CONTROVENTO
a
Luisina:
alla sua simpatia, alla sua intelligenza ed alla sua bravura
Ho sempre pensato che la vita non fosse poi cosa
così difficile: e mi sbagliavo.
Il problema non è vivere una vita intera, brutta o bella che
sia. Il problema è vivere la mia vita, giorno per giorno.
Ci sono giorni in cui lancerei volentieri la mia testa su nel cielo,
per vedere se tra le nuvole ed i gas di scarico degli aerei i pensieri
sono davvero più leggeri e più distanti dalla
terra. Altre volte la testa invece la sotterrerei, perché ho
sempre ammirato gli struzzi: loro sono gli unici ad aver finora capito
che vigliacco è colui che fugge, non colui che non vede e
non sente.
Ed io un vigliacco proprio non lo sono: non lo sono mai stato e mai lo
sarò.
Ci saranno al mondo almeno una trentina di persone che mi vorrebbero
vedere morto, e sarebbero state anche più di trenta se non
avessi provveduto io, in prima persona, ad abbassare questo gravoso
numero a colpi di revolverate.
E sì, perché il migliore amico di un uomo
è sempre una pisola. Ed il proprio silenzio.
Ogni mattina che mi sveglio sono sempre più spiazzato: non
so se dover essere grato a Dio per essere ancora in vita, o bestemmiare
il suo nome perché ancora non mi ha richiamato a
sé e mi costringe a vivere di espedienti così
bassi.
Furto, stupro, rapina, omicidio: sono termini che mi si addicono,
familiari come una voglia tatuata sulla coscia sin dalla nascita.
Avrò senz’altro peccato, e questo non lo posso
negare in alcun modo: eppure sento che se sono giunto fino a questo
punto della mia vita, il merito è anche e soprattutto delle
scellerate azioni che ho compiuto. Si tratta di azioni deplorevoli,
concordo: ma sommate tutte fra loro hanno saputo dare un equilibrio ai
miei giorni, marchiando la mia immagine come una vacca destinata al
macello.
Tanto, prima o poi, a tutti tocca di andare al macello, e quando ti
troverai lì – ne sono certo – non
importerà a nessuno sapere se la tua immagine è
stata quella di uomo dell’anno sulla copertina di
“Time” o quella meno nobile di ricercato nella
pagina di cronaca nera.
Ma tanto, giunti alla soglia dei cinquantasette anni, la via percorsa
è troppo maggiore della via da percorrere perché
quest’ultima possa invertire la prima.
E dire che c’hanno scritto miliardi di pagine su queste cose,
sul destino: ma in realtà il destino è solo una
parte della vita. È quella parte che comincia quando il
più è stato già fatto, e ti sei
compromesso quello che resta. Questo è il destino, questo
è quello che mi resta da vivere.
Guardo attraverso il finestrino del vagone treno e, come ipnotizzata,
assisto allo spettacolo naturale che si sta svolgendo
all’esterno: il sole lotta con il manto di nuvole e cerca di
farsi spazio tra di esse. I fili di raggi rossastri si infiltrano nel
bianco vaporoso e si riflettono sul blu cristallino del mare
sottostante, creando un sublime gioco di colori arancione e verde
acqua. Osservo con dedizione questa “lotta
naturale” e mi lascio riscaldare dal tepore dei raggi
luminosi, che dolcemente mi sfiorano il viso.
Ogni tanto, un cartellone pubblicitario, o semplicemente alberi, si
frappongono tra me e questo spettacolo, richiamando i miei occhi.
Oggi mi sento come il sole: dopo una lotta incessante riesce ad imporsi
e a realizzare il suo vero ed unico obiettivo, la ragione della sua
esistenza.
Oggi: il giorno in cui la mia vita avrà
finalmente una svolta.
Mi specchio negli occhi della ragazza del vetro; lei sorride mestamente
e mi fissa smarrita, non sa che quella di fronte, in realtà,
è la nuova parte di lei stessa.
D’un tratto, però, ne distolgo lo sguardo per
dirigerlo in direzione di un cartello pubblicitario. La frase riportata
a caratteri cubitali mi incanta e risveglia in me ricordi passati:
“Se non sai dove stai andando, girati per vedere da
dove vieni”
Sembra che questa frase sia stata inviata appositamente per me: in
quelle poche semplici parole, è racchiuso il significato
della mia intera esistenza.
Credo arrivi per tutti un momento nella vita in cui ci si senta
… perduti; un momento in cui si ha l’impressione
di vivere la propria esistenza senza una meta precisa, senza un
traguardo. Ecco, a quel punto ogni individuo, in balia di questa crisi
esistenziale, decide puntualmente di fermarsi per riflettere.
Paradossalmente, questi vorrebbero avere la possibilità di
immortalare e trasformare la propria vita in una macchina da presa
cinematografica, per guardare a rallentatore e cercare di capire cosa
bisogna cambiare: tagliarne le parti considerate inadeguate, sbagliate,
ed aggiungerne altre a proprio favore.
Non male come prospettiva.
Eppure mi domando: non sono forse gli errori a formarci, a renderci le
persone di oggi?
Io, per esempio, chi sono?
Ventisei anni della mia vita trascorsi a pormi a questa domanda, senza
tuttavia trovarne una risposta ben precisa. Cominciando proprio dalla
mia famiglia, quella che sarebbe dovuta essere una base, un punto di
partenza per me … in realtà non è mai
esistita.
Figlia unica.
Ho vissuto insieme a mia madre, senza sapere mai chi fosse mio padre.
Padre, mi domando se ne ho mai avuto uno. Tutto quello che so,
è che mi ha abbandonata quando ero molto piccola, ecco
perchè mi è impossibile ricordare.
Ho sofferto molto; ormai ho perso il numero delle notti in cui mi
nascondevo sotto le coperte, avvolgendo la testa nel cuscino, e
piangevo disperatamente.
Versavo lacrime e continuavo a chiedermi: perché? Qual
è il vero senso della sofferenza? Siamo noi che scegliamo di
soffrire o è un destino a cui ogni essere umano non ha il
potere di sottrarsi?
Vivere alla giornata significa provare a vivere il giorno
dopo: e vi assicuro che fra debiti, conti da saldare e nemici che ti
cercano armati, anche il sorgere puntuale e quotidiano del sole inizi a
metterlo in dubbio.
La mia fortuna è che non ho affetti, e quindi posso
limitarmi a pensare solo a me stesso, a come cavarmela in questo mondo
di merda.
In realtà delle persone a cui pensare che differiscano dal
sottoscritto ce ne avrei anche, ma ormai è tutta acqua
passata.
Un tempo ero sposato: lei era una donna troppo diversa da me
perché potesse durare come storia.
Si chiamava Manuela, ed aveva studiato. Non so che cosa
l’aveva attirata di me: forse l’aria ribelle
(perché a tutti piace ciò che è
trasgressivo…), o forse era riuscita a leggere in me uno
spiraglio di bontà che il tempo ha rivelato essere effimera,
ed oggi non è altro che un retaggio.
Dalla nostra breve storia nacque pure Maura…o almeno
così credo si chiami. È passato così
tanto tempo che non me ne ricordo più. E se oggi la
incontrassi per strada, probabilmente, neppure la riconoscerei. Quello
che è certo è che sicuramente non la saluterei.
Questo è dovuto un po’ al fatto che dopo tanto
tempo si può dire che tra me e lei non sia rimasto niente
che ci possa legare in alcun modo; ma soprattutto questo è
dovuto al fatto che sono scappato, stufo della routine della vita di
coppia, e quindi né Manuela né tanto meno Maura
farebbero un torto a Dio se mi odiassero.
A ripensarci oggi quelli erano bei tempi, dove la vita costava di meno
e non richiedeva spargimento di sangue dietro di me.
Ma quando si è giovani si è meno esperti e
più stupidi: forse si è anche più
impulsivi e sinceri con se stessi. Ma sta di fatto che si è
sempre e comunque anche più stupidi.
Cameriera in locali notturni; addetta alle pulizie nelle stazioni
ferroviarie; responsabile nel settore del magazzino con tanto di datore
di lavoro che ti mette le mani addosso in cambio di un misero stipendio
da portare a casa … questi sono i lavori che sono stata
costretta a svolgere a partire dai miei quindici anni.
Vi state chiedendo se andavo a scuola? Pulivo anche quelle, se
è questa la risposta che state cercando.
Ditemi: un’esistenza permeata dalla completa accettazione di
tutti gli eventi, luridi e disonesti, si può definire
‘dignitosa’?
No, non credo …
È pur vero che oggi non so dove sto andando. Non posso
sapere dove la vita mi condurrà. Nessuno lo sa.
Non è concesso conoscere ciò che accade dopo; il
futuro non ci appartiene. Quello che posso affermare con piena
certezza, è che ho visto bene cosa è successo
“ieri”; conosco, senza alcuna ombra di dubbio, da
dove vengo.
Questo è il mio consiglio: se siete arrivati a questo punto
della vostra vita in cui tutto ciò che vi circonda vi rende
semplicemente infelici e apatici, sbirciate nella memoria
più recondita del vostro passato, a quel punto vi
accorgerete che vale la pena proseguire la strada che si apre davanti a
voi.
Oggi, per me, sarà il giorno della rinascita;
avrò la possibilità di mostrare la mia criniera
di raggi solari e di far capolino nel manto di nuvole grigie:
ritroverò quella stima in me stessa e avrò
finalmente l’occasione di vestire un tailleur elegante ed
essere guardata con assoluto rispetto.
Se è questo il prezzo da pagare per poter raggiungere la
piena realizzazione di sé … allora fatemi tornare
indietro nel tempo: rifarei gli stessi errori, poiché
è solo da quest’ultimi che si esce vincitori.
Scendo dal treno del mio “passato” con un sorriso
stampato sulle labbra.
Non ho fretta, non c’è alcun bisogno di
affannarsi: il prossimo treno, quello del mio vero futuro, è
proprio lì che aspetta di essere sfruttato appieno.
Ora mi trovo qui, seduto su una panchina: la
staticità del tempo, dell’aria fredda che mi si
posa sulla faccia, dimostra in maniera incontrovertibile
l’incoerenza del cuore rispetto al tempo. Infatti a questa
immobilità esteriore, il mio animo risponde con un vago ed
indefinito senso di angoscia, che lentamente però mi sta
consumando dentro.
Domani devo ridare una grossa somma di denaro ad un tizio, e se non lo
faccio mi auto-condanno a morte, senza possibilità di
appello.
Questo tizio non è persona con cui scherzare: fa male
guardarlo dritto negli occhi. Ma fa molto più male non
rispettare la parola data.
Non è come tutti gli altri: a lui non si può
sfuggire, nonostante la mia decennale esperienza di latitante.
E poi, arrivato a questo punto, non ha neppure più alcun
senso fuggire: non ne ho più le forze, sono stanco. Verrebbe
quasi la voglia di abbandonare tutto, accettare la morte come
l’unica ed estrema fuga possibile da questo mondo.
Ma l’ho già detto: non sono un vigliacco. E gli
occhi li chiuderò solo il giorno che Dio mi
chiamerà a sé per ricordarmi l’infinito
elenco di torti e di peccati mortali dei quali sono stato autore.
Ora devo ancora procacciarmi il vivere, devo in qualche disperato modo
cercare di noleggiare altre ore alla mia inutile vita. Ma non so
proprio come fare.
I soldi che mi servono sono tanti, ed anche la paura inizia ad essere
troppa: mi tremano le gambe.
In questi casi faccio sempre una cosa: mi guardo con attenzione le mani.
Guardare le mani vuol dire un po’ guardare la propria anima:
se sono ferme, rigide e non danno segno alcuno di cedevolezza, allora
vuol dire che posso fare qualsiasi cosa ancora; se invece tremano,
anche solo un poco, allora vuol dire che sono giunto al capolinea, e
non ha più senso avventurarsi in nuovi espedienti per
guadagnarsi la giornata.
Faccio la prova: ho paura, perché so che potrei vedere per
la prima volta in vita mia le mie mani tremare. Non importa,
è una prova alla quale non mi sono mai sottratto, e non lo
farò di certo oggi.
Ferme, rigide: non tremano.
Tiro un sospiro di sollievo. La vita ha deciso di sorridermi ancora per
un po’.
Tiro su con il naso, mi schiarisco la voce (ed i pensieri) con un
recitativo colpo di tosse, e decido risoluto il da farsi.
Francesco, Giuseppe, Michele e Gennaro: sono quattro disgraziati messi
anche peggio del sottoscritto. Un mio vecchio amico definisce la gente
come loro “quelli che non hanno neanche gli occhi per
piangere”. Ben venga tutto ciò: del resto io non
voglio femminucce piagnucolanti.
Ho deciso ormai: vorrà dire accettare di rischiare la
propria vita, ma se il colpo riesce ci mettiamo tutti e cinque a posto
per un po’. E chissà: se il colpo va ben oltre
anche le più rosee aspettative, forse è la volta
buona che me ne vado via da questo paese di merda.
Ho sempre sognato di andare a vivere al caldo equatoriale, in qualche
isoletta sperduta nell’oceano. Molti dicono che questi posti
si sognano solo perché non ci si è mai stati; per
il semplice fatto che ognuno di noi è sempre e comunque
attratto dall’ignoto. Non lo so: non so dirvi se ha ragione
chi dice questo. Ma avrei tanta voglia di provare…
Il rumore dei tacchi batte sul pavimento lucido e riecheggia in tutta
la banca, unendosi al vocio dei clienti in coda ai vari sportelli.
“Lei deve essere la signorina Rossi Maura, non è
vero?” Mi domanda, improvvisamente, un uomo di
bell’aspetto, in giacca e cravatta. A giudicare dai capelli
brizzolati e dall’aria da “superuomo”, lo
classificherei come uno dei “pezzi grossi” della
banca.
“Sì, in persona.” Gli rispondo,
stringendogli saldamente la mano.
“Lieto di conoscerla: io sono Giacomo Franchi, uno dei
maggiori assistenti del direttore. Venga, le mostro la sua postazione
di lavoro.” Pronuncia, un attimo prima di darmi le spalle e
indicarmi la strada. Cosa vi avevo detto a proposito dei
“pezzi grossi”?
“Il direttore mi ha detto che è la sua prima
esperienza in questo campo.” Asserisce continuando a
rivolgermi le spalle. Mi limito ad un semplice
“Sì”.
Se vi state domandando come ho fatto ad ottenere un lavoro
così “prestigioso” (in un certo senso),
non avreste tutti i torti. Sbaglio o vi avevo detto che uno dei miei
datori di lavoro mi metteva le mani addosso in cambio di uno stipendio?
Ebbene, è lo stesso espediente che ho dovuto trovare per
arrivare fin qui. Il direttore della banca, durante uno dei nostri
‘incontri ravvicinati’, mi ha offerto questo posto
da impiegata in cambio di altri ‘lavoretti’.
Ovviamente privacy e riservatezza sono una garanzia.
Per cui, non mi sorprendono minimamente gli interrogativi dei suoi
collaboratori.
Per ovvie ragioni, mi limiterò a risposte brevi e a non
fornire dettagli.
“Ecco questa è la sua postazione.” Mi
indica una specie di gabbia di vetro con tanto di sedia girevole.
“Sarò chiaro con lei signorina Rossi: la parola
raccomandazione non è contemplata nel mio vocabolario.
Pertanto, non mi farò scrupoli ad informare il direttore di
un suo eventuale comportamento errato. Il mio compito è
assicurarmi che i dipendenti di questa banca siano competenti e
soprattutto affidabili. Svolga il suo lavoro in modo efficiente e
andremo d’accordo.”
Mi fissa con guardo analizzatore, tanto che ho l’impressione
di essere appena passata sotto una risonanza magnetica. Una sola parola
basterebbe a tenergli testa e a bucare quel pallone gonfiato che si
ritrova al posto della testa… la stessa parola che potrebbe
rovinarmi all’istante la giornata di oggi, e troncare il mio
futuro sul nascere. Meglio optare per il silenzio, con un cenno del
capo in segno di assenso.
“Domande?” Mi chiede, anche se il tono assunto
lascia intendere che la risposta ce l’abbia già.
“Avrei tante domande da porle, signor Franchi. Ma ho la
sensazione che sprecherei soltanto fiato.” Gli rispondo con
un sorriso beffardo disegnato sul volto. Mi sono imposta di mantenere
il silenzio, ma il mio orgoglio di donna non me l’ha concesso.
“Durante la settimana di prova ha avuto modo di conoscere
come funziona il lavoro qui. Quindi non è necessario dirle
cosa dovrà fare. Per qualsiasi dubbio chieda alla signorina
Rinaldi, alla sua destra.”
Non male come primo approccio lavorativo, sempre se il voltare le
spalle possa ritenersi uno degli elementi di un rapporto tra datore e
dipendente.
Bene Maura: un passo falso e il signor “ti tengo
d’occhio dall’ufficio di fronte alla tua
postazione” ti butta fuori all’istante.
Riesco quasi a percepire lo sguardo del signor Franchi, ho la
sensazione che si sia piazzato sulla mia spalla come un avvoltoio.
Cerco, quindi, di sembrare il più naturale possibile: siedo
lentamente sulla sedia accavallando le gambe, guardo la piccola
scrivania che mi fa sentire in prigione.
Neanche il tempo di girare il cartellino con su scritto
“cassa aperta” appeso sulla mia postazione, che
ecco arrivare il primo cliente. Il primo cliente della mia nuova vita.
“Buongiorno” mi dice sorridendo la
cassiera.
“Buongiorno” mi risponde il
tizio senza guardarmi negli occhi, e tenendo costantemente lo sguardo
basso.
“In cosa le posso essere d’aiuto?” mi
chiede cortesemente la cassiera senza potersi neanche rendere conto che
quello che sta vivendo sarà un giorno che le
resterà per sempre indelebile nella memoria.
“Questa è una rapina”
I miei quattro sgherri tirano fuori repentinamente ognuno la
propria pistola.
Giuseppe prende una cliente che era in fila come ostaggio, mentre gli
altri tre puntano le loro revolver verso i dipendenti della banca,
intimandoli a non fare stronzate tipo avvisare la polizia o concedersi
inutili slanci eroici.
Io intanto sollecito a modo mio la cassiera che ho di fronte
affinché mi riempia il sacco che ho in mano nel
più breve lasso di tempo possibile. In questi casi ogni
istante è prezioso all’ennesima potenza: ogni
rapina è come un orologio svizzero, e non è
permesso di sgarrare neanche d’un secondo.
C’è la vita di mezzo, e con la vita non ci si deve
scherzare mai.
Porca miseria: è il mio primo giorno di lavoro, e questo qui
davanti, improvvisamente, da primo di una lunga serie di clienti si
trasforma in un feroce rapinatore.
Che devo fare adesso?
Qui, sotto alla mia postazione, c’è un pulsante
rosso che ci tiene in contatto con la polizia. Devo cercare di pigiarlo
in qualche modo, e la scusa di inchinarmi per prendere i soldi da dare
al rapinatore potrebbe essere un ottimo diversivo per premerlo senza
dare dell’occhio.
“Non fare stronzate, ragazzina! Tieni bene in vista
le mani! Inchinati piano e non fare cazzate, altrimenti ti faccio
saltare il cervello!” intimo alla cassiera, che vedo
particolarmente agitata: se prova soltanto a pigiare uno di quei tasti
per avvisare la polizia che notoriamente si trovano sotto ad ogni
bancone, io l’ammazzo. Un morto in più o uno in
meno sulla mia fedina penale non fa più alcuna differenza.
Oramai.
“Allora! Ti vuoi muovere? Tirali tutti su questi
cazzo di soldi e non farla lunga!”.
Mentre mi apostrofa nuovamente, con tono minaccioso e violento, i miei
occhi incrociano i suoi, che finalmente si degnano di guardarmi in
faccia. Ed in questo preciso momento, nella mia testa (ma forse farei
meglio a dire nel mio cuore…) qualcosa si ferma di colpo.
Quegli occhi: uno sguardo tremendo, che mi brucia l’anima e
mi arroventa il respiro già reso affannoso dagli eventi che
sto vivendo.
Quegli occhi: iniettati di sangue, di astio, di odio verso il mondo
intero. Occhi da incompreso che non vuole farsi comprendere. Occhi di
recluso dalla vita, di estirpato dal mondo come la gramigna.
Quegli occhi: gli occhi di mio padre.
Ne sono certa.
Mi ha abbandonato troppo presto perché io mi possa ricordare
del suo sguardo quando si incrociava col mio. Sarà stato
certamente uno sguardo dolce, perché anche il peggiore dei
padri quando guarda gli occhi di un innocente non può
restare impassibile se si tratta di sangue del proprio sangue.
Io non me lo ricordo il mio papà di persona. Ma
l’ho visto mille volte in foto.
Le pochissime foto che conserva gelosamente mia madre per ricordare,
per ricordarsi.
Io quegli occhi ce li ho stampati nella mente, e non posso dimenticarli.
Ogni volta che ho visto quelle foto ho provato odio per quel lurido
uomo che ci aveva abbandonato, segnando la mia vita, costringendomi a
stenti, miserie e rinunce.
Ho sempre meditato la vendetta, la rivincita sul mio destino a suo
danno.
Ed ora, tutto quello che ho bramato da anni, e forse da sempre,
è qui a portata di mano.
Mi basterebbe pigiare questo pulsante rosso, ed il mio rancore
sarà calmato. Per sempre.
Eppure non ce la faccio. Il mio istinto mi dice di non farlo.
È più forte di me.
Dopotutto è mio padre. Un padre sciagurato, un criminale ed
un uomo senza cuore. Ma pur sempre mio padre.
E poi quegli occhi pieni d’odio sembrano gli occhi di un
bambino geloso e deriso dai compagni.
Sembra lo sguardo di un animale in fuga: in fuga da se stesso, in fuga
dal mondo.
E sempre correndo ha preso la vita mio padre. Correndo e di petto,
scontrandosi contro il vento che ha sempre soffiato in direzione
opposta. Ma lui il vento l’ha sempre vinto, ha vinto la
natura degli eventi e delle cose. Ha vinto sul cuore per assecondare
l’istinto da uomo libero che ognuno di noi somatizza sempre,
tenendolo nascosto. In lui ha vinto la libertà,
l’anarchia sui sentimenti.
E dire che qualcuno è convinto che si viene al mondo per
essere liberi…
Ma ogni libertà ha un prezzo, e quella di mio padre ha
dovuto sacrificare la mia. Ma io non posso odiarlo. Io non posso fare
come lui. Non posso andare anch’io controvento, ma devo
assecondare la natura umana. Ecco: io non farò come lui.
Chiamatela pure complicità, ma tra me e lui
c’è solo questo, un legame di sangue che non si
può spezzare in alcun modo. Io sarò legata a lui
per sempre, anche dopo la morte. Questa è l’unica
cosa certa che mi resta.
E così desisto dai miei intenti eroici, e gli do tutte le
banconote che trovo, senza pigiare quel fottutissimo pulsante rosso e
senza battere ciglio.
La ragazza è collaborativa: c’ha messo un
po’ a decidersi, ma alla fine mi sta dando tutti i verdoni
che aveva in cassa. Dovrebbero essere tutte così queste
maledettissime cassiere. Dopotutto anche il mio è un
prelievo, no?
In lontananza, odo una sirena della polizia: qualche altra cassiera
deve aver avuto meno scrupoli di me, e deve aver pigiato il suo
pulsante rosso. Niente di strano: di certo le altre cassiere non sono
figlie dei propri rapinatori…
I cinque lestofanti si mobilitano febbrilmente: mio padre mi strappa di
mano le ultime banconote, riempie il suo sacco e se la dà a
gambe levate. Senza più incrociare il mio sguardo.
Gli altri quattro sgherri lo emulano, e repentinamente scattano con mio
padre fuori dalla banca.
Sembrano topi inseguiti da un gatto. Ma il bello è che non
c’è nessun gatto. Fuggono da loro stessi, dalle
loro paure. E lo fanno con una naturalezza agghiacciante, come se si
trattasse di un movimento naturale, innato. Un movimento ripetuto
chissà quante volte.
Ora nella banca non rimane più niente: solo silenzio. Un
terribile e fastidiosissimo silenzio.
Si ritorna lentamente all’ordine, alla
quotidianità da cui siamo stati tutti estirpati per appena
dieci minuti.
La gente in terra si rialza e si ricompone, le cassiere riprendono
fiato: e fuori, per la strada, uno sparo intacca il silenzio convulso
che qui dentro ci radica alla nostra incostante realtà.
Io, appena odo lo sparo, non posso rimanere vittima della
staticità che mi circonda, e dimenticando tutto, scordandomi
del mio lavoro, mi precipito in strada.
Quello sparo potrebbe voler dire molto per me: potrebbe significare del
sangue in terra. Del sangue tale e quale al mio. Il sangue di mio padre.
Mi faccio largo a spintoni fra la folla, che non disdegna mai di
accorrere da spettatrice non pagante a questi spettacoli
così biechi e poco edificanti.
E non appena mi accorgo che quello in terra, colpito a morte da un
proiettile esploso da un poliziotto, non è mio padre,
cinicamente e forse incoscientemente tiro un sospiro di sollievo.
Mio padre e gli altri tre se la sono data a gambe levate, e la polizia
non ha potuto farci niente.
Forse sarebbe stato un bene che invece ad essere colpito fosse stato
mio padre: così magari si sarebbe finalmente fermato dopo
un’intera vita vissuta di corsa, senza mai guardarsi indietro.
Ma egoisticamente sono felice che non sia stato ucciso l’uomo
che più di tutti odio a questo mondo, e che più
di tutti amo.
Rientro lentamente in banca, a testa bassa, quasi a voler espiare le
mie colpe.
Ora so benissimo cosa mi aspetta: Giacomo Franchi mi verrà
incontro urlando, rimproverandomi di non aver posto alcuna resistenza
al rapinatore (“ma mica siamo carne da macello!”
gli risponderò io…) e soprattutto di essermi
allontanata dal posto di lavoro per andare a vedere cosa stava
succedendo in strada.
Forse tutto questo mi costerà caro. Potrei anche perdere il
lavoro. Ma questo conta poco, anzi nulla, a confronto del fatto che ho
ritrovato mio padre. Anche solo per un istante, ma come se durasse
tutta l’eternità. Il suo sguardo riflesso nel mio,
come a volerci scambiare un saluto.
Un saluto che non verrà mai, che rimarrà
eternamente racchiuso in noi.
Il saluto di una figlia al proprio padre.
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