Under a Paper Moon- capitolo 1
1. Scarlett
Essere un licantropo, contrariamente a quello che pensa la gente, fa
abbastanza schifo. O meglio, per tre giorni al mese fa schifo, il resto
del tempo non è poi così male. Certo, si deve fare i
conti con una grande suscettibilità, scarso controllo della
rabbia, esasperazione più che facile da raggiungere… Le
solite cose.
Oltre questo però ci sono
anche dei vantaggi, per esempio la vista più acuta,
l’udito più fine, l’olfatto più sviluppato,
poter mangiare quanto ti pare senza ingrassare per via del metabolismo
veloce, visione notturna incorporata e un sacco di altre cose che
è meglio non mostrare in pubblico.
Quindi, in fondo, la licantropia ha
anche dei lati positivi. Più o meno: se non sei abbastanza bravo
da nascondere cosa sei veramente finisci male. Molto male.
Perché l’uomo fugge dal diverso, se si venisse a sapere
che tu puoi farti spuntare zanne e artigli saresti marchiato come un
pericolo, saresti perseguitato e probabilmente ti ucciderebbero. O,
peggio, ti userebbero come cavia per chissà quali esperimenti.
Questi erano gli allegri pensieri
che mi accompagnavano quella mattina. Ora, chiunque può pensare
che un lupo mannaro sia sempre pieno d’energia, pronto ad
affrontare ogni tipo di nemico in ogni momento della giornata. Beh, non
è assolutamente così. Soprattutto alle sette di mattina.
Diciamo che a quell’ora assomigliavo ad uno zombie mannaro.
Sbuffai osservando la massa di nodi
che avevo in testa: com’era possibile che i miei capelli non
riuscissero a rimanere lisci per più di qualche ora? Che gli
avevo fatto di male? Frugai nel cassetto del mobile del bagno alla
ricerca di una pinza. Dopo una decina di spazzole, qualcosa come un
centinaio di elastici e forcine, trovai quella che cercavo: una semplice pinza di plastica nera piuttosto resistente.
Mi raccolsi i capelli, o forse
è meglio dire criniera?, in un chignon disordinato da cui
sfuggivano molte ciocche: non era un granché, ma era meglio di
niente.
Tornai in camera cercando di infilarmi nei jeans strappati senza
cadere. Afferrai la camicia a scacchi nera e bianca e la indossai
mentre cercavo gli anfibi con lo sguardo. Li trovai sotto la scrivania
e, quando mi chinai per prenderli, sbattei la testa contro il legno.
Imprecai trai i denti sperando che mia madre non mi sentisse: odiava le
parolacce tanto quanto odiava le persone false, quindi davvero molto.
«Scarlett! Sbrigati, o farai tardi!» Urlò dal piano di sotto.
Alzai gli occhi al cielo. «Se
tu mi comprassi un’auto potrei dormire come minimo una
mezz’ora in più.»
«Puoi vivere benissimo senza!» Replicò con voce fin troppo allegra per i miei gusti.
Le feci il verso tra me e me mentre
cercavo lo zaino sepolto sotto un cumulo di vestiti. Lo tirai fuori e
diedi un’occhiata veloce ai libri: sembrava ci fossero tutti. Me
lo infilai in spalla e mi precipitai giù dalle scale riuscendo a
non spalmarmi sul pavimento per puro miracolo. Entrai in cucina con la
mia solita grazia e ci trovai mia madre, Natalie, tranquillamente
seduta al tavolo intenta a sorseggiare una tazza di caffellatte.
Indossava un morbido maglione rosso scuro e dei jeans semplici. Aveva
raccolto i suoi lunghi capelli scuri in una coda bassa che lasciava
alcune ciocche libere di incorniciarle il viso. Era una bella donna che
non dimostrava i suoi quarant’anni, aveva gli zigomi morbidi, la
fronte solcata da rughe poco pronunciate e quando sorrideva le si
formavano delle piccole fossette sulle guance.
«Buongiorno tesoro.» Mi
salutò come se lo scambio di urla di poco prima non fosse
successo. A dirla tutta in casa nostra era una cosa da tutti i giorni.
«’Giorno.» Borbottai lasciando lo zaino su una sedia.
Afferrai un paio di biscotti al cioccolato dal piatto che stava al centro del tavolo e li mangiucchiai appoggiata al lavandino.
«Quando riparti?» Chiesi osservandola di sottecchi.
Prese un sorso dalla sua tazza prima di rispondere. «Domani. L’Egitto mi aspetta.»
E mi fece un sorriso materno di
quelli che sembravano voler dire: “ripareremo tutto,
promesso”. Anche se non c’era niente da riparare.
«Ah… Bello.» Commentai.
Mia madre faceva la hostess quindi
viaggiava di continuo e io la vedevo poco o nulla. Inoltre
cercava di guadagnare qualcosa in più accompagando gli uomini
d'affari che volavano con la sua compagnia alle riunioni e facendo loro
da interprete: fin da piccola aveva sempre amato le lingue e ne aveva
studiata più di una per anni. Se la cavava alla grande con il
cinese, il francese, qualcosa di tedesco e di russo.
Mi andava bene che passasse tanto tempo fuori casa, insomma,
c’ero abituata ormai, anche se a volte mi avrebbe
fatto piacere averla con me, magari quando affrontavo un periodo
difficile o che so io. Così, però, rischiavo meno che
scoprisse cos’ero in realtà e questo era decisamente un vantaggio.
«Ti porto un regalo, mmh?
Magari una collana con uno scarabeo: sai, portano fortuna.»
Aggiunse guardandomi, un sorriso entusiasta ad illuminarle il viso.
«Un po’ di fortuna mi farebbe comodo in effetti, sì.» Concordai.
Abbassò gli occhi e sollevò un sopracciglio con aria critica. «Tesoro i tuoi
pantaloni sono strappati… Dovresti buttarli.»
Seguii la direzione del suo sguardo
che si era soffermato sui miei jeans. «Ma no, sono fatti
così. Fin da quando li ho comprati. Sai, vanno di moda.»
In realtà non mi importava
molto delle tendenze in fatto di vestiti, ma i jeans strappati avevano
un fascino particolare, menefreghista e strafottente che mi aveva
conquistata quindi… Avevo ceduto alla tentazione ed ora ero
lì, con quei meravigliosi pantaloni che sembravano essere finiti
tra le grinfie di un gatto particolarmente arrabbiato.
Mia madre, com’era
prevedibile, non sembrava convinta. «Sei sicura, cara? Non
è che non vuoi ammettere di averli rotti per sbaglio?»
Sbuffai. «No mamma, te lo giuro. Sono fatti così e mi piacciono anche.»
Si avvicinò la tazza alle labbra. «Se lo dici tu… Anche se secondo me un sari ti starebbe meglio. Magari blu. O forse è meglio rosso…»
Alzai gli occhi al cielo:
l’ultimo viaggio in India l’aveva condizionata un po’
troppo, era già la terza volta che tirava fuori
l’argomento sari.
«Lo sai che io ho una politica anti-gonna, no? E questo esclude
automaticamente anche gli abiti tipici dell’India.» Mi
strinsi nelle spalle. «Scusa mamma.»
Scosse la testa sorridendo. «Sei incorreggibile Scout.»
Mi irrigidii sentendo quel
soprannome: lo aveva inventato mio padre, o meglio, aveva preso
ispirazione dal suo libro preferito, “Il buio oltre la
siepe”, dove il nomignolo della protagonista era proprio Scout.
Erano passati dieci anni da quando
papà se n’era andato perché non amava più
mamma e, anche se non l’aveva mai ammesso, perché si era
innamorato della direttrice del suo ufficio, una certa Patty che amava
alla follia le gonne inguinali.
«Tesoro devi sbrigarti se
vuoi arrivare a scuola in tempo.» La voce dolce e rassicurante di
mia madre mi strappò via da quei ricordi cupi.
«Sì, ora vado.» Borbottai distrattamente.
Mi stiracchiai e mi lasciai
sfuggire uno sbadiglio: dovevo ricordarmi, per l’ennesima volta,
di andare a dormire prima la sera. Mi infilai lo zaino in spalla, diedi
un bacio sulla guancia a mamma e uscii con lei che mi augurava una
buona giornata urlando dalla cucina.
Dopo quattro ore di scuola
relativamente tranquille, il che poteva quasi essere considerato un
record visto il mio carattere piuttosto spigoloso, era ovvio che almeno
una materia andasse male, no? E quale, se non matematica?
La professoressa Smith camminava su
e giù tra i banchi stretta nel suo tailleur grigio topo
scrutandoci da dietro gli occhiali come se avesse dovuto decidere chi
uccidere. Tutti, me compresa, tenevano lo sguardo fisso sul quaderno
pregando mentalmente di non essere scelti per essere mandati alla
lavagna a correggere gli esercizi per casa. A me non erano riusciti
nonostante ci avessi provato più volte. Più o meno. In realtà non era
completamente vero, ma solo perché le disequazioni di secondo
grado non erano il mio forte.
La prof si fermò dietro alla
cattedra e ci appoggiò sopra le mani sporgendosi un po’ in
avanti come se non riuscisse a vederci bene.
«Dawson.» Abbaiò. «Alla lavagna.»
Mi irrigidii prima di sospirare: mi
sembrava strano che non mi avesse ancora chiamata. Erano passate ben
due lezioni senza che mi mandasse al patibolo, era un record. Presi il
quaderno, ormai rassegnata,
mi alzai e raggiunsi la lavagna. Abbassai lo sguardo sul lavoro che
avevo fatto a casa e mi resi conto che peggio di così non poteva
andare: la pagina era piena di scarabocchi, testi di canzoni, tentativi
di tirare fuori la mia vena artistica troppo nascosta e pochi, troppi
pochi numeri.
Cominciai a scrivere la traccia
dell’esercizio alla lavagna, il gesso che mi macchiava le dita.
Quando venne il momento di svolgerlo mi bloccai sperando in una qualche
illuminazione improvvisa o che so io. Ovviamente, non successe niente
del genere e io rimasi per cinque minuti buoni ferma lì come una
perfetta idiota.
«Vedo che non ha studiato,
signorina Dawson. Come pensa di passare continuando così?»
Mi riprese la professoressa guardandomi con gli occhi socchiusi.
«Recupererò.» Mi affrettai a dire.
«Mmh.» Fu il suo commento decisamente scettico.
Beh, come darle torto? Quella
sarà stata la decima volta che promettevo a me stessa, e a lei,
che sarei riuscita a recuperare, eppure non ero migliorata nemmeno un
pochino.
Elisabeth, la mia migliore amica,
si osservava allo specchio con aria decisamente soddisfatta: aveva
appena dato un “taglio drastico” ai suoi capelli, testuali
parole.
Ora aveva mezza testa rasata e una
cascata di boccoli ramati sull’altro lato. Le stavano bene, devo
ammetterlo, e mettevano il risalto il piercing che aveva sul
sopracciglio sinistro.
Batté le mani saltellando come una bambina. «Sono stupendi!»
Il parrucchiere, Tom,
ghignò. «È un taglio audace e molto, molto di
tendenza.» Mi lanciò un’occhiata. «E tu,
facciamo lo stesso anche per te?»
Era un ragazzo di circa venticinque
anni, magro, alto e un po’ allampanato. Aveva i capelli scuri
pettinati all’indietro con un’abbondante quantità di
gel, portava un dilatatore per orecchio e un piercing anche al
naso. Nel complesso non era brutto, anzi, solo che il suo viso mi
ricordava un po’ una volpe o un gatto piuttosto ambiguo e
scaltro.
Aveva aperto quel locale con la sua
socia, Sophie, ed Elisabeth l'aveva adorato subito definendolo "moderno
e alternativo". In effetti era un po' diverso dal parrucchiere dove
andavo da piccola: era un ambiente molto ampio e reso lumino dalle
grandi finestre che si affacciavano sulla strada. I colori predominanti
erano il bianco e l'argento con tocchi di azzurro e rosa posizionati
con cura un po' ovunque. Il pavimento era di parquet chiaro, cosa che
contribuiva a dare luce a tutta la stanza. Gli specchi posizionati
davanti alle postazioni dove si tagliavano i capelli, costituite da
comode poltrone di pelle nera dallo stile attuale e minimalista, erano
alti da terra fino al soffitto. Era un posto piacevole da
vedere, sempre fresco e profumato, ma dava l'idea di essere un po' freddo.
Saltai subito all’erta. «Uh, no, no. Io sono qui solo per… incoraggiamento.»
Inarcò un sopracciglio, poco
convinto. «Okay… Come vuoi tu. E comunque adoro il colore
dei tuoi capelli.»
Li sfiorai quasi senza rendermene conto. «Oh, grazie.»
Lui mi fece un sorriso parecchio ammiccante prima di tornare a chiacchierare animatamente con Elisabeth.
Distolsi lo sguardo incrociando le
braccia al petto: non amavo quelle cose così… femminili
quali shopping, trucchi, vestiti e simili. Però non ero neanche
un maschiaccio. Semplicemente avevo uno stile mio e lo seguivo in tutto
per tutto: in fondo, l’importante era che piacesse a me.
Guardai distrattamente fuori dalla
finestra sperando che Beth la finisse presto di comportarsi come una
ragazzina esaltata. Con il suo carattere esuberante e pieno di vita non
passava mai inosservata. Come se questo non bastasse, la sua passione
per la moda che la portava a compiere spedizioni infinite nei centri
commerciali contribuiva a renderla molto appariscente. Per esempio,
quel giorno aveva scelto di indossare dei pantaloni di pelle nera molto
aderenti, una canottiera di tessuto morbido e leggero, stivali neri e
una giacca dello stesso colore dal taglio elegante e moderno.
L'eyeliner nero e il rossetto rosa completavano il tutto.
In fondo, dovevo ammettere che il suo stile mi piaceva, era audace ma
sofisticato, e lei sapeva indossare di tutto, però ero sicura
che non sarei mai stata in grado di fare lo stesso. E mi andava bene
così.
Un'altra occhiata distratta alla finestra e mi resi conto che si era già fatto buio: la
luna
spiccava nel cielo scuro, ormai quasi completamente piena, col suo bagliore
soffuso. Mi mordicchiai nervosamente un’unghia fino a sentire il
sapore amaro dello smalto nero in bocca. Mi ci erano volute ore per riuscire a mettermelo senza sbavature.
Mancava davvero poco, troppo
poco, al
plenilunio, un paio di giorni al massimo, e questo mi metteva
addosso
una grande inquietudine perché era più che vero che la
luna piena influenzava i licantropi. Eccome se lo faceva: istinti
omicidi, perdita di lucidità, furia incontrollata erano solo
alcuni degli effetti che scatenava.
Con la perdita del controllo, poi, rischiavo di fare del male a
qualcuno, di uccidere qualcuno.
Se l’avessi fatto me ne sarei dovuta andare il
più lontano possibile rinunciando a tutto quello che mi ero
costruita in diciassette anni. E non potevo assolutamente
permettermelo. Per me e per mia madre: cosa avrebbe potuto pensare di
una sparizione improvvisa? Conoscendola, avrebbe mobilitato tutti gli
agenti di polizia della città, avrebbe contattato il presidente
degli Stati Uniti in persona e avrebbe richiesto un'intera squadra
dell'FBI per indagare. No, non potevo farle una cosa del genere.
In fondo, ero riuscita ad evitare di
combinare casini per anni, ingegnandomi in mille modi diversi,
diventando praticamente un'esperta dei boschi intorno a Seattle,
però, come dice il proverbio,
c’è sempre una prima volta. E io ero terrorizzata
dall’idea che quella prima volta potesse coinvolgere qualcuno a
cui tenevo.
SPAZIO AUTRICE: Penso che ormai sia chiaro che adoro i licantropi.
Credo che siano creature affascinanti, complesse e molto interessanti.
In questa storia, di nuovo nata per caso, voglio dare ai "miei" lupi
mannari delle connotazioni più tradizionali, come si può
già cominciare a capire da questo primo capitolo.
Vi anticipo che ci saranno due punti di vista: un capitolo sarà
narrato dalla protagonista, Scarlett, e un altro dal protagonista,
Adam. L'ho fatto sia perché voglio sperimentare una tecnica
nuova per cercare di capire qual è lo stile più adatto a
me, sia perché mi servirà avere due narratori
più avanti.
Voglio anche avvisarvi che più avanti ci saranno degli accenni
ad una coppia slash, ovvero un ragazzo con un altro ragazzo. Non mi ci
soffermerò molto, ma mi sembrava giusto dirvelo, anche
perché riguarderà un personaggio abbastanza importante.
Spero che questa nuova storia possa piacervi, io mi ci sono già
affezionata, sia alla trama che ai personaggi e spero che sarà
lo stesso anche per voi.
TimeFlies
|