreto? -
Il
Capitano continuò a non rispondere. Avrebbe potuto farlo solo
con una conferma di cui Marco non aveva bisogno, e a quel punto,
forse, Marco avrebbe smesso di nuovo di parlargli. Non voleva la
situazione tornasse al punto di partenza. Sarebbe stato la
distruzione totale di ogni sua speranza. - Perchè mi parli? -
Chiese, piano. Si sporse leggermente in avanti, sperando di poterlo
sfiorare, di poter scatenare in lui una reazione che fosse più
di una semplice risata di scherno; ma Marco non si mosse, calando
semplicemente lo sguardo sulla copertina del libro.
-
È un libro molto strano. - Sussurrò, sviando la domanda
di Jean come Jean aveva sviato la sua. Sollevò il tomo e lo
valutò, inclinandolo da una parte e dall'altra. - Non è
una raccolta di favole o un saggio. È la storia di un ragazzo
che cerca di superare la necessità di morire. -
Fu
come se l'inverno fosse entrato in quella stanza, come avesse
afferrato ogni parte dell'anima di Jean e l'avesse stritolata nella
sua morsa incapace di pietà. Si allontanò lentamente,
poggiando la schiena sul tessuto soffice della poltrona.
Armin
sapeva. E Marco era consapevole che anche lui sapeva ciò
che aveva tentato di fare poco più di sei mesi prima.
Sei
mesi prima gli era stata recapitata una lettera di una certa urgenza
dalla matrona della clinica, dove veniva riportato lo spiacevole
incidente che Marco aveva causato due notti prima. A quanto pare
aveva trovato un modo per derubare il custode della dispensa dei
medicinali della chiave della stessa mettendolo al tappeto nel
processo, per poi seguitare a cercare di rubare precise erbe
medicinali che se ben miscelate lo avrebbero portato al conseguimento
di quello che era probabilmente stato il suo unico obiettivo per
buona parte dei sei anni precedenti.
-
Sei egoista, Jean. -
Jean
si rese conto che Marco stava piangendo. La lacrima corse sulla sua
guancia e si posò sul suo labbro, e Marco alzò il
braccio buono per asciugarsi il viso. Jean non fece lo stesso per le
proprie lacrime.
-
Mi dispiace così tanto dirtelo. - Proseguì Marco. Era
così stupido che cercasse di scusarsi, riflettè Jean.
Così da lui – tanto da lui che per un momento fu tentato
di farsi avanti e sfiorarlo, trovare un modo per rassicurarlo. Il
momento morì schiacciato dalla verità della confessione
di Marco. - Non ce la faccio più a vivere così. Perchè
mi hai portato qui? Perchè sei venuto a salvarmi, quel giorno?
-
All'improvviso
furono di nuovo seduti uno di fronte all'altro su una panca della
mensa, a discutere degli argomenti più stupidi e futili –
quelle conversazioni che solo i ragazzi possono permettersi, e che
nonostante questo erano state strappate ad entrambi troppo presto. E
Marco stava riflettendo su una domanda posta da qualcuno –
Eren, forse? Sembrava il genere di domande idiote che avrebbe potuto
porre solo Eren. Era bellissimo anche nel corrucciarsi, e nel modo in
cui nascondeva il mento dietro una mano mentre si fermava a pensare a
che risposta dare. Ma alla fine aveva detto che sì, sarebbe
morto volentieri per una causa giusta. Non c'era nulla di codardo in
una morte simile.
Marco,
Marco, Marco. Lui e il suo stupido agire come fossero cavalieri delle
fiabe lette da bambini, e la sua stupida mancanza di un egoismo che
abbondava in Jean, oggi come allora; e mentre Jean finalmente si
asciugava le lacrime, la realizzazione del fatto che l'unico atto
egoista di Marco in tutti quegli anni fosse stato il tentativo di
togliersi la vita lo colpì con la forza di un pugno allo
stomaco.
Non
si era reso conto di essere scivolato giù dalla poltrona e in
ginocchio addosso a Marco, la fronte poggiata sulla mano sana, le
dita strette attorno al tessuto dei suoi pantaloni; ma gli sembrò
l'unico luogo in cui fosse giusto trovarsi, in quel momento. - Non
potevo semplicemente lasciarti morire. - Sussurrò, combattendo
contro una seconda ondata di lacrime. - Non potevo semplicemente, io
non... -
La
mano sfuggì alla pressione della sua fronte e si posò
sui suoi capelli. Jean chiuse gli occhi, assaporando quel gesto così
necessario al suo corpo da spaventarlo quasi. - Avresti
dovuto, non credi? -
L'attimo
dopo fu scaraventato via da un'improvvisa forza. Impegò un
secondo per comprendere che Marco doveva averlo scaraventato via; un
altro secondo per osservare il soffitto scuro e buio in legno dei
dormitori. E un terzo secondo per sollevarsi dal sottile materasso e
gettare via le coperte, rivelando il proprio corpo e quello di Marco,
sdraiato nel buio accanto a sé.
-
Jean, fa freddo, rimetti la coperta a posto... - Protestò
Marco nel sonno. Jean lo ignorò, sollevandosi e girando lo
stoppino della lanterna per accenderla e controllare il viso del suo
compagno di letto. Era ancora perfettamente intatto – così
come lo erano il suo braccio e la sua gamba, e il resto del suo
corpo. Jean lasciò andare un sospiro che con sua sorpresa si
rivelò un singulto abbastanza forte da spezzargli il petto;
non lasciò a Marco il tempo di stropicciarsi gli occhi e
aprirli, optando per il prenderlo a pugni mentre era ancora incapace
di difendersi. Marco reagì sbarrando gli occhi e lamentandosi
ad ogni cazzotto ricevuto, portando la spalla ferita lontana dalla
furia del più piccolo. - Che diavolo fai? -
-
Brutto...grosso...e maledetto idiota! - Sibilò Jean.
Interruppe la sua sfuriata per nascondere il viso dietro le mani. -
Non farmi spaventare mai più così. Che cazzo di incubo!
-
Marco
lo fissò confuso; spense lo stoppino e lo trasse a sé,
risollevando la coperta su di loro. Nel silenzio e nella calma del
dormitorio, Jean smise di singhiozzare nel suo abbraccio e ascoltando
il perfetto ritmo del suo respiro. - Vuoi parlarne? - Domandò
piano quando Jean si fu calmato abbastanza da non tremare più.
Lui
scosse la testa, poi annuì. - Ti era successo qualcosa e mi
odiavi. - Rivelò. Solo dirlo gli fece tornare la voglia di
prendere Marco a pugni. - E in generale il mondo faceva abbastanza
schifo, ecco. -
Sentì
Marco trattenere una risata. - Mi stavi picchiando perchè ti
odiavo in un sogno? -
-
Non è che mi odiavi soltanto! - Protestò Jean, alzando
lo sguardo per guardarlo. Anche al buio, potè vedere il modo
in cui Marco stava chiaramente mordendosi il labbro inferiore per non
esplodere in una risata. - Ti era partito via metà corpo,
probabilmente perchè facevi il cretino con Eren! E odiavi me
perchè ti avevo salvato, ti rendi conto? Odiavi me! Perchè
avevo portato via il tuo culo lentigginoso da un Titano! -
A
questo punto, per sua grande sfortuna, Marco non stava neanche più
cercando di trattenere le risatine. - Jean, è per via del
discorso che abbiamo fatto a cena! - Mormorò, razionale. -
Eren ha chiesto se saremmo disposti a morire combattendo i Titani e
io ho risposto di sì. Non c'è nulla di male! -
Chinò
il capo per fissarlo direttamente negli occhi, e il suo respiro si
infranse sulle labbra di Jean. Poteva anche essere stato uno stupido
incubo, ma solo vedere entrambi gli occhi di Marco al loro posto lo
sollevò tanto da farlo sporgere in avanti per premere le
proprie labbra contro le sue. Non era la prima volta che si baciavano
– capitava, con la scusa della frustrazione e dell'esercitarsi
in vista di quando avrebbero avuto una ragazza. Jean aveva quasi
creduto fosse vero, per un po'; Marco no. Si separò da lui e
lo guardò aprire piano le palpebre appesantite dal sonno,
fissarlo come incantato.
-
Non ti odierei mai per avermi salvato la vita. - Sussurrò. -
Con metà corpo o senza, vivo o ridotto in cenere. Sarò
sempre grato che tu ci abbia provato, e del tempo che abbiamo passato
assieme. Ok? -
Jean
annuì. Tutte quelle emozioni in pochi secondi erano troppe per
lui – preferì stringersi ancora di più a Marco e
sentire il suo corpo contro il proprio a una risposta verbale. A
Marco sembrò andar bene così.
-
Jean? - Lo sentì chiamarlo.
-
Mmm? -
-
Sono felice. -
Jean
aprì un occhio e lo sollevò verso il capo di Marco. Per
un attimo gli sembrò quasi di vedere il soffitto bianco della
clinica del suo incubo – e il volto del ragazzo completamente
sfigurato, le labbra piegate in un sorriso. Ma quel momento svanì
rapido com'era arrivato, sostituito dal buio e dal freddo invernale a
malapena allontanato dal calore del corpo di Marco.
-
Anche se nell'incubo ti odiavo, sei venuto comunque da me. - Lo sentì
sussurrare. La sua voce era carica di sonno, e le ultime sillabe si
trasformarono in uno sbadiglio. Jean nascose un sorriso nel tessuto
morbido della sua maglia.
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minchiaquantotempofigaquantotempo
no
davvero sono ANNI che non posto – specie roba NELL'UNIVERSO
CANON. Più o meno. Sono stanca morta e non ho granchè
da dire se non scusarmi per le serie in corso interrotte e dirvi che
vado a morire a letto scusate vi voglio bene davvero