.Such Great Heights.
E sognavo di lanciare brividi addosso agli altri e di distillare la mia
bile in fata verde e di trovare una cura al mal di gola.
Ma sorrideva, sorridevano tutti e parlavano di cose che non conoscevo,
e non era possibile che io non sapessi perchè li vedevo
quando loro si vedevano
o forse non sapevo
o non volevo
o non sentivo
o non guardavo.
E da lontano mio fratello mi salutava con le lacrime agli occhi, perso
nella sua vita blu o forse solo nella sua mente. Aveva i ricci
più lunghi di quanto ricordassi e muoveva una mano immerso
nella nebbia, dall'altra parte della strada, con la maglia di Dylan Dog
e le scarpe da ginnastica finte e troppo americane e comunque mai viste
addosso a nessun altro di certo. Aveva un giornaletto nell'altra mano e
un becco di plastica in faccia e le orecchie da topo in testa. Mi
ricordai di com'era da piccolo e mi venne da piangere
Perchè non volevo che scappasse
e si perdesse
e poi morisse
E gli urlavo di lasciar perdere, che poi un giorno gli avrei mostrato
la casa rossa.
E sognavo di avvolgermi una coda intorno al corpo e di essere una donna
meravigliosa .
Mio fratello leggeva un libro su una barca, mentre la sua anima veniva
traghettata da un punKaronte con le borchie che sbadigliava e si
incantava a guardare l'acqua.
"Non voglio vedere la casa rossa" urlava, a me che ero sulla sponda
"Non potrei sopportarlo, e comunque devo studiare"
"Ma non c'è tempo" stridevo "Scendi giù di
lì"
"Non parto certo per il fronte. Ci vediamo domani"
E poi più niente.
Era morto per una con le meches sbiadite. Lei era brutta e cattiva ma a
quanto pareva aveva un sacco di fidanzati, oltre a lui.
Io nessuno.
Leggevo libri che parlavano di persone pure e innocenti che per non
essere tristi martellavano un banco da falegname giocattolo.
Credevo che se fossi andata a un concerto da sola, per la legge dei
telefilm avrei certamente trovato la felicità. Non era vero.
Avrei voluto regalare la mia indole a qualcuno, perchè era
molto scomoda. Forse avrei dovuto fare un figlio, e portarlo a teatro e
in libreria e a fare le foto ai binari della ferrovia.
A caso, mi veneravano persone sbagliate.
Conoscevo un ragazzo che aveva gli occhi truccati e parlava di mondi
invisibili. Era bello e distrutto, si muoveva nelle sue giacche lunghe
e nelle sue scarpe anni 80 come un angelo storto. Dormiva al cimitero e
a volte minacciava le persone con un coltello.
Si drogava per vedere i fantasmi, mi spiegò. Mi aveva
chiesto se era un problema. Gli avevo risposto di sì.
Mi cantò una ninna nanna rossa e disse che un giorno mi
avrebbe sposata.
Poi, una notte, lo vidi collassare su degli scalini. Morto di bellezza
in mezzo al piscio e alle siringhe.
E sognavo di astrarmi e diventare una disequazione o una parola in una
lingua straniera, poi restavo assorta a guardare il gatto dormire.
Cado o non cado? Mi chiedevo sporgendomi dal balcone.
"Sei triste?" mi chiedeva al telefono il telefono stesso. Dicevo di no,
che avevo la nausea.
C'era questo cancello su cui basavo la mia vita sentimentale. Per anni
era stato al suo posto, poi a un certo punto era sparito. Poi era
tornato, per qualche giorno. Poi era stato estirpato nuovamente e da
molto tempo giaceva abbandonato sul prato retrostante.
Potevo controllare la situazione una volta alla settimana, ma non
cambiava niente e la cassetta delle lettere non aveva intenzione di
restituirmi il maltolto, cioè la lettera con le citazioni di
Baudelaire o forse di Poe, che mio fratello aveva lasciato
lì. Anche perchè qualcuno le aveva portate via.
La lettera, le citazioni e anche la buca delle lettere.
A un certo punto, persi la speranza che il Cancello Sentimentale
potesse essere risistemato.
E sognavo di ripetermi in me stessa e di avere uno spirito guida e un
Karma positivo.
Avevo aperto troppe parentesi, ma non ero riuscita a chiuderne neanche
una. Lo avevano fatto altri.
Avevo due letti e due spazzolini e due tazze per la colazione e poi
basta. Una voglia a forma di freddo sul cuore mi indicava il giusto e
l'inesatto e di fatto non serviva a niente.
Tutti camminavano tranquilli e io mi aprivo le costole con
l'apriscatole cercando di annullare il male di vivere, che purtroppo
per me non risiedeva nè nel cuore nè nei polmoni.
Allora mi aggiravo con il torace spalancato e ormai svuotato (gli
organi li avevo nascosti in una scatola da scarpe in fondo allo
stanzino, sotto gli stivali) ed ero preda di colpi di freddo e d'amore
da delirio febbrile.
C'era chi si divertiva a macellarmi a colpi di ascia un giorno
sì e troppi no, per esempio un tipo a lezione.
Di quelli che vorresti imbottigliarli e venderli per renderli
accessibili a tutti e soprattutto a te stessa.
Io seppellivo lo sguardo sotto il fango incrostato nella gomma degli
anfibi e tentavo di individuare poeti maledetti vestiti da universitari
nei dintorni, tanto per far finta che non mi interessasse niente.
"Che imbarazzo"
"Che bella canzone"
"Che sciocca invenzione"
E si avvicinava, e si avvicinava. Una fossetta sulla guancia. Mi
sconvolgeva così tanto che avrei voluto impiantarci la mia
lapide e poi impiccarmi alle sue ciglia.
Allora cantavo per finta. Guardavo un corvo appoggiato al muretto e
muovevo le labbra ripetendo un mantra pagano, sperando nel
rovesciamento universale e in un bacio al contrario sopra la pioggia
che saliva.
Non era finzione, ma pura infezione.
E sognavo di avere una borsa che autogenerasse sigarette e di
rincontrare il mio bidello preferito e di avere un caleidoscopio.
Nessuno mi raccontava mai niente così raccontavo sempre io e
tendevo a ripetermi.
Le cose che dicevo erano sostanzialmente aneddotica arcaica. E lei mi
fissava, e diceva che era bello starmi vicina, perchè
sembravo proprio il personaggio di un film, quindi sembrava di vivere
dentro una sceneggiata tutti i giorni.
Credevo fosse un complimento, poi mi ricordai di quando qualcun altro
mi aveva detto che quella mia peculiarità era ciò
che mi rendeva insopportabile ai più, e mi sentii male.
Dovetti riprendere i polmoni e il cuore dalla scatola e ricacciarmeli
dentro in fretta e furia per sentirmi meglio, e in effetti non ci
riuscii.
Non avevo voglia di andare a dormire perchè non avevo voglia
di fare incubi insensati in cui il passato tornava a perseguitarmi
armato di indifferenza e ignoranza. Per esempio, quella voglia a forma
di pera sul braccio che aveva uno che avevo sbagliato a contraddire.
Sembrava una malattia terminale, era terribile. Mi ero promessa che non
avrei dovuto baciarlo, perchè se poi fosse morto ci sarei
rimasta troppo di merda. Di fatto poi l'unica che perdette la salute in
quella situazione fui solo io, e il morente sparì con i suoi
attrezzini da cerusico saccente e la sua voglia a forma di pera che
tutt'oggi nel ricordo assume forme mostruose.
Comunque, mi divertivo anche a schiacciare piano i polpastrelli del
gatto. Era rilassante. Era l'unica cosa che mi restava da fare, oltre a
calcolare le probabilità che aveva un avvenimento di
capitare, se te l'eri già immaginato prima.
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