angelo dei mondi
Un breve racconto, la mia prima (e sperando che non sia l'ultima) opera
compiuta.
Alla mia dolce
Mel,
mia preziosa
compagna
di avventure reali e
fantastiche.
Mi hai ispirato questo
racconto
in un giorno
grigio
e apparentemente
senza
importanza.
Melanie guardò fuori dal finestrino dell’aereo. Il cielo infinito era
colorato d’arancio verso l’orizzonte e le nuvole soffici avevano tinte rosa e
violette che stemperavano nel bianco. Già il tramonto. Già un giorno intero era
passato. E il dolore non si era ancora affievolito, la sensazione di sentirsi in
trappola non l’aveva lasciata nemmeno per un secondo. Combatté testarda contro
le lacrime che le pungevano gli occhi. In realtà una battaglia persa in partenza
dato che prima o poi le piccole gocce salate avrebbero avuto di nuovo la meglio,
ma solo allora si sarebbe crogiolata nella sua sofferenza. Non ora. Adesso si
doveva concentrare sulla sua determinazione – si rifiutava di definirla
vigliaccheria –, la stessa che l’aveva indotta ad andarsene.
Melanie
è immobile. Il suo respiro è sicuro, leggerissimo. È una missione semplice,
quasi banale. Ne ha affrontate talmente tante di simili a questa che quasi non
sente più l’ormai familiare adrenalina che circola nel sangue. La luce arancio
del tramonto illumina la scena: una ragazza sui diciotto anni, minuta e con
lunghi capelli castani legati in una coda di cavallo, apparentemente in attesa
di qualcosa, la schiena contro un muro, lo sguardo fisso sulla strada deserta
dietro l’angolo. Un pugnale nel suo fodero le pende dalla cintura. Aspetta un
segnale dalla sua compagna, Marina. Quando Marina avrebbe apertola Porta, i
demoni non avrebbero tardato ad arrivare. E allora li avrebbero eliminati,
impedendo loro di chiudere il prezioso passaggio.
Un bagliore comincia a
brillare a mezz’aria, in mezzo alla strada. È iniziata. Melanie chiude e riapre
le mani per tre volte, pronta a scattare. Passano i secondi, ma non accade
nulla. L’inquietudine si fa strada nel suo cervello, annebbiando i suoi
pensieri. Perché non arrivano?, si chiede. È strano. Molto
strano.
Ad un tratto qualcosa di
scuro e inerte viene scagliato da un tetto di una casa vicina proprio davanti
alla Porta ormai completamente aperta, un ovale luminoso, fluttuante qualche
centimetro da terra. L’odore di morte e una sensazione di gelo invadono Melanie.
Ha un brutto presentimento. Si concentra sulla sagoma immobile e capisce
all’istante che è un corpo umano, probabilmente morto. Una voce lapidaria dentro
di lei le suggerisce l’identità dell’uomo, ma non vuole crederci. Muove un passo
insicuro fuori dal suo nascondiglio, poi un altro e un altro ancora. Ogni metro
percorso non fa che confermare la conclusione cui il suo subconscio è già
arrivato. Quando ne è certa, si mette a correre. La sua prudenza è nulla, come
la voce della sua compagna che le urla di fermarsi, che è una trappola. Il mondo
è solo un involucro vuoto. Si getta con foga sul corpo, su Luca, il suo migliore
amico di sempre. Gli cerca con foga il battito del cuore, ma non sente nulla,
nemmeno il più debole fremito vitale. Si sente la terra crollare sotto i piedi,
mentre guarda con gli occhi pieni di lacrime il viso senza vita di Luca, pallido
nella luce morta del crepuscolo. Non le importa di Marina che sta combattendo
contro cinque demoni da sola, non le importa se quelli riusciranno a chiudere
la Porta per
sempre. Ciò che conta è solo che non potrà mai più parlare con Luca, perché
gliel’avevano portato via e lei, imprigionata nella gabbia della sua esistenza e
della sua ignoranza, non era stata in grado di
impedirlo.
Per questo se
n’era andata. Per quello e un centinaio di altri motivi, un migliaio di dubbi
che ogni giorno della sua vita le avevano attraversato la mente come secchiate
di acqua gelida e che lei aveva ignorato con tanta ostinazione. Domande
destinate a rimanere senza una risposta, come per esempio il perché della sua
missione, il perché del suo stesso esistere. Melanie era un angelo dei mondi; un
essere diverso, eletto in un certo senso, che custodisce nel cuore la chiave per
aprire le Porte dei mondi. Anche Marina era un angelo e insieme avevano il
compito di preservare le Porte, di proteggerle, e di eliminare i demoni il cui
intento era di chiudere i passaggi tra un mondo e l’altro. Il tutto senza sapere
il motivo del loro agire, senza sapere quali sarebbero stati i frutti delle loro
fatiche. Semplicemente un giorno avevano capito cos’erano e imparato con
l’esperienza ciò che la loro stessa natura si aspettava dagli angeli. Dovevano
anche rispettare una miriade di regole, istinti innati a esseri uguali a loro:
non oltrepassare le Porte, non fraternizzare coi demoni, non parlare a nessuno
della propria vera natura… Più che regole, divieti in realtà. E Melanie aveva
disobbedito ad uno di questi in particolare. Aveva confidato ogni cosa della sua
missione e della sua esistenza segnata al suo migliore amico. E i demoni
l’avevano ucciso e usato come esca sapendo che così l’avrebbero ferita a morte.
Melanie non l’aveva sopportato. Non era riuscita a tollerare l’idea di non
sapere se la morte di Luca fosse valsa a qualcosa, se la sua perdita avrebbe
portato ad un risultato. Era stanca di combattere per l’incertezza. Si sarebbe
costruita una nuova vita, lontana dai dubbi e dal dolore.
Arrivò a Tokyo
quando era tarda sera, dopo circa una ventina di ore di volo ed era sfinita. In
Italia erano più o meno le tre del pomeriggio, ma non aveva la minima intenzione
di chiamare a casa. I ponti andavano recisi completamente se si volevano evitare
i ripensamenti.
Per quanto
Melanie fosse stanchissima il suo viaggio non era ancora terminato: le restava
da raggiungere il piccolo appartamento che aveva affittato in periferia. Chiamò
un taxi perché non se la sentiva proprio di affronta i mezzi pubblici; avrebbe
rimandato l’incontro al mattino seguente, quando si sarebbe recata alla ricerca
di un lavoro.
Quando giunse
all’appartamento era ormai mezzanotte passata. Entrò nel piccolo bilocale al
terzo piano di un condominio, si diresse immediatamente verso il minuscolo
bagno, abbandonando i bagagli nel salotto-cucina – una poltrona sgualcita di
fronte a una TV il cui funzionamento era alquanto dubbio, affiancate ad un piano
cucina in un angolo – e si tuffò sotto la doccia, impaziente di essere investita
dal getto bollente. Uscita dalla doccia si infilò della biancheria pulita e una
vecchia maglietta e si abbandonò sul letto, esausta. Infine scivolò in un sonno
ristoratore e senza sogni.
Il giorno
seguente Melanie si svegliò piuttosto tardi. Si sentiva ancora tutta
indolenzita. Si stiracchiò pigramente e poi si rannicchiò stringendosi le
ginocchia al petto, cercando di contenere il dolore che minacciava di bruciarla
e di sfociare in un incendio. Le lacrime le pizzicarono nuovamente gli occhi e
questa volta non le fermò. Permise a se stessa di sfogarsi, di riversare una
minima parte della sua sofferenza all’esterno. In quel momento ebbe la certezza
che i seguenti sarebbero stati giorni lunghi.
Non aveva la
minima idea di dove poter trovare lavoro. Tokyo era una città del tutto simile a
quelle occidentali a lei familiari: palazzi moderni torreggiavano ovunque e
sembravano quasi voler soffocare la miriade di persone che si muoveva
indaffarata, incurante di ogni cosa esclusi i loro lavori e le loro piccole
preoccupazioni di tutti i giorni. Tutti avevano fretta e fortunatamente nessuno
mostrava interesse per lei, per quanto i suoi tratti somatici fossero
palesemente differenti da quelli della maggior parte della gente. Tanto meglio.
Melanie voleva nascondersi, in un certo senso sparire, annullarsi nella foga di
adattarsi a una nuova vita il più in fretta possibile e smettere di soffrire.
Non doveva essere troppo difficile.
Non sapeva
nemmeno una parola in giapponese, fatta eccezione per qualche frase banale e i
numeri. Forse poteva sperare di trovare un impiego come commessa in un
supermercato, ma ne dubitava. Era più probabile trovare un posto come addetta
alle pulizie: pochi contatti con la gente e nessuna necessità di interagire. In
ogni caso si sarebbe accontentata; non era esattamente il momento per fare gli
schizzinosi perché i risparmi che aveva con sé non sarebbero durati in eterno.
Perciò quando quella sera ritornò al suo appartamento con un impiego in un
piccolo supermercato era più che soddisfatta. Aveva passato tutta la giornata a
girovagare a caso per le strade affollate e afose (era piena estate), entrando
in supermercati e bar, presentando la sua situazione nel miglior inglese di cui
era capace e alla fine la sua ricerca era stata premiata.
Ma si sentiva
sola. Tremendamente sola. Marina e Luca non erano gli unici amici che aveva in
Italia. C’erano tante persone a cui voleva bene e che proprio in quel momento
probabilmente si stavano chiedendo dove fosse finita. Se n’era andata senza dire
niente a nessuno, né alla sua famiglia né ai suoi amici. Non che dei parenti le
importasse molto. Non era mai stata attaccata a loro in particolar modo. Certo,
provava l’affetto incondizionato che accomuna quasi ogni famiglia, ma non erano
i parenti che le mancavano terribilmente. Molte volte ne avrebbe fatto
volentieri a meno. No. Erano i suoi amici. Fin da quando era piccola aveva
imparato ad appoggiarsi a loro, a voler loro un bene enorme, a confidarsi e a
quasi dipendere da loro. Gli amici erano sempre stati una presenza fondamentale
nella sua vita e ora non erano con lei. Le mancavano terribilmente. Era quasi
come sentirsi fuori dal mondo, completamente ignara di ciò che stava succedendo
alle persone che amava. E il fatto di trovarsi in una città straniera, nuova, in
un certo senso esotica e quasi ostile, non faceva che aumentare il senso di
solitudine. Non conosceva nessuno, non aveva niente di vagamente familiare e
conosciuto cui aggrapparsi. Costruirsi una nuova vita partendo solo dalla
consapevolezza della propria esistenza nell’immenso mondo non era per niente
un’impresa facile. Avrebbe dovuto cominciare da zero, senza l’aiuto di nessuno.
Non sapeva se poteva farcela, se era in grado di creare qualcosa dal nulla, di
ambientarsi in una città e in uno stato completamente estranei e diversi. La
cultura era diversa, la mentalità e l’ordinamento giuridico ed economico erano
diversi. C’erano così tante cose che ignorava. Si sentiva piccola e
insignificante in un mondo altero e impassibile. E mentre il tempo scorreva lei
si trovava ancora ferma al punto di partenza, incapace di muovere anche un solo
passo utile, incapace di fare qualsiasi cosa avrebbe potuto migliorare la sua
condizione. Semplicemente se ne stava lì, inerte, ad aspettare che lo stesso
mondo la degnasse di una piccola occhiata o di un’insignificante
attenzione.
Appena cominciò
a lavorare la sua vita assunse un ritmo costante e monotono, in cui affogava i
ricordi, la tristezza e la nostalgia, la solitudine e la sua stessa natura di
angelo.
Un giorno però un ragazzo circa dell’età di Melanie decise di rompere la
sua preziosa monotonia. Non che l’avesse stabilito consapevolmente, ma in ogni
caso lo fece. Aveva giusto finito di pagare ciò che aveva comprato al
supermercato quando lesse il nome sul cartellino di Melanie e le chiese in
inglese:
«Vieni
dall’Inghilterra?».
«No, dall’Italia», rispose
Melanie, sempre in inglese e conscia del fatto che il suo nome non era molto
comune nel suo paese.
«Wow!», esclamò
il ragazzo con un guizzo negli occhi verde scuro, «Qui a Tokyo non si vedono
molte italiane!».
Era un ragazzo
alto, i tratti del volto tipicamente giapponesi, occhi a mandorla, una
carnagione molto chiara e capelli scurissimi e lucidi.
«Ho sempre
desiderato imparare l’italiano», continuò, «non è che ti andrebbe di darmi
qualche lezione? Sempre se non è un disturbo».
Melanie non
seppe cosa rispondere. Rimase un attimo a guardarlo, senza parole. Da quando un
ragazzo che nemmeno conosci ti chiede di dargli lezioni di italiano? Doveva
essere un tipo particolare.
«Ho intenzione
di pagarti», aggiunse come per cercare di convincerla. In realtà non era quello
che dava da pensare a Melanie. Era che quel ragazzo con neri capelli lucenti, il
viso gentile e denti bianchissimi l’attirava.
«Be’… se
proprio insisti… sarò felice di darti delle lezioni», acconsentì.
«Io sono Kai,
comunque», si presentò il ragazzo prima di spostarsi: aveva formato una fila
piuttosto lunga dietro di lui.
Kai aspettò
finché Melanie non ebbe un momento libero in modo che potessero scambiarsi i
numeri di telefono e accordarsi sulle lezioni.
Quella sera
Melanie, seduta davanti al televisore, si sentì un po’ meno sola.
Dal giorno
seguente la vita di Melanie cominciò ad assumere una monotonia un poco diversa
dalla precedente. Ogni giorno era uguale all’altro, ma passava nell’attesa delle
lezioni che avrebbe dato a Kai. Lui era un ragazzo brillante e intelligente e
Melanie adorava parlare con lui. E parlavano tanto. Alla fine di ogni lezione
rimanevano insieme ancora per parecchio tempo e ben presto scoprirono di avere
molto in comune. Amavano entrambi il mondo del fantastico e trascorrevano ore a
fare congetture sul prossimo episodio del loro anime preferito. Melanie era
affascinata da Kai anche perché lui era molto sicuro di sé, sapeva esattamente
cosa voleva dalla vita e non perdeva mai la speranza di riuscire ad avverare i
suoi sogni. Che fosse la carriera che aveva sempre sognato oppure ciò che
avrebbe mangiato il giorno seguente, poco importava. Cercava sempre di fare
diventare realtà ciò che desiderava.
Un paio di
volte Kai aveva cercato di sapere qualcosa di più sul passato di Melanie, in
particolare, com’era prevedibile, era interessato ai motivi che l’avevano spinta
a emigrare in Giappone.
«È così
insolito che una ragazza italiana decida di trasferirsi a Tokyo così, di punto
in bianco», diceva. «Devi avere avuto dei motivi più che validi, no?».
Puntualmente Melanie schivava l’argomento dando qualche risposta vaga e breve e
poi cambiava velocemente discorso. Dopo un po’ Kai aveva capito che Melanie non
voleva parlare di quel particolare momento del suo passato e non le aveva più
fatto quelle domande. Melanie le era grata per questo. Non sopportava di
soffermarsi sui tristi ricordi se non quando era da sola e non voleva
assolutamente sfogarsi con Kai e costringerlo ad ascoltare tutti i suoi infelici
piagnistei. Non lo riteneva giusto.
Un giorno Kai
le propose di andare a una festa: «Più che altro è una manifestazione. È una
celebrazione tipicamente giapponese. Ci si riunisce nel centro di Tokyo dove ci
saranno bancarelle con prodotti tipici e la sera tutto sarà illuminato da torce.
E ci saranno anche i fuochi d’artificio!». Era palesemente su di
giri.
«Va bene, ci
sto», aveva acconsentito Melanie alla fine, dopo l’insistenza pressante di
Kai.
«E… se vuoi ti
posso accompagnare a prendere un vestito, un kimono, l’abito tipico giapponese.
Lo indosseranno tutte le donne», aveva proposto con un’espressione sdolcinata,
fatta apposta per riuscire a convincere Melanie, che dopo vane e deboli
resistenze aveva assentito. In realtà la incuriosiva l’idea di vestirsi con
abiti tradizionalmente giapponesi e per una volta non venire guardata come “la
straniera” o “la diversa”. Semplicemente confondersi nella folla e assaporare
qualche ora in modo spensierato, come non faceva da molto tempo. Forse
troppo.
Qualche giorno
dopo Melanie si ritrovò davanti alle porte di un negozio di kimono. Kai era al
suo fianco e sorrideva sornione al pensiero di ciò che le avrebbe visto indosso
qualche minuto dopo. Melanie non sapeva davvero da che parte cominciare. C’erano
kimoni di molti tipi e fogge diversi. Negli anime di solito apparivano tutti
uguali, a parte le fantasie colorate. Invece ne esistevano di lunghi e corti,
alcuni più larghi e alcuni più stretti, con nastri e fasce che si allacciavano
in mille modi e posti diversi. Alla fine Melanie decise di scegliere basandosi
sui colori e poi avrebbe chiesto un parere a Kai. Scelse un kimono color azzurro
cielo, con un unico, grande fiore rosso ricamato sul davanti. A lei appariva
molto bello. Si girò e cominciò a cercare Kai con lo sguardo, per chiedergli
un’opinione. Ma non furono gli occhi verde scuro del ragazzo che incontrò. Fu un
paio di occhi grigio-azzurri, infiammati e stanchi. Gli occhi di Marina. Cosa ci
faceva lì? Come aveva fatto a trovarla? Era impossibile. Eppure lei era lì, la
sua figura alta e un po’ gracile, i suoi capelli corti e biondi, i lineamenti
che l’avevano sempre guardata con affetto ora sembravano volerle dare fuoco. Era
arrabbiata. Molto. Ed era estremamente difficile farla arrabbiare, Melanie lo
sapeva bene. E se c’era riuscita, voleva dire che senza accorgersene aveva
ferito Marina nel profondo, nei suoi ideali e nelle sue convinzioni.
Kai intanto
aveva visto che Melanie aveva in mano un kimono e si era avvicinato per dare
un’occhiata.
«Questo è molto
bello. Perché non lo provi?», commentò, incurante del fatto che Melanie in quel
momento aveva tutt’altro per la testa.
«Ehi, ma che ti
prende?», chiese quando si accorse che Melanie stava guardando fisso negli occhi
Marina. Si fermò a guardare la nuova arrivata con espressione interrogativa e
poi sibilò: «La conosci?». Melanie si limitò ad annuire. «Okay. Allora
chiamami», disse e se ne andò. Melanie apprezzò il suo tatto. Ripose il kimono
che aveva fra le mani e si avvicinò a Marina.
«Cosa ci fai
qui?», sbottò senza nemmeno salutarla. Non voleva essere così aggressiva, ma era
un po’ il suo modo di difendersi dallo sguardo furioso dell’amica.
«Ti sembra la
domanda più giusta, Mel? Io direi piuttosto: che cosa ci fai tu qui?», rispose Marina con altrettanto
sgarbo. Doveva essere proprio furibonda.
«Io vivo la mia
vita come meglio credo e tu dovresti lasciarmi in pace, Mary».
«Lasciarti in
pace? Lasciarti in pace?». Sembrava
che urlasse, solo che stava sussurrando. Vibrava di furia repressa. «Ti rendi
conto di cosa mi hai fatto passare? Hai una vaga idea di quanto mi sia
preoccupata per te? Hai mai pensato anche solo per un nanosecondo a cosa hai
fatto passare a tutte le persone che ti vogliono bene e che hai lasciato in
Italia quando sei partita senza nessuna spiegazione?».
Forse aveva
ragione. Per quanto tempo ancora pensava di poter continuare a nascondersi in
Giappone? Probabilmente più di così.
«Se vuoi
possiamo andare a casa mia a parlare», disse Melanie in un sussurro. Magari
lungo il tragitto Marina si sarebbe calmata.
Arrivarono fin
troppo presto, o almeno così parve a Melanie. Non era pronta ad affrontare le
accuse di Marina, soprattutto perché sentiva che in parte l’amica aveva ragione
e che non avrebbe avuto argomenti a favore del suo viaggio. Appena entrate in
casa cominciarono a discutere. Non si sedettero nemmeno.
«Che cosa ti è
saltato in mente?». Questa volta Marina urlava davvero. «Ci ho messo un mese, un mese, per riuscire a trovarti. Giorni
e giorni passati a spremermi i cervello per riuscire a captare un minimo segnale
e avere il più piccolo indizio sulla tua posizione. Sono arrivata anche a
pensare che fossi morta, visto che non sentivo il contatto con te. Non pensavo
che avessi potuto davvero andare così lontano. Sei semplicemente incredibile.
Non avrei mai creduto che fossi capace di tanta vigliaccheria…».
«Vigliaccheria?», Melanie la interruppe. La sua intenzione era di fare
sfogare Marina, ma non voleva che tutti i suoi sforzi per integrarsi in uno
stato diverso dal suo fossero definiti “vigliaccheria”. «Tu non hai la minima
idea di ciò che ho passato, non hai la minima idea della solitudine e degli
sforzi che ho fatto per ritagliarmi un piccolo spazio in questa maledetta città.
Un piccolo angolo in cui poter stare in pace, senza più obblighi da affrontare,
senza più demoni da uccidere, senza più combattimenti per un risultato incerto.
Ero stanca! Non ce la facevo più!».
«Prova per un
secondo a pensare a come sarebbe stato difficile se invece che nasconderti
all’altro capo del mondo fossi rimasta, affrontando la situazione che avevi
davanti. Metti a confronto ciò che avresti sopportato e quello che invece hai
sofferto qui e chiediti quale delle due opzioni sarebbe stata più ardua». Rimase
qualche attimo in silenzio per dare a Melanie il tempo di riflettere. Questa non
rispose, conscia del fatto che probabilmente rimanere in Italia e fare i conti
con la morte di Luca e tutto il dolore che comportava sarebbe stato come tentare
di spostare una montagna, per lei.
«Lo sapevo. Hai
scelto di andartene solo perché sapevi che il dolore che avresti affrontato qui
sarebbe stato più facile». L’affermazione colpì Melanie come una pugnalata. Era
vero? Aveva davvero scelto di soffrire per il minore dei due mali?
Intanto Marina
si era un po’ calmata e aveva ricominciato a parlare con un tono che non
sfiorava il limite con l’ultrasuono.
«Io non sono
venuta qui per riportarti a casa. Questa è e resterà una tua scelta personale.
Sono semplicemente venuta a dirti ciò che penso, perché credo sia giusto che tu
lo sappia.
«Scappare,
nascondersi… non sono soluzioni. Sono solo un rimandare il problema. Prima o poi
dovrai affrontare ciò che è successo e non farà meno male di prima. La vita è
fatta di tristezza e felicità, ma non puoi scappare se sembra che tutto stia
andando male. La felicità uno se la crea e bisogna semplicemente alzarsi la
mattina e pensare: oggi sarà un giorno migliore! e fare di tutto per renderlo
tale, spendendo tutte le proprie energie. Soffrire e nascondersi sono facili
scelte: è sufficiente crogiolarsi nel proprio dolore, rintanandosi nel proprio
piccolo mondo privato, senza dover fare i conti tutti i giorni con la dura lotta
per il mantenimento della propria felicità e della propria integrità.
«E non puoi
nemmeno aspettare che tutto finisca, che la tristezza ti lasci stare e se ne
vada a importunare qualcun altro. Non succederà finché non ti opponi, finché non
decidi che è ora di finirla e di ricominciare alla luce del nuovo giorno che ti
attende. L’unico modo che finisca definitivamente e senza fatica è morire, ma mi
rifiuto di pensare che tu possa ucciderti per qualcosa di così inutile, quando
tutti i giorni della tua vita hai lottato contro demoni schifosi per la tua
stessa sopravvivenza. E se aspetti docilmente che la morte ti colga per porre
fine alla tua vita che reputi inutile è come se fossi già morta, è come se
avessi già smesso di vivere e lottare».
Melanie era
colpita. Folgorata. Ogni parola di Marina aveva scavato un piccolo solco nel suo
cuore dal quale era scaturita prepotente la voglia di non arrendersi e reagire,
insieme alla rabbia e alla frustrazione di non essersene accorta prima. Era così
frastornata che nemmeno si era accorta che l’amica le si era avvicinata e
l’aveva abbracciata.
«Ti voglio
tanto bene stupida. Ricordatelo sempre. E te ne vorrò anche se deciderai di
restare qua a marcire per il resto dei tuoi giorni». E Melanie seppe che era
vero e che non sarebbe stata mai più sola, nemmeno se avesse dovuto affrontare
la più grande disgrazia del mondo.
***
Melanie si
trovava faccia a faccia con l’ennesimo demone. L’ennesimo corpo deforme,
l’ennesima faccia dai lineamenti deformati, l’ennesimo paio d’occhi malvagi e
iniettati di sangue. La pelle era squamosa e rossastra, dall’aspetto malsano.
Sentiva di odiarlo per quello che lui e i suoi simili le avevano fatto, per la
vita segnata che le avevano donato come semplice conseguenza della loro
esistenza. Lo colpì forte con un pugno allo stomaco e mentre l’avversario si
chinava in preda al dolore gli trafisse la gola con un fendente preciso e sicuro
del pugnale. Un gioco da ragazzi. Si sentì libera e sicura di sé, come solo chi
asseconda la sua vera natura può fare. Girò su se stessa e si preparò ad
affrontare un altro demone. Forse davvero il destino non esisteva, come diceva
Marina. Forse era proprio lei la padrona della sua vita e della sua missione. In
fondo lei aveva deciso di assecondare nuovamente la propria vocazione, nessuno
l’aveva obbligata. Era rimasta in Giappone, perché voleva schiarirsi ancora un
po’ le idee, ma sapeva che alla fine sarebbe tornata in Italia. E nel frattempo
aveva ricominciato a uccidere i demoni e a proteggere le Porte, da sola. Un
giorno si sarebbe ricongiunta con Marina e allora sarebbero state invincibili.
La coppia di angeli che fanno tremare di paura i demoni.
Colpì il demone
che le stava di fronte alla testa e continuò nella sua danza mortale, elegante e
bellissima. I demoni non avevano scampo. Avrebbe protetto anche questa Porta,
non più sotto la pressione del richiamo irresistibile della sua natura, ma
perché lo desiderava. Un giorno avrebbe capito perché combatteva. Lo sentiva. E
fino a quel giorno avrebbe continuato a lottare, fiera e spavalda,
inarrestabile. Una furia nera nella notte di Tokyo. Non era che un passo verso
qualcosa di migliore. Ma era pur sempre qualcosa.
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