Quell’anno il clima si stava dimostrando clemente, con gli
abitanti di Rocca Arsa. A dispetto del nome, infatti, era capitato
spesso che in quel paesino della Marsica le temperature non salissero
mai granché, neanche d’estate. Niente di strano, a
ben vedere, visto che quel minuscolo agglomerato di case era inerpicato
sugli Appennini abruzzesi a milletrecentoventisette metri
d’altitudine e ombreggiato, da un lato, da un picco ancora
più alto.
Gli abitanti – perlopiù
discendenti di chi vi aveva risieduto stabilmente e che tornavano
lì nei fine settimana e durante le vacanze – erano
quindi stati presi alla sprovvista dai quasi trenta gradi che ogni
giorno riscaldavano quell’aria secca e pura, rendendo il
paese una piacevole oasi confronto alla canicola estiva tipica delle
grandi città che si erano lasciati alle spalle.
Federica e Antonia, nonostante avessero compiuto
ventidue anni, avevano conservato il gusto tutto infantile per le
arrampicate sulle rocce appuntite che spuntavano un po’
ovunque nel paese. Rocca Arsa, infatti, nonostante le dimensioni
ridottissime poteva vantare un’antica fortificazione
medievale parzialmente scavata nella roccia oltre a una chiesetta
costruita nel Rinascimento: una piccola perla nascosta tra i boschi
dell’Abruzzo e sconosciuta ai più.
Le due ragazze amavano quel posto: erano cresciute
trascorrendo lì tutte le vacanze, passando il tempo con i
vecchi giochi di una volta, e quando erano alla Rocca – come
il paesino veniva chiamato con semplicità dai nativi
– smettevano in parte i panni tipici del ventunesimo secolo
per tornare ad attività come la morra e la ruzzica insieme a
tutti gli altri. Dunque non era inusuale vederle in jeans e scarpe da
ginnastica mentre passeggiavano per la Rocca o, come in quel momento,
attaccavano la ripida salita che portava al punto più alto
del paese, dove si trovava la chiesa.
Da lassù, la vista era mozzafiato: da
un lato svettava Ombrosa, la montagna che sorgeva a una manciata di
chilometri da Rocca Arsa e dove tutti si recavano per fare passeggiate
nei boschi, andare a cavallo o organizzare falò e picnic;
dall’altro si stendeva una piccola vallata di campi arati
punteggiata da tanti altri paesi più o meno piccoli, che di
notte brillavano come le stelle nel cielo terso sopra di loro. In
quell’angolino sperduto di mondo c’era la pace, e
nessuno di quelli che vi si recava regolarmente rimpiangeva il tempo
passato là: potendo scegliere tra Rocca Arsa e i viaggi in
altri luoghi del mondo, molti avrebbero scelto sempre la Rocca.
In effetti, valeva la pena affrontare quella
salita – breve ma tutt’altro che semplice
– solo per quella vista spettacolare. Antonia ne era
particolarmente convinta: difatti quello era il suo posto preferito,
dove andava almeno una volta al giorno e di cui sentiva la mancanza
quando tornava alla vita di tutti i giorni, lontana
dall’Abruzzo. Anche Federica la apprezzava, ma
c’erano giorni in cui la fatica di quella salita
l’avrebbe scoraggiata, se non ci fosse stata la sua amica a
trascinarla.
Quel dieci di Agosto era proprio uno di quei
giorni.
«Tonia, perché stiamo
salendo?» si lagnò Federica.
«Lo sai perché»
rispose placida l’altra.
«Ma dovremo tornarci stasera per vedere
le stelle cadenti, e io sono già stanca!»
ansimò Federica. «Vedi? Mi manca già il
fiato!»
«Non si direbbe, Fede, visto il vigore
con cui ti lamenti!» la prese in giro Antonia.
«Zitta e sali: siamo quasi arrivate».
Cinque minuti più tardi le due ragazze
ansimanti osservavano il paesaggio dalla porta sbarrata della
chiesetta, rabbrividendo appena al venticello fresco che soffiava
lassù.
«Non mi stanco mai di questo
posto» mormorò Antonia.
«Neanch’io» rispose
Federica, «ma della salita per arrivare,
sì!».
La sua amica sorrise. «Andiamo sul
promontorio» propose, accennando con la testa a un punto
dietro di loro. Attaccata alla chiesa, su uno sperone di roccia alto
qualche metro, c’era una piccola costruzione abbandonata che
nelle intenzioni di chi l’aveva costruita avrebbe dovuto
fungere da sagrestia: una parte della roccia era rimasta libera, e
capitava spesso che qualcuno si arrampicasse fin lì,
specialmente di notte, quando la totale assenza di luci artificiali
permetteva di osservare perfettamente le stelle.
Le ragazze si fecero strada attraverso le rocce
disseminate sul ripido e dissestato viottolo che costeggiava lo sperone
e si arrampicarono sull’ultimo tratto, aggrappandosi con le
mani alle sporgenze e mettendo con sicurezza i piedi nelle fessure
naturali.
Adesso che erano davvero nel punto più
alto del paese e non potevano salire più di così,
entrambe sorrisero: ogni volta che si inerpicavano fin lassù
si sentivano come se avessero espugnato e conquistato una cittadella
fortificata. Eppure, Federica se ne accorse quasi con orrore, Antonia
non era ancora del tutto soddisfatta.
Quella sorta di promontorio in miniatura era,
nella sua porzione non occupata dalla sagrestia, lungo circa sei metri
e largo otto; una fascia larga tre metri e mezzo e coperta da un
cortissimo strato d’erba precedeva un avvallamento profondo
più di due metri e largo uno e mezzo, oltre il quale,
sull’ultima porzione di pietra, crescevano piccole macchie di
fiori variopinti. Antonia amava quei fiori, e spesso si calava
giù per quella depressione del terreno per poi risalire
scavalcando massi e rocce; ma quel giorno sembrava avere altri piani, a
giudicare da come soppesava quel piccolo dirupo con lo sguardo.
«Vuoi andare di là, vero,
Tonia?» le chiese scoraggiata Federica.
«Sì e no» rispose
Antonia, continuando a osservare con aria meditabonda la sponda
opposta. «Non ho voglia di scendere e arrampicarmi, e poi
rifarlo per tornare indietro»
«E allora?» insisté
l’altra, non capendo dove la sua amica volesse andare a
parare.
«Allora voglio provare a
saltarlo» fu la replica di Antonia.
«Vuoi saltare? Ma sei
impazzita?» protestò Federica. «Se non
ci arrivi, se cadi lì sotto, rischi come minimo di romperti
una gamba, se non peggio!».
Antonia si strinse nelle spalle. «Dai,
Fede, da quando sei diventata così fifona?
C’è spazio sufficiente per la rincorsa e per
l’atterraggio da tutte e due le parti. Che ci
vuole?»
«L’incoscienza»
brontolò la sua amica. «O la totale assenza di
spirito di sopravvivenza. O entrambi!».
L’altra ragazza indietreggiò
fin dove poteva, incurante delle parole di Federica. «Dai,
vieni qui: salteremo insieme».
«Certo» disse sarcastica
l’altra. «Morire insieme o restare entrambe ferite
e bloccate in quell’avvallamento è proprio in cima
alla mia lista delle cose da fare!». Antonia la
guardò con occhi imploranti e Federica sbuffò.
«Va bene, d’accordo, vengo» cedette.
«Ma sappi che se moriamo, ti ammazzo!».
«Non essere così tragica: non
moriremo» la blandì Antonia mentre Federica la
affiancava. «Vedrai che dopo mi ringrazierai: quel pezzetto
di terra al di là della voragine è un mondo
diverso».
Federica alzò gli occhi al cielo.
«Saltiamo, prima che io cambi idea»
grugnì.
Le due ragazze si scambiarono uno sguardo
prendendo un respiro profondo, corsero verso la buca e arrivate sul
bordo si tuffarono nell’aria con tutta la forza che avevano.
*
Nel momento del salto, Antonia e Federica avevano istintivamente chiuso
gli occhi; per un attimo avevano temuto di non farcela, di cadere e
sentire l’impatto con le rocce appuntite del fondo della
depressione, invece erano atterrate sul terreno duro ma privo di
asperità. Nonostante l’assenza di pietre,
però, l’atterraggio non era stato indolore: le due
rimasero sdraiate a terra, gli occhi serrati mentre mugugnavano e si
tastavano le parti del corpo indolenzite dal colpo.
Quando finalmente si decisero a riaprire gli
occhi, impiegarono qualche istante per registrare un dettaglio bizzarro
e tutt’altro che trascurabile: sopra di loro, invece del
cielo sereno d’agosto, si stendeva una cupola di rami e
foglie attraverso cui la luce del sole filtrava in sottili lame dorate.
Ancora stordite, si rialzarono. Si trovavano in un
bosco, e ovunque volgessero lo sguardo vedevano file infinite alberi
altissimi che si innalzavano verso il cielo per metri e metri,
intervallati da cespugli e piccoli arbusti: l’insieme era
così armonico e regolare, anche da un punto di vista
geometrico, da far pensare che fosse tutta opera dell’uomo e
che qualcuno avesse preso le misure prima di mettere a dimora tutte
quelle piante. Il terreno era secco e polveroso; l’erba
cresceva a chiazze, stentando a sopravvivere in quel caldo secco ma non
per questo meno spietato, e l’intera scena sembrava dipinta
nei toni del marrone.
«Oh Dio, Tonia, che…che
succede?» balbettò Federica, guardandosi intorno.
«Questa non è Rocca Arsa, non è il
picco accanto alla chiesa…noi…che è
successo?»
«Non lo so» rispose piano
Antonia, guardandosi intorno a sua volta: non c’era niente di
familiare, in quel luogo. Si voltò: alle loro spalle
l’unico elemento estraneo in quel bosco altrimenti perfetto e
privo di punti di riferimento erano le rovine di un vecchio arco di
pietra, piazzato esattamente tra due alberi. Sembrava un rudere: un
tempo doveva essere stato spesso almeno tre metri, ma parecchi massi
erano rotolati giù e ora giacevano inutili alla base della
costruzione, mentre nel punto più alto pareva che
l’arco stesse per crollare del tutto. La ragazza
richiamò l’attenzione dell’amica con un
leggero colpetto alla spalla. «Fede, che ne pensi?».
L’altra si voltò e socchiuse
gli occhi. «È…è un
arco» rispose. Scrutò con aria dapprima confusa e
poi meravigliata i segni sul terreno che le separavano
dall’arco: foglie smosse, rametti spezzati, impronte. Si
avvicinò all’ammasso di rocce, incredula.
«Credo…credo che…»
«…siamo sbucate da
qui» concluse Antonia per lei, raggiungendola e sfiorando
l’arco.
«Questo significa che possiamo tornare
indietro» considerò Federica. Rivolse uno sguardo
eloquente all’altra. «Questo posto…non
mi piace. C’è qualcosa di tremendamente sbagliato
in tutto questo. Tonia, ti prego, torniamo indietro».
Antonia annuì. Anche lei era turbata da
quella situazione – non riusciva a spiegarsela, niente di
quello che conosceva poteva aiutarla a comprenderla – e prese
la mano dell’amica. «Al mio tre» disse.
Indietreggiarono di qualche passo, per sicurezza.
«Uno…due…tre!».
Le due ragazze corsero in avanti e saltarono
nell’arco. Stavolta, però, dall’altra
parte c’era ancora il bosco.
«Perché siamo ancora
qui?» mormorò Federica, preoccupata.
«Non lo so» disse Antonia:
anche lei era nervosa. «Forse dovremmo…».
Il resto della sua frase fu inghiottito da un
boato assordante; la terra tremò così
violentemente da farle cadere, mentre il boato veniva sovrastato da
quello che sembrava il ruggito di un animale feroce.
«Che diavolo era?»
ansimò Antonia, sconvolta, rimettendosi in piedi.
«Non ne ho idea» rispose
Federica, accettando la mano che l’altra le offriva e
facendosi tirare su.
Le ragazze si scambiarono uno sguardo inquieto,
interrogandosi silenziosamente sul da farsi.
«Non credo sia saggio restare
qui» disse Antonia. Lanciò uno sguardo triste
all’arco. «Vorrei riprovare ad attraversarlo,
ma…».
Nuovo boato, nuovo terremoto; per la terza volta
in poco tempo le due giovani donne si ritrovarono sdraiate sulla terra
secca, ma stavolta il suono che seguì il sisma
risuonò più chiaro e vicino: più che
un ruggito, si resero conto Federica e Antonia, somigliava al grido
dapprima profondo e poi stridulo di una creatura enorme. Se possibile,
ne furono ancora più spaventate.
«Federica, andiamo via»
esclamò con urgenza Antonia, alzandosi di scatto seguita
dall’amica. «Quella specie di urlo non mi piace
affatto: dobbiamo trovare un posto in cui nasconderci».
«Sì, ma dove?»
chiese Federica, scoraggiata e intimorita.
«Ovunque» rispose sbrigativa
l’altra. «Dovrà pur esserci qualcuno, in
questa foresta, a cui possiamo chiedere aiuto!».
Un coro di urla stridule e assordanti si fece
strada fino a loro, seguito dal rumore pesante – troppo,
troppo pesante – di passi.
Le due amiche si bloccarono, agghiacciate.
«Sembra che vengano da questa parte, di
qualunque cosa si tratti» mormorò Federica,
terrorizzata. «Come faremo a difenderci?».
Antonia scrutò rapidamente il terreno
circostante con lo sguardo. «Là!» disse
brusca, indicando due grossi rami secchi e nodosi. «Useremo
quelli!».
Insieme si slanciarono in avanti; afferrarono un
ramo ciascuna, e non appena vi ebbero stretto intorno il pugno, il
legno si trasformò in metallo lucente proprio sotto il loro
sguardo attonito.
«Ma che
accidenti…?» balbettò Antonia,
lasciando cadere quello che fino a un attimo prima era stato un ramo
inutile e che si era appena tramutato in una massiccia spada.
«Tonia, non ci capisco più
niente!» disse disperata l’altra, facendo per
lasciare la propria spada: sembrava in procinto di crollare.
«Ce ne preoccuperemo più
tardi» decise Antonia, di nuovo padrona di sé,
mentre recuperava l’arma. La terra tremò ancora
tre, quattro, cinque volte in una successione talmente rapida da
sembrare un’unica scossa. «Corri, Fede,
corri!».
Le due ragazze scattarono più veloci
che potevano nella direzione opposta a quella da cui provenivano i
versi e i passi, le spade strette convulsamente nei pugni, inciampando
e cadendo ogni volta che un nuovo terremoto faceva tremolare la terra
sotto i loro piedi. Eppure, più correvano e più
erano spaventate: non sapevano dov’erano né da
cosa fossero minacciate, non avevano idea di dove andare e se avrebbero
trovato aiuto. Macinarono chilometri e chilometri, senza osare fermarsi
nonostante fossero senza fiato e le loro gambe bruciassero per lo
sforzo; ma quando un lupo grigio grosso quanto un cavallo
sbucò dal nulla di fronte a loro, le due si bloccarono tanto
repentinamente da cadere a terra, urlando.
«Fermi, in nome del principe!»
disse una voce.
Antonia e Federica aprirono gli occhi: erano
circondate da una dozzina di quei lupi e da altrettanti uomini armati
fino ai denti. Uno di loro, con ricche rifiniture dorate
sull’armatura, si avvicinò impugnando una spada
affilatissima.
«Tiratele su»
ordinò secco; quattro uomini si avvicinarono solerti e
trascinarono in piedi le ragazze afferrandole per le braccia. Il
capitano le guardò con sospetto e nessuna pietà.
«Gettate immediatamente le armi, se ci tenete alla
vita!».
Le due, incredule e terrorizzate, obbedirono:
lasciarono le spade, e nel momento in cui toccarono terra, le lame
tornarono ad essere inutili pezzi di legno.
In perfetta sincronia, tutti gli uomini fecero un
passo indietro.
«Stregoneria!»
tuonò il comandante, gli occhi che mandavano lampi.
«Nemici stranieri nelle nostre terre!».
«Stregoneria? Nemici? Noi siamo
soltanto…» cercò di dire Antonia,
allargando le braccia.
La spada del capitano mulinò a due
centimetri da lei. «Resta immobile, o ti ritroverai senza
mani!». Antonia si bloccò, trattenendo persino il
respiro; Federica scoppiò a piangere, spaventatissima.
«Ammanettatele: le portiamo al castello» decise il
comandante, la spada sempre puntata contro Antonia. Le guardie si
affrettarono a obbedire, allacciando ai polsi delle ragazze delle
spesse manette così pesanti da impedire loro anche di
sollevare le braccia. Con due lunghe catene, il capitano
assicurò le manette delle prigioniere alla sella del proprio
lupo prima di rimontare, imitato dagli altri, e lanciò la
bestia al galoppo.
Federica e Antonia furono costrette a correre come
non mai per tenere il passo. Per quasi mezz’ora resistettero,
poi la seconda crollò: restò attaccata alla
catena, mentre il lupo la trascinava sul terreno come
un’inerme bambola di pezza.
«Fermati, bastardo!»
urlò Federica col poco fiato che le restava; prese la catena
tra le mani come meglio poteva e iniziò a strattonarla pur
continuando a correre. Lanciò uno sguardo alla sua amica, e
vide con orrore la pelle delle sue braccia lacerarsi ovunque al
contatto con il suolo e la testa rimbalzare sulla terra dura.
«FERMATI, MALEDETTO!».
Il capitano arrestò la corsa del lupo e
si voltò: Federica lo fissava con odio, il volto
congestionato, mentre Antonia era rimasta semisvenuta a terra.
L’uomo afferrò la catena della seconda e la
strattonò con cattiveria. «In piedi!»
ordinò. «In piedi, o non saranno un mio problema
le condizioni in cui arriverai a palazzo!».
Con uno sforzo immenso Antonia si
rialzò, le gambe malferme e le braccia e la testa
sanguinanti. Federica fece per avvicinarsi e sostenerla, ma un nuovo
strattone alle catene le separò. «Vi conviene
tenere il passo, o sarà peggio per voi» disse il
comandante. Un colpetto delle redini e il lupo ripartì,
stavolta al trotto; a fatica le due ragazze rimasero in piedi, ormai
svuotate di qualsiasi cosa – paura, rabbia, dolore, niente
esisteva più – fino a quando, dopo quelle che a
loro parvero ore, il gruppo si fermò di fronte a
un’altissima, massiccia murata di pietra che sembrava
racchiudere una porzione di bosco più fitta delle altre.
«Chi va là?»
gridò un uomo invisibile ai loro occhi.
«Capitano Grant e ronda»
urlò in risposta l’uomo con l’armatura
decorata.
L’enorme portone di legno si schiuse
lentamente quel tanto che bastava a permettere il passaggio del piccolo
contingente; una volta all’interno delle mura, il capitano
scese dalla propria cavalcatura e avanzò a passi decisi
attraverso il giardino, tenendo con fermezza le catene delle
prigioniere tra le mani.
Le ragazze, stordite dagli avvenimenti e da quel
trattamento brutale, non riuscirono neanche a guardarsi intorno. Tutto
quello che riuscirono a notare fu che anche lì,
all’interno di quella cittadella fortificata, tutto sembrava
essere stato invaso dagli alberi.
Ben presto non furono più
all’aperto, ma immersi nelle viscere del palazzo; trascinate
e strattonate dal loro carceriere, circondate dai soldati, Federica e
Antonia percorsero lunghi corridoi in cui le chiazze di luce solare che
filtravano dalle finestre protette da spesse inferriate si alternavano
a zone d’ombra. Senza quasi rendersene conto, si trovarono al
centro di un’ampia sala rettangolare rivestita di legni e
marmi pregiati: una serie di nicchie nei muri erano chiuse da tende
cremisi e all’estremità opposta alla porta, su una
piattaforma, faceva bella mostra di sé un grande, strano
trono che sembrava scavato nelle radici e nel tronco di un albero
enorme.
«Cosa volete?» chiese un uomo
vestito di nero sbucando da dietro una delle tante tende.
«Chiedo udienza urgente e straordinaria
a Sua Maestà, Mastro Devall» rispose formale il
capitano Grant. Diede un lieve strattone alle catene.
«Insieme al resto della ronda ho catturato due straniere:
potrebbero rappresentare una grave minaccia per il regno, e credo che
la questione vada sottoposta a Sua Altezza il prima
possibile».
Il Mastro annuì una sola volta.
«Informerò immediatamente Sua Maestà.
Aspettateci qui: sono certo che anche lui vorrà affrontare
subito il problema».
Devall si allontanò con passo rapido,
sparendo di nuovo dietro la tenda da cui era emerso. Dopo qualche
istante di silenzio, Antonia si schiarì la voce e
guardò Grant.
«Chiunque tu sia, dopo tutto quello che
ci hai fatto…vuoi almeno dirci che diavolo
succede?» disse.
Il capitano strinse le labbra. «Succede
che voi sapete usare la Magia e potreste essere una minaccia per le
nostre terre. Ora il principe del regno verrà qui: vi
osserverà, interrogherà, e se vi
riterrà pericolose…», Grant le
guardò senza pietà, «sarete giustiziate
all’alba». |