Qualche piccola annotazione agli amanti ed estremi conoscitori dei
vampiri...leggete a vostro rischio e pericolo perché con
quasi assoluta certezza ho scritto un mare di ca..te, ma siccome poi
pare che ultimamente ognuno possa inventarsi un po' quello che
preferisce ho deciso di dare il mio indispensabile contributo alla
causa xD
Sonata per
violino
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Lubecca,
24 Dicembre 1817
Come
può, colui che non è umano, sentire un tale gelo
in un cuore che non batte?
La vigilia di
Natale era l'unica notte in cui riuscivo ancora a riscoprire il mio
corpo scosso da brividi, capace di sensazioni che ormai il tempo mi
aveva tolto per sempre.
Stavo fermo a
guardare la gente infagottata che in processione si dirigeva verso la
chiesa.
Certe volte,
negli anni, mi ero riscoperto a desiderare di essere una macchia in
mezzo a loro, anonimo nei miei vestiti ordinati, pronto come loro a
pregare Dio nascente, desideroso di credere davvero in lui.
In quell'unica
notte.
“Gregor...”.
Mi voltai, e
senza stupore vidi gli occhi blu di Manuel saettare nel buio e posarsi
sulla folla. Avevo percepito la sua presenza già da alcuni
minuti, il vento era debole, non sferzava la pelle come
spesso accadeva in quella stagione, ma era comunque abbastanza per
portarmi il suo odore familiare.
Lo guardai per
un attimo, poi di nuovo mi concentrai sul fiume di persone che
continuavano ad arrivare. Sentii la spalla di Manuel sfiorare la mia, e
senza pensare mi avvicinai di più, cercando un contatto, un
calore che non provenisse solo dagli abiti che indossavamo. Il suo
braccio mi cinse le spalle e le sue labbra si posarono in un freddo
sussurro sul mio collo.
“Non
è ancora arrivato il momento di lasciare andare il
passato?”
Chiusi gli
occhi per un momento e mi concentrai sulle sensazioni del mio corpo,
quelle che rimanevano dell'umanità che avevo perduto e che
pure erano così diverse, a tratti amplificate.
Quando li
riaprii Manuel mi guardava. “E' trascorso tanto tempo,
Gregor, mi avevi promesso che avresti smesso”,
sussurrò.
Mi stupii nel
vedere una scintilla di sofferenza negli occhi affamati di un vampiro.
Ma perché, poi? Perché, se quello che provavo io
poteva essere considerato tale, per Manuel non avrebbe dovuto essere la
stessa cosa?
“Lo
so”, dissi. “Ma è difficile”.
“E'
difficile perché vuoi che lo sia!”
“Voglio
che lo sia?!”, scattai. Avevamo avuto quella conversazione
decine di volte nell'ultimo anno e mezzo, il migliore da quando ero
stato cambiato.
“Non
sono stato io a voler diventare... questo”, dissi,
indicandomi con disprezzo.
Con mano
leggera Manuel mi accarezzò il volto, scostandomi i capelli
e riflettendosi nel verde trasparente dei miei occhi. Potevo vedermi
nei suoi, sembrava quasi una magia. “Non ho voluto essere
così nemmeno io. Ma non possiamo farci niente.”
“Pensi
che potrei entrare in chiesa, stasera?”, domandai. L'attimo
di furore era svanito, e per quanto fosse ancora incontenibile, in
certi momenti, non era giusto sfogarlo sull'unica persona che sentivo
vicina, l'unica per la quale provassi qualcosa di così
simile a quello che, una volta, avrei definito amore.
Allora anche
lui guardò la folla. Almeno la metà degli
avventori erano ormai entrati, spariti dietro i pesanti portoni di
legno, protetti dal male dalle mura del tempio di Cristo.
Io ero il
male, Manuel lo era, o almeno parte di esso, e forse non la parte
peggiore.
Me lo ero
domandato tante volte, in tutti questi anni, come fosse possibile che a
creature come noi, votate alla notte, all'omicidio di innocenti, fosse
permesso l'ingresso in un luogo sacro come una chiesa, come l'acqua
benedetta ci provocasse solo un lieve pizzicore, a semplice
dimostrazione del fatto che eravamo qualcosa di diverso dal normale.
Ero un mostro,
destinato a rimanere eternamente tale, eppure con ancora
così tanto di umano da farmi sentire due volte dannato.
Come sarebbe
stato più facile perdere, con la capacità di
morire da uomo, anche l'anima dell'uomo.
Maledivo Dio e
il demonio per avermi reso immortale, per avermi tolto il calore del
sangue nelle vene e per avermi lasciato tutto il resto, bagaglio
intrasportabile di coscienza, dolore, amore e rimpianto.
La solitudine
era stata all'inizio la cosa peggiore, nuovi istinti che il cervello mi
comandava di accantonare ma ai quali non avevo potuto fare altro che
soccombere.
Coi sensi
sempre all'erta, capaci di captare il minimo sussurro, fruscio di
foglia, ogni più lieve odore, era come impazzire ad ogni
respiro, essere sotto l'effetto di un potente allucinogeno senza
speranza di vederlo svanire.
Solo il sapore
del sangue poteva placare il vortice nella mia testa, era una
consapevolezza innata in me, faceva già parte dalla mia
nuova natura.
Il primo
rintocco della campana mi riportò al presente.
“Sono
tutti dentro”, disse Manuel.
“Entra
con me anche tu, ti prego”.
Sapevo che non
l'avrebbe fatto, che per quanto il tempo avesse rimarginato le sue, di
ferite, più di quanto avesse fatto con me, tutto
ciò che mi aveva spiegato, tutto quello che si era convinto
a credere, non avrebbe cancellato la rabbia che provava verso colui che
aveva deciso, probabilmente con la sua assenza, di renderci quello che
eravamo.
“Ti
aspetto nel parco”, rispose, e come se non fosse mai stato
lì sparì nel buio.
All'ingresso
della chiesa provai un immediato fastidio nel respirare l'aria satura
dell'odore di incenso, ma la tremolante luce delle candele non era
abbastanza per ferirmi gli occhi.
Tutta
quell'umanità raccolta mi fece provare un brivido di
terrore. Non per me, certo, ma sicuramente per quello che avrei potuto
fare loro.
Non era
rimasto un posto libero, molte persone erano in piedi ad ascoltare la
predica, intenti a capire il perché, in fondo, erano tutti
quanti peccatori, tutti quanti colpevoli di aver rubato, mentito,
fornicato, tradito.
Tutti quanti
meritevoli del perdono divino, meritevoli di essere salvati proprio in
quella notte, salvati dal loro padre.
Padre
nostro che sei nei Cieli,
sia
santificato il Tuo Nome,
venga
il tuo Regno, sia fatta la tua volontà,
come
in cielo così in terra.
La campana
suonò i primi rintocchi della mezzanotte. Fu allora che la
vidi.
Era appoggiata
ad una colonna della navata di destra, pochi metri ci separavano e non
eravamo mai stati così lontani.
Greta, mia
sorella.
Com'era
cambiata dall'ultima volta in cui l'avevo abbracciata senza paura, col
cuore leggero e l'animo integro di colui che sa di amare nel modo
giusto.
Con la testa
che mi scoppiava, senza capire cosa mi fosse accaduto, era da lei che
ero corso la notte in cui la mia vita si era sgretolata.
“Gregor,
dove sei stato! Ti ho aspettato per ore!” aveva esclamato,
prima di rendersi conto delle mie condizioni.
Barcollando
ero entrato in casa, incapace di tenere gli occhi aperti, e senza forze
mi ero buttato sul divano.
Lei mi aveva
accarezzato i segni sul collo e stretto la mano, mi aveva asciugato la
fronte imperlata di sudore, aveva sopportato le mie grida di dolore
mentre il mio corpo si rimodellava fin dentro il midollo osseo,
preparandosi a diventare ciò che ero ora.
Eravamo
rimasti chiusi in casa per giorni, dopo quella notte, ma la mia fame e
voglia di sangue non avevano fatto altro che crescere, diventando
l'unico centro, l'unico fuoco di tutto il mio essere.
Io non sapevo
spiegarle, e lei non capiva. Non avrebbe potuto capire, ed era la prima
volta che accadeva una cosa del genere da quando, orfani, eravamo
rimasti l'unico supporto e punto di riferimento l'uno per l'altra.
Aveva tentato,
però, con tutte le sue forze.
Finché
una sera, ebbro dell'odore del suo, di sangue, ero scappato il
più lontano possibile e avevo ceduto, cibandomi al collo di
una prostituta che, ignara, aveva tentato di adescarmi.
Da allora
erano trascorsi undici anni durante i quali non avevo mai smesso di
guardarla da lontano, il meno possibile per non impazzire dal dolore ma
abbastanza per essere sicuro che stesse bene.
Padre
nostro...sia fatta la tua volontà, diceva la preghiera.
Senza di me
lei aveva sofferto, aveva rischiato di non farcela, sola al mondo come
ero rimasto solo io. Due metà della stessa faccia della
medaglia i cui bordi, ormai, non potevano più combaciare.
Quella era
stata la Sua volontà?
“Perchè
Dio mio, perchè!”, avevo gridato.
Perché
se il creatore è uno e uno solo, allora anche quelli come me
provenivano dalla sua mano, anche quelli come me facevano parte di
quella schiera di creature che lui amava...che avrebbe dovuto amare e
alle quali invece aveva riservato un destino di oscurità
eterna.
Greta era
rimasta figlia della luce, io ero diventato figlio delle tenebre.
Appoggiato
accanto a lei vidi il suo inseparabile violino. Ero felice che almeno
una delle sue vecchie abitudini non l'avesse abbandonata, che la musica
continuasse ad accompagnarla dovunque andasse.
Era brava,
aveva sempre avuto un grande talento, sapevo che era riuscita ad
entrare a far parte di un'orchestra.
La voce del
pastore riecheggiò profonda e mi distolse da lei per un
attimo.
Rimetti
a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
non
ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male.
Amen.
I rintocchi
finali della campana dettero il benvenuto al giorno di Natale, ma il
dolore sordo nel sentire queste ultime parole di speranza non si era
placato.
Ero certo che
quel bambino nato in una mangiatoia, che quell'uomo morto su una croce,
non avrebbe mai potuto rimettere i miei debiti, cancellare il male che
il mio stesso essere mi aveva costretto a commettere.
Davvero la
redenzione era di tutti? Davvero, se mi fossi pentito abbastanza, avrei
potuto essere perdonato?
Ci sarebbe
sempre stata un'altra vittima, non ci sarebbe mai stata scelta per me,
ne speranza.
Uscii dalla
chiesa prima di tutti gli altri e aspettai di vedere Greta per un
ultima volta.
La processione
di gente defluì lenta, più luminosa,
più gioiosa di quando era entrata, anche questo uno dei
miracoli che non mi riuscivo più a spiegare, che
continuavano a perpetrarsi senza motivo apparente.
Da qualche
minuto nessuno usciva più ma di lei non c'era traccia.
Sbucai dall'ombra nella quale mi ero rifugiato per controllare che
fosse tutto a posto quando finalmente la vidi, e i suoi occhi erano
fissi su di me.
Provai un
panico improvviso, un desiderio di fuggire quasi irresistibile.
“Gregor!”,
gridò lei.
Finché
non sentii la sua voce.
Allora mi
voltai, e fu come se tutta la mia vita tornasse a fiotti dentro di me e
mi afferrasse la gola con l'intento di soffocarmi.
“Greta”,
mormorai, testando la consistenza del suo nome sulla lingua,
pronunciato a voce alta dopo tanto tempo.
Fu lei a
muovere i primi passi nella mia direzione, che ben presto si
trasformarono in una corsa che la portò tra le mie braccia
in pochi secondi.
“Gregor...Gregor,
sei...”
“Vivo?”,
terminai io.
Lei mi
guardò, con quei suoi occhi profondi e saggi, di
una saggezza che non era mai stata naturale in una ragazza
così giovane, ma che ora si adattava meglio alla donna che
era diventata.
“Ho
sempre saputo che eri...”.
Si
staccò da me riluttante, accarezzandomi il viso. Non potei
non notare il brivido che la percorse nel toccarmi la pelle.
“Perché
non sei venuto da me, Gregor? Per tutti questi anni, ero certa che
fossi vivo, e che non mi avresti mai abbandonata a meno che
non...”
“Non
sono vivo, Greta. Da tanto tempo, ormai”, dissi.
“So
cosa sei Gregor, non l'avevo capito subito, quando sei stato male, e
anche dopo... era difficile, incredibile, ma sapevo...ora lo
so”.
Mi guardai
intorno con circospezione. Anche in presenza di mia sorella non mi
sentivo a mio agio lì in mezzo alla strada, così
esposto agli sguardi altrui.
“Andiamo
da un'altra parte, ti prego. Non parliamo qui”, dissi,
muovendomi in direzione del parco. Per qualche secondo lei non mi
seguì, ma bastò poco e sentii i suoi passi dietro
di me.
Aveva avuto
paura, forse un campanello di allarme si era acceso nella sua testa, ma
non era bastato a farla comportare saggiamente.
Avrebbe dovuto
voltarsi e scappare, rifugiarsi in chiesa e credere che lì
non sarei potuto entrare. Una parte di me voleva intimarle di andarsene
e dimenticare, ma non lo feci.
Potevo essere
il suo assassino e lasciai ugualmente che mi seguisse.
Camminammo a
lungo senza dire una parola, fianco a fianco, ma il calore del suo
corpo, a differenza di quello di Manuel, era quasi visibile. Gli sbuffi
del suo respiro a contatto con l'aria gelata si perdevano, carichi di
vita, nella notte.
Solo una volta
giunti al parco mi concessi di fermarmi e guardarla davvero, come non
avevo potuto fare da un tempo infinito.
“Come
sono diversi i tuoi occhi”, le dissi.
Lei si
avvicinò sicura, senza far trasparire il minimo timore.
Non aveva
forse paura di me? Credeva di trovarsi ancora a parlare con suo
fratello?
“Anche
i tuoi sono diversi”, disse, e di nuovo la sua mano fu sulla
mia guancia, fredda per un corpo umano, una fornace per un corpo di
vampiro. “Non ti ho mai visto così bello,
Gregor”.
“E'
uno dei nostri trucchi”, dissi, ma non riuscii a nascondere
una smorfia di disappunto. “Attiriamo gli altri con la nostra
bellezza, ma una volta caduta la maschera...”
Ecco il
mostro, quello che si celava dietro l'innocuo, dietro il rassicurante.
“Ti
prego, non parlare così”, mormorò lei.
I suoi occhi erano lucidi, pieni di lacrime non cadute, ma tutto
ciò che vi vedevo riflessa era dolcezza.
“Tu
non sai quanto... sono così felice di vederti, di sapere che
sei qui. Qualunque cosa tu sia adesso...Gregor, per me sei
vivo!”, disse con voce rotta.
“Non
sai quante volte avrei voluto essere morto davvero in tutti questi
anni”, mormorai.
Sentii una
presenza alle mie spalle, nascosta nel buio, ma non mi voltai. Sapevo
perfettamente chi fosse, sentivo le sue emozioni vibrare nell'aria, ma
ero altrettanto certo che non avrebbe fatto nulla.
“E'
stato così difficile andare avanti dopo che sei scomparso
nel nulla. Eri tutto quello che avevo, Gregor. Tutta la mia
famiglia”.
“E
tu lo eri per me, ma adesso è tutto diverso. Non posso
più esserlo”.
Vedevo chiara
nei suoi occhi la riluttanza ad accettare quello che le stavo dicendo.
Prese la mia mano tra le sue, rabbrividì, ma non la
lasciò andare.
“C'è
un modo, però”, disse.
Non capii
immediatamente cosa volesse dire, le rivolsi uno sguardo interrogativo
ma lei continuò a fissarmi sicura, senza dire una parola.
Fu allora che
Manuel uscì dall'ombra. “Vuole che tu la
trasformi”, disse.
Greta
spostò rapida lo sguardo su di lui e mi si
avvicinò un po' di più, come se io potessi ancora
proteggerla da qualcosa, come se io non fossi in realtà lo
stesso pericolo dal quale tentava di ritrarsi.
“Manuel”,
mormorai.
“E'
quello che ti sta chiedendo, Gregor. Vuole che tu la
trasformi”, ripeté lui, impassibile agli occhi di
chiunque non lo conoscesse bene quanto lo conoscevo io.
Mi voltai
verso di lei e la fissai incredulo.
“Quando
ho collegato tutto quello che era successo, i segni che avevi sul
collo, la febbre, la sete di qualcosa che non potevi avere...quando ho
capito cosa stavi diventando, era troppo tardi, ormai. Eri
già sparito nel nulla”, disse lei.
“L'ho
fatto per te, non volevo farti del male!”, esclamai.
“Non
c'era modo di non farmi del male, Gregor! Restando o andandotene, non
c'è stato giorno in cui non abbia desiderato ritrovarti,
chiunque...qualunque cosa tu fossi. Non c'è stato giorno che
non abbia desiderato che mi avessi portata con te”.
“E
quindi vuoi che lo faccia adesso? Dopo undici anni?”
“Io
non... saremmo di nuovo una famiglia”, mormorò.
Non riuscivo a
credere alle mie orecchie. Dopo tutto quel tempo, dopo tutta la
sofferenza e l'agonia vissuta nella consapevolezza di aver perso ogni
cosa, l'unica persona che avevo davvero voluto proteggere mi stava
chiedendo di trasformarla in qualcosa che lei stessa, in circostanze
normali, avrebbe odiato. Un mostro.
Cercai un
aiuto nello sguardo di Manuel, desiderai per un breve istante di
trovarvi approvazione, un segno che mi convincesse che non sarebbe
stato poi così terribile renderla come noi.
Lui mi si
avvicinò, prese la mia testa tra le sue mani e
appoggiò la sua fronte alla mia. “Ricordi com'eri
prima che ci incontrassimo? Com'era insopportabile vivere con te
stesso?”
Ricordavo
perfettamente, non avrei mai potuto dimenticare quel vuoto incolmabile,
quell'abbandono dell'anima che sentivo come una voragine nel petto.
“Certo”, sussurrai.
“Allora
sai quello che devi fare”, disse. “Per lei. Per
te”.
Respirai
profondamente e lui mi lasciò andare.
Greta era
ancora ferma lì davanti a me, in attesa di una risposta ma
allo stesso tempo incuriosita, probabilmente, dal vedere
l'atteggiamento che avevo nei confronti di un altro uomo.
Ma non aveva
alcun senso spiegarle che in tutti quegli anni mi ero reso conto che,
con davanti un'eternità come prospettiva, il sesso della
persona che avrei scelto come compagna di vita non aveva poi tutta
questa importanza.
“No”,
dissi invece. “Non posso...non voglio farlo”.
“Perché!”,
esclamò lei.
“Perché
tu non devi diventare così. Devi vivere, amare, soffrire,
essere felice e morire come una donna. Devi avere un paradiso nel quale
andare, una volta giunta alla fine”.
“Tu
non l'avrai?”, mi domandò.
“Se
un giorno morirò non credo che ci sarà un
paradiso per me”, dissi.
Lei scosse il
capo, ma non disse nulla. Non cercò di convincermi, non
sostenne che anche per me ci sarebbe stata speranza, e di questo le fui
infinitamente grato.
“Puoi
fare una cosa, però. Se vuoi”, continuai.
“Che
cosa?”
“Suona
il violino per me un'ultima volta”.
Lei si
guardò attorno perplessa. “L'umidità
non fa bene alle corde, rovinerà il suono”, disse.
Era scesa una
nebbia gelida, ma la luce della luna si rifletteva sulle minuscole
particelle d'acqua tanto da sembrare che provenisse direttamente da
esse.
Era una notte
speciale, quella. “Non importa, voglio il mio
regalo”, dissi.
Incerta, si
chinò e aprì la custodia dello strumento. Lo
accarezzo e lo prese in mano con cura, coccolandolo tra le braccia
quasi come fosse un bambino.
“E'
un tuo regalo, ti ricordi?”, disse, con lo sguardo perso in
memorie che ora sembravano così lontane.
“Certo,
è stato il tuo regalo di Natale quasi diciassette anni fa.
Temevo che non sarei riuscito a comprarlo”, risposi.
“E'
stato il regalo più bello che abbia mai ricevuto in tutta la
vita”, disse lei.
Le sorrisi
perché sapevo che era vero. “Suonalo per me, ti
prego. Non ci sarà mai più un'occasione
migliore”.
Greta
impugnò lo strumento, prese un respiro profondo e lo
posizionò tra mento e spalla. Ci fu un momento di silenzio
assoluto, poi le note riempirono l'aria all'improvviso. La
rapidità delle sue dita sulle corde era ipnotica e la
melodia fluiva senza intoppi, con ritmo rapido e sicuro.
Non ricordavo
che suonasse così bene.
Manuel mi
cinse le spalle da dietro, ricongiungendo le mani poco sotto il mio
sterno. Era leggermente più alto di me, quindi appoggiai la
nuca al suo petto, chiusi gli occhi e mi abbandonai alla musica.
Fu come se le
note assumessero forma e colore dietro le mie palpebre, come se Greta,
con le sole sue dita e il suo archetto riuscisse a creare una melodia
fatta della stessa sostanza dei miei ricordi e delle mie antiche
speranze.
Cose che avevo
perduto, che non avrei ritrovato, certo non così come le
avevo lasciate. Ma avevo Manuel, che pur essendo quello che era mi
amava con lo stesso cuore dell'uomo che una volta era stato. E non
avevo forse ritrovato anche Greta?
Aprii gli
occhi e mi sembrò eterea nella sua bellezza. La nebbia
sfumava i contorni del suo corpo ma la faceva allo stesso tempo
brillare come le stesse gocce d'acqua di cui era composta.
Aveva il volto
segnato dalle lacrime ma continuò a suonare con tutta se
stessa, come se da quella musica dipendesse tutto il resto della sua
esistenza.
Come era
iniziato, con la stessa rapidità tutto cessò e di
nuovo piombò il silenzio.
Rimanemmo
tutti immobili per alcuni secondi, incapaci forse di lasciare andare
quel momento che, per l'ultima volta, ci aveva legati con incredibile
intensità.
Fu Greta a
muoversi per prima, abbassò lo strumento e venne verso di
noi. Manuel mi lasciò andare e fece un passo indietro.
“Haydn.
Concerto per violino in do maggiore”, disse.
“E'
stato stupendo. Grazie”, le risposi.
Era come se
entrambi non volessimo dire nulla per paura di dire quello che
dovevamo.
“Credo
che questo sia un addio”, sospirai alla fine.
Lei si
chinò, rimise a posto lo strumento nella custodia e si
rialzò. La sua mano tremava quando prese la mia.
“Almeno abbiamo avuto la possibilità di dircelo,
questo addio. E' più di quanto avrei mai sperato di poter
avere”.
“Anche
io”, dissi.
“Ma
perché deve essere proprio un addio? Potremmo
rivederci...come stasera, per esempio”.
“Non
credo che sia una buona idea”, intervenne Manuel.
Greta
arretrò di un passo, forse intimorita dalla sua presenza.
Era la prima volta che lui le si rivolgeva direttamente.
“Per
quale motivo?”, rispose lei, facendosi coraggio.
Lui mi
guardò, mi indirizzò un sorriso triste e le
rispose. “Diciamo che la nostra comunità non
è esattamente amichevole”.
“Ce
ne sono molti altri come voi?”, chiese Greta, spalancando gli
occhi.
“Abbastanza”,
intervenni io. “Siamo per lo più solitari o
riuniti in piccoli gruppi, ma la maggioranza di noi ha abbracciato
pienamente la propria natura. Non si sentono frenati dall'attaccare gli
uomini, danno libero sfogo al loro istinto”.
“Se
scoprissero che sei la sorella di Gregor diventeresti come la lampada
accesa su una barca in mezzo al mare di notte”, disse Manuel.
“Non siamo tutti una grande famiglia, se capisci cosa voglio
dire”.
Lei
abbassò le spalle sconfitta. Chiaramente capiva, e capivo
anche io che lasciarla andare era la cosa migliore da fare, ma come
avevo imparato tante volte a mie spese, fare la cosa migliore avrebbe
significato anche fare quella più difficile.
Mi avvicinai a
lei. “Greta...”
Mi si
gettò tra le braccia e mi strinse forte, immergendo il viso
nel mio mantello e soffocando il pianto che non riusciva più
a trattenere.
“Non
sai quanto mi mancherai Gregor, ma andrò avanti per
te”, disse con voce rotta.
La allontanai
gentilmente prendendola per le spalle e le asciugai una lacrima nuova
che era in procinto di cadere. “Questo rende tutto molto
più facile”.
Anche lei si
asciugò gli occhi e finalmente mi regalò un
piccolo sorriso. “Dopotutto se ce la fai tu a vivere come un
vampiro io non posso essere da meno!”
Anche io le
sorrisi. Il peso che mi gravava nel petto c'era ancora, ero certo che
non sarebbe mai scomparso del tutto, ma per la prima volta nella mia
vita immortale avevo la sensazione di poter riuscire a sopportarlo.
“Vai
a casa adesso, è notte fonda. Io e Manuel ti seguiremo da
lontano senza farci vedere, aspetterò che tu sia
entrata”.
Avrei voluto
piangere come aveva fatto lei ma non ne ero più capace,
quindi feci un passo indietro, afferrai la mano di Manuel e mi
aggrappai all'unica cosa solida che mi era rimasta.
Greta sorrise
anche a lui, poi con lo sguardo mi accarezzò per l'ultima
volta. “Arrivederci Gregor”, disse, prese il suo
violino e si incamminò nella notte.
Come le
avevamo promesso la seguimmo fino a casa.
La vidi aprire
la porta e fermarsi per un momento sulla soglia, si voltò
è cercò nel buio, ma non avrebbe mai potuto
vederci. Salutò me e la notte con un ultimo gesto della mano
e se la richiuse alle spalle.
“Addio
Greta, sii felice”, mormorai, strinsi più forte la
mano di Manuel e gli sfiorai le labbra con un bacio, grato
più che mai di non essere solo.
**************
Non fu
però quella l'ultima volta che parlai con mia sorella.
Per anni e
anni, dopo quell'incontro, continuai a seguila. Si innamorò
di un uomo, anche lui un musicista, ed ebbe due figli. Un maschio,
Hannes, e una femmina, Judit, che purtroppo morì di malattia
quando aveva solo sette anni.
Ebbe una vita
piena, segnata da gioie e tragedie come la vita degli esseri umani.
Come la vita
che avrei avuto io, probabilmente, come quella che avevo voluto per
lei.
Andai a farle
visita la notte di Natale del suo settantottesimo anno di vita, quando
ormai la malattia l'aveva consumata al punto tale da non permetterle
nemmeno di alzarsi dal letto per andare alla messa.
Entrai in
camera sua senza troppe difficoltà, presi una sedia e mi
sedetti di fianco al letto a guardarla dormire. Faticava a respirare,
aveva l'aspetto logoro di una vecchia, ma quando aprì gli
occhi capii che anche se fossero passati secoli l'avrei riconosciuta.
“Gregor...”,
mormorò.
“Ciao
Greta. Buon Natale”, le dissi, prendendole la mano.
Lei me la
strinse debolmente. “Non sei affatto cambiato”,
disse con un mezzo sorriso.
“Sono
contento di non poter dire lo stesso di te”, dissi io, e da
come mi guardò capii che aveva inteso perfettamente quello
che volevo dire.
“Ho
avuto una vita felice, non sempre, ma è stata una vita
piena”, sussurrò.
“Lo
so, ti ho tenuta d'occhio”.
“Ho
avuto il mio angelo personale a vegliare su di me tutto questo
tempo”, ridacchiò lei, ma cominciò
immediatamente a tossire, abbandonandosi esausta sul cuscino.
“Sono
tutto fuorché un angelo, te lo assicuro”, le
ricordai.
“Sarai
per sempre il mio meraviglioso angelo immortale”, disse.
Mi alzai e mi
sedetti di nuovo sul letto accanto a lei, prendendole entrambe le sue
mani e stringendole tra le mie.
“Non
sai quanto mi sei mancata”, confessai. “Ma non
potevo venire, non avresti saputo giustificare...”
“Ssh,
non dire niente. Non importa. In realtà ci sei sempre stato
e sei qui adesso, è tutto quello che conta per
me”.
Continuai a
stringerle le mani, le baciai le dita. Erano tiepide, ma sentivo, con
quel sesto senso che negli anni si era sempre più affinato,
che la fiamma della vita le avrebbe riscaldate ancora per poco.
“E'
strano come alla fine della vita tutto diventi così chiaro,
come tutto ciò che di bello e di pulito abbiamo vissuto
diventi la parte più importante, mentre i brutti ricordi
rimangono relegati là in un angolo come uno spauracchio che
in realtà non fa più paura”,
continuò.
“Dev'essere
bello sentirsi così”, risposi.
“Solo
grazie a te e a Manuel posso sentirmi così, non vi
sarò mai grata abbastanza per quello che non avete fatto
quella notte”.
“Glielo
dirò, sarà felice di saperlo”.
Mi sorrise.
“Per favore, potresti aprire per me il baule che sta sotto la
finestra?”
La lasciai
andare, mi alzai ed andai ad aprirlo. C'era il suo violino,
lì dentro, lo stesso con il quale mi aveva salutato l'ultima
volta.
“Prendilo”,
disse.
Lo presi con
cura tra le mani e tornai verso il letto.
“Voglio
che lo abbia tu. Sarà un mio ricordo”,
mormorò. Vedevo i segni della stanchezza che la avviluppava,
ma la sua voglia di combattere fino all'ultimo non era da meno.
“Non
ho bisogno di un oggetto per ricordarti. Sarai con me per
l'eternità, e se anche per me arriverà la fine,
anche dopo, tra le fiamme dell'inferno o dovunque
andrò”.
“Anche
io sarò sempre con te Gregor, non credere che ti libererai
di me tanto facilmente”, affermò. “Ma
voglio che lo abbia tu lo stesso. Saprai cosa farne se e quando
verrà il momento”.
“Va
bene”, dissi.
Lo posai per
terra e tornai ad inginocchiarmi di fianco al letto. Le scostai
gentilmente una ciocca di capelli grigi che era sfuggita alla treccia e
le ricadeva sul volto.
“Credo
che sia arrivato il momento di salutarci per davvero”, disse
con voce fioca.
Ormai non
riusciva più a tenere chi occhi aperti, sopraffatta dalla
stanchezza, ultimi attimi di una candela il cui stoppino era arrivato a
bruciarla per intero.
“Dormi
Greta”, sussurrai, “buon viaggio”.
La baciai
sulla fronte, la guardai un ultima volta e uscendo silenzioso come ero
entrato presi il violino.
Per un attimo
ebbi l'impressione di sentire la sua voce che mi sussurrava di essere
felice, ma non tornai indietro perché ormai ci eravamo dati
il nostro ultimo saluto.
“Ci
proverò”, dissi.
Morì
il primo gennaio dell'anno di grazia 1865.
**************
Filarmonica
di Berlino, 24 dicembre 2008
“Siamo
qui da una settimana e ti viene in mente che il momento migliore per
farglielo avere è proprio un'ora prima del
concerto?”, borbottò Manuel.
“Non
ce n'è uno migliore, te lo assicuro!”, affermai.
“E poi hai scorrazzato per Berlino con la tua nuova Mercedes
per tutto il tempo mentre io la cercavo, quindi hai poco da
lamentarti!”
“Solo
perché mi sono comprato i nuovi Ray Ban, erano gli unici che
non facessero a pugni col colore della mia pelle e col mio Belstaf,
altrimenti non mi sarei fatto vedere in giro”,
sbuffò.
Per quanto
esasperante fosse diventata l'ossessione di Manuel per le griffe,
continuava ad essere soprattutto divertente.
Avevamo
vissuto talmente tanti cambiamenti, atrocità, scoperte,
aberrazioni e meraviglie, in un paio di secoli, che qualche piccolo
sfizio, forse, meritavamo di togliercelo!
“Potevi
almeno farglielo consegnare da un corriere professionista, non da
quella specie di fattorino del fioraio”.
“Si
da il caso che il fattorino del fioraio fosse l'unico disponibile la
notte di Natale”, argomentai.
“Era
disponibile o terrorizzato?”, ribatté Manuel, ma
avevo smesso di ascoltarlo.
Ero ansioso di
vederlo uscire, in base agli accordi avrebbe dovuto chiedere alla
portineria di consegnare personalmente il pacco a Dorotea Manhof, primo
violino della Filarmonica di Berlino. Sicuramente prima lo avrebbero
aperto, con l'allarme terrorismo degli ultimi anni era inevitabile, ma
si sarebbero resi conto che si trattava di un semplice strumento e lo
avrebbero fatto passare, ne ero certo.
Lo aspettammo
per un quarto d'ora sul retro del teatro ma ero così agitato
che il tempo sembrava raddoppiare la sua durata.
“Non
serve a niente consumare le suole delle scarpe”, disse Manuel.
“Lo
so, non posso farci niente”, gli risposi.
Trascorsero
ancora una decina di minuti ma finalmente il ragazzo arrivò.
Si
avvicinò lentamente, con circospezione, come se dietro ai
nostri bei vestiti e alle nostre maniere affinate dal tempo riuscisse a
fiutare il pericolo, a sentire sotto la pelle quel brivido eccitante e
allo stesso modo terrorizzante della vittima che non sa, a livello
cosciente, di esserlo.
Ma non era lui
che volevamo, quella sera, non rientrava nemmeno nella nostra solita
tipologia di vittima, per dirla tutta.
“Allora?
Com'è andata?”, chiesi subito, andandogli
incontro. Un'auto passò nella strada e le luci dei fanali si
rifletterono negli occhi di Manuel e probabilmente nei miei, con un
effetto del tutto simile a quello che accadeva con gli occhi dei gatti.
Il ragazzo
sbiancò e fece un passo indietro, e Manuel mi
frenò afferrandomi un braccio. “Gregor”,
sibilò, “Cerca di stare calmo. Da svenuto non ci
serve a niente”.
Aveva ragione,
per cui tentai di sorridergli nella maniera più rassicurante
possibile sperando che nessun'altra auto decidesse di passare di
lì. “Ho qui i soldi che ti ho
promesso”, dissi. “Vedi?”
Tirai fuori
dalla tasca una banconota da cinquanta euro e glie la sventolai
davanti. “Voglio solo sapere cos'è
successo”.
Il ragazzo si
schiarì la voce. “Sono entrato”,
iniziò tremolante, “e l'usciere voleva sbattermi
fuori. Allora ho cercato di convincerlo che non mi volevo intrufolare e
nascondermi per rubare i portafogli agli ospiti durante lo spettacolo.
Poi ha visto il pacco e ha minacciato di chiamare la polizia
perché temeva che avessi nascosto una bomba,
poi...”
“Vogliamo
arrivare al punto per favore?!”, esclamai spazientito.
“Lo hai consegnato, si o no?”
Di nuovo il
ragazzo cercò di ritrarsi, e di nuovo sentii Manuel
brontolare alle mie spalle. Poi afferrò i soldi e li porse
al ragazzo.
“Ecco,
prendi. Non ti vogliamo fregare, ma datti una mossa, per favore, non
abbiamo tutta la notte”, disse.
Lui
allungò il braccio e gli strappò la banconota di
mano. Temevo che a quel punto decidesse che la cosa migliore sarebbe
stata scappare ma mi smentì e riprese a parlare.
“Alla fine ha chiamato una guardia, hanno controllato, e
quando hanno visto che nella custodia c'era davvero solo un violino mi
hanno accompagnato dalla signora.”
“Lo
hai consegnato direttamente nelle sue mani?”, gli domandai
ansioso.
“Certo,
come mi aveva detto. La signora lo ha preso e lo ha guardato bene, per
molto tempo, poi mi ha chiesto chi me lo avesse dato. Ho detto che non
sapevo nulla, che un uomo mi aveva promesso dei soldi per lasciarlo a
lei e che avrei dovuto dirle di guardare l'incisione all'interno della
cassa. Che Greta sarebbe stata orgogliosa di affidarlo alle sue
cure”.
Sospirai,
finalmente più calmo. Il violino di mia sorella era arrivato
nelle mani di colei che, dopo generazioni e generazioni, aveva davvero
dimostrato di meritarlo.
“Puoi
andare adesso”, disse Manuel, e il ragazzo corse via come un
fulmine.
“E'
finita finalmente? Hai fatto il tuo regalo di Natale?”
Lo guardai
divertito. “Hai aspettato quasi duecento anni,
cos'è tutta questa fretta?”
“Nessuna
fretta. Ho voglia di cambiare aria, però, la Germania mi ha
stufato”.
“Davvero?”,
domandai perplesso. “E dove vorresti andare? In Transilvania?
Ti sentiresti più a tuo agio?”
“Naa...
perché non a Sidney? O a Miami?”
Pessime idee.
“Perché c'è troppo sole, per la nostra
carnagione non c'è filtro che tenga”.
“Hai
ragione”, annuì Manuel, pensieroso. “Che
ne dici del Canada, allora? Possiamo andare a mordicchiare un po' di
malviventi canadesi!”
“Il
Canada può andare”, assentii.
Era strano, a
volte, come dopo tanti decenni, in alcune circostanze, avessimo
imparato a sorridere della nostra condanna. Eravamo noi, e cercavamo di
fare il minor male possibile. Doveva bastarci.
“Andiamo
allora, dobbiamo guardare gli orari dei voli su internet, fare le
valigie e cercare di vendere la macchina”.
“La
macchina che hai appena comprato?”
“Si,
e mi si spezza il cuore, te lo giuro. Ma in Canada ci
servirà una slitta!”
Scossi il capo
e mi domandai per la milionesima volta in due secoli come facessi a
sopportarlo, poi lo guardai, la sua espressione mi parve quasi dolce e
ricordai immediatamente il perché anche i successivi due
secoli ci avrebbero visti comunque insieme.
“Cerca
di essere felice”.
Era stata
l'ultima cosa che Greta mi aveva detto, o forse solo un suo pensiero,
talmente intenso da superare la barriera delle parole.
Non era
passato attimo, da quel giorno, che non avessi pensato a lei, e nulla
sarebbe cambiato, ma ora sapevo che il suo spirito, tutto quello che
quel violino aveva significato, era nelle mani della persona giusta.
Greta riviveva
il Dorotea, e la sua musica sarebbe sopravvissuta per sempre.
Pensai che, in
fondo, tutto quello che avevo fatto e che avrei continuato a fare
sarebbe stato cercare di essere felice.
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