La Giostra
-Oddio, ma che sta facendo?
-Vuole buttarsi
giù!
-Fermatelo!
-Per l’amor
del cielo!
Un passo in avanti, ed
è
AriaVentoFreddoPauraLiberazione
TUNF.
Gneek.
Gneek
Le palpebre fremono.
Gneek.
Gneek.
Un cigolio, metallo non oliato bene che stride piano.
Cardini di una porta, un cancello, un motore, un macchinario…
Apro di scatto gli occhi.
Una giostra.
Per
la precisione, è una ruota. Una di quelle ruote che si
possono trovare
in un parco per bambini, che per funzionare hanno bisogno della spinta
di un genitore, o della forza delle braccine di più bambini.
Ed è rossa.
Piano,
provo a muovere le dita. Provo ad aggrapparmi all’aria, ma mi
accorgo
che quello che sto artigliando è terriccio della consistenza
della
sabbia. È allora che mi accorgo di essere sdraiato per terra.
Mi alzo piano, facendo forza con le braccia sul terreno.
La terra sotto di me è sabbia, come avevo creduto. Sabbia
giallo chiaro, sporco.
Con
una certa sorpresa, mi accorgo che quindi riesco a vedere, che i miei
occhi funzionano e quasi si sentono feriti da tutta questa luce,
spezzata solo dalla presenza della ruota, qualche metro davanti a me.
Riesco ad alzarmi, barcollando come un ubriaco.
Gneek.
Il cigolio non si ferma, continua, regolare.
La giostra gira.
Sbatto
le palpebre per metterla meglio a fuoco, i contorni sono quasi
indefiniti, come se mi trovassi nel deserto davanti ad un miraggio.
Mi
sento la testa pesante, ma improvvisamente la lucidità
torna, mista al
panico e al fiotto di adrenalina che senza motivo mi invade le vene a
causa dello shock.
Sulla giostra c’è una bambina.
È minuta, con i capelli neri e lunghi, che ricadono oltre la
piccola balaustra della ruota, in piccoli riccioli perfetti.
Sta
canticchiando, è seduta sul bordo della panchetta di legno
all’interno
della costruzione, approfitta dello vuoto presente nella balaustra
rotta per dare la spinta con i piedi, per far girare la giostra. Poi
all’improvviso si ferma, alza di scatto la testa e mi guarda.
Ha un
viso da bambola, a cuore, gli occhi grandi che si fissano nei miei.
Sorride con una fila di dentini piccoli e perfetti.
“Ciao! Ti stavo aspettando”.
Non rispondo, la fisso ancora scosso.
Scende
giù con un saltello aggraziato, si dirige verso di me e
sembra che
danzi, che i suoi piedini camminino sulle punte sulla sabbia, come una
ballerina.
“Era tanto tempo che lo facevo!”
Si ferma, sorride
ancora. Ha la statura e la corporatura di una bambina di nemmeno sette
anni, ma qualcosa in me ha paura di lei, di quei dentini e di quella
voce infantile che parla fluidamente, articolando le parole senza
esitazione.
“Chi sei?” articolo, la voce rotta, roca. Come se
non parlassi da anni.
Lei
scoppia a ridere, la risata cristallina si diffonde potente
nell’aria.
Si volta e comincia a correre, salta sulla giostra e poi sul bordo, sul
filo di ferro rosso. Ci cammina in punta di piedi, le braccia in fuori
per tenersi in equilibrio, come una ginnasta sulla trave. Poi si ferma,
si volta con una piroetta fluida, di nuovo gli occhi nocciola mi
scavano dentro.
“Oh, credo che questo dovresti saperlo tu! In fondo,
è solo per te che sono qui! Perché tu
capisca.”
No, non capisco.
“Io… non lo so”
Inclina la testa di lato.
“Davvero?”
dice, con aria stupita. Poi sembra essere risentita. “Dovrai,
se vuoi
andare via. Questo in fondo è il momento della
verità. Ma come posso?
Come faccio, se tu nemmeno sai cos’è che devi
comprendere?”
Sembra
afflitta, scoraggiata. Ma io lo sono ancora di più, questo
posto mi
inquieta, i granelli di sabbia si alzano al vento e formano figure che
mi sussurrano parole.
Voglio andare via.
“Non puoi”
Sbarro gli occhi.
La bambina salta giù, si dirige verso lo scivolo.
Scivolo?
Quale scivolo?
“Quello…” mormoro con voce strozzata.
Lei sta salendo sugli scalini, è arrivata in cima, dondola i
piedi tentennando prima di scendere.
“Cosa c’è?” dice con aria
assorta.
“Non c’era! Prima non c’era!”
quasi urlo.
Lei non sembra impressionata. Prende un ricciolo e comincia a giocarci,
con le dita lo prende e lo stira.
“Sì, invece. C’è sempre
stato.”
Silenzio. Sento che il panico va via, inghiottito dal venticello che
smuove la sabbia.
Ad un tratto voglio solo andare via.
“Perché sono qui?”
“Non
ricordi?” dice lei, sorpresa. “Eppure te la sei
cercata! Ti sei buttato
da quel tetto. Hai fatto un passo avanti e…
giù!” dice, spingendosi in
avanti e scivolando fino a terra. Si alza spolverandosi.
“Volevi morire, perché?”
Comincio a ricordare, a fatica, come liberandomi da un bozzolo.
Ho
cercato di suicidarmi. Ho scelto tra tutti i tetti uno che spiccava per
il comignolo rosso, non nero, proprio rosso, con il fumo bianco che
usciva dal buco.
Ricordo di aver gettato uno sguardo all’interno, di essere
stato investito da una nube di cenere.
Ricordo di aver tentennato sul bordo, per un lungo istante.
Perché?
Mi sforzo di ricordarlo.
“Non lo so.”
La bambina annuisce. Danza girando intorno allo scivolo, come per gioco.
Forse sta davvero giocando.
“Tu… sei morta?”
“Io non sono morta. Per essere morti bisogna aver prima aver
vissuto, e io non sono mai stata viva.”
Si ferma, meditabonda.
“A dire il vero, credo di non essere mai nata”.
Deglutisco a vuoto, arretrando di un passo, per istinto.
Paura.
“Sono morto?” le chiedo ancora.
“Forse sì, forse no. Dipende da te,
credo.”
“Dipende da me?”
“Altrimenti non saresti qui”.
“Oh”. Annuisco, non trovando niente di meglio da
fare. “Come… come faccio a…?”
“Guarda!” la bambina è corsa
all’improvviso vicino alla ruota rossa, gli occhi eccitati,
ingranditi nel volto.
Voragini.
“Guarda qui! Guarda qui! Guarda qui!” cantilena,
guardandomi.
È
un imperativo. I suoi occhi mi costringono a muovermi e ad arrivare
fino a quella dannata giostra, a gettare uno sguardo
all’interno, a
trattenere un urlo di sorpresa.
La ruota ora vortica, gira
velocissima. Si intravedono immagini, ricordi, volti. L’aria
si riempie
di una cacofonia di suoni, di odori.
Urla, urla altissime che mi
feriscono le orecchie, le immagini mi si stagliano davanti, sensazioni
che si accavallano ovunque, mi si appiccicano al corpo, mi feriscono.
La bambina è davanti a me, mi fissa immobile, i capelli che
mossi dall’aria si alzano verso l’alto.
Sto per impazzire, spalanco la bocca ma non urlo, cerco di coprirmi le
orecchie con le mani, chiudo gli occhi.
Cado in avanti, nel vortice.
Bianco.
L’ospedale era
abbastanza affollato, quel giorno.
Le
infermiere si affaccendavano, andavano avanti ed indietro, portavano i
carrelli con su i pranzi dei malati, parlavano alle persone in sala
d’attesa.
Tra tutti, confusi nella
massa di gente in attesa di risposte, due ragazzi.
Lui
era alto, magro. I capelli neri erano attaccati alla fronte sudata,
aveva un braccio esitante intorno alle spalle della giovane che
singhiozzava, attaccata alla sua spalla.
Parlavano.
“Po…possiamo
provarci! Abbiamo vent’anni, non è poi
così presto! Potremo essere una
famiglia, magari potrei… potrei chiedere aiuto…
mia madre potrebbe… noi
potremmo.. non dobbiamo per forza farlo, non…”
Piangeva, ingoiava
parole e lacrime. Una mano era posata sul ventre.
Lui stava in silenzio,
il viso contratto.
La mano era vicina al
ventre della moglie, alla sua mano tremante.
Non la mosse.
“Signori?”
L’infermiera
era davanti a loro, sorridente.
“Tocca a
voi”.
Lei l’aveva
guardato ancora, aveva cercato un cedimento.
Lui aveva distolto lo
sguardo.
Era stato lui.
Forse lei ce
l’avrebbe fatta, ci avrebbe provato.
Amava già
quella creatura non-nata,
concepita per sbaglio,
per errore.
Forse avrebbe potuto
essere madre, lei.
Ma lui aveva avuto
paura, e non poteva farcela da sola.
L’aveva spinta
tra le braccia del medico.
L’aveva spinta
tra le braccia della morte.
Aveva tappato le
orecchie alle sue mezze suppliche.
Aveva chiuso gli occhi
davanti alle lacrime.
Non aveva risposto alle
sue obiezioni.
“Perché?”
Risalgo a fatica.
Apro gli occhi boccheggiando, alla ricerca disperata d’aria.
Rantolo, provo ad alzarsi e ricado di nuovo disteso, colto da una fitta
lancinante alla testa.
Sopra di me, il cielo è bianco.
Non l’avevo notato, prima.
Lentamente riesco a mettermi seduto.
Tossisco. Ho i polmoni pieni di sabbia, in bocca un sapore sgradevole.
“Lei ti lasciò una settimana dopo”.
Mi volto.
Non era più lei. O forse sì, ma non era
più una bambina.
Ora era alta, era più grande. Dimostrava quattordici anni.
“Era il sei gennaio. E lei non era riuscita a
perdonarti” disse, a mo’ di conclusione.
Era
seduta su un altalena, rossa come lo scivolo e la ruota. Lo fissava. I
suoi occhi non sono cambiati, sono ancora grandi e profondi.
Arrabbiati.
“Hai avuto paura.”
Non è una domanda.
Striscio
fino allo scivolo, mi aggrappo per potermi alzare. Ansimando, ricambio
lo sguardo. IL silenzio si protrae, lei dondola guardando per terra.
“Sì” sussurro.
Lei
sta ancora zitta, si alza sempre di più. Va verso
l’alto, verso il
cielo. E poi all’improvviso punta i piedi e si ferma di
botto.
Alza lo sguardo ed è improvvisamente furiosa.
Ed io ho paura.
Nei suoi occhi all’improvviso vedo il fuoco,
l’Inferno.
Nei
suoi occhi vedo la Morte e all’improvviso temo che inghiotta,
che mi
spinga tra le fiamme e resti lì, sul bordo, a
guardarmi urlare.
“Assassino!”
L’ha detto a bassa voce, ma io provo l’istinto di
fuggire, di voltarmi e correre.
Per salvarmi la vita.
Salta giù, viene verso di me, il rancore nelle sue iridi mi
paralizza.
Piano si china, fino a rimanere ad un centimetro dal mio viso.
“Perché ti sei ucciso?” sussurra.
La mia bocca trema, non riesco a parlare.
“Sai che giorno era, oggi?” continua.
“Oggi era il trenta dicembre”
Mi fissa, negli occhi la rabbia scema piano. Sostituita
dall’incertezza.
Riprendo a respirare.
Lei mi guarda, disgustata. Va di scatto all’indietro, mi
guarda dall’alto.
“Esattamente cinque anni fa, la tua ragazza abortì
per tua
richiesta”.
Sono riuscito a riprendermi. Mi rialzo ancora, ho perso il conto delle
volte in cui sono caduto.
Guardo la ragazzina negli occhi.
“Non ti sei suicidato lo stesso giorno in cui lei ti
lasciò. Perché sei qui? Qual è la
verità?”
Un attimo di silenzio.
“Perché sei morto?”
Chiudo gli occhi.
Vigliacco.
Sto piangendo.
Vigliacco. A che serve piangere ora?
Sento un dito sfiorarmi la guancia.
Apro di scatto gli occhi, mi ritiro all’indietro. Lei
è rimasta con la mano protesa in avanti.
“Stupido” sussurra. “Rimorso…
volevi rivederlo. Speravi di incontrare tuo figlio?”
Non dico nulla. Ingoio le lacrime e il disprezzo per me stesso come
aveva fatto Alba cinque anni fa, e rimango in silenzio.
“Stupido.” ripete, sprezzante. “A certi
errori non si può rimediare”
“Lo so” sussurro. Lo so, ma ci speravo lo stesso.
La ragazza fa un sorriso strano.
“Sai cos’è tutto questo?”
Scuoto la testa.
“Tutto
questo…” apre le braccia, come a indicare lo
spazio che la circonda “è
un Bivio. Una scelta. Io sono qui perché tu capisca,
perché tu decida
se tornare o no. Sono qui perché tu avevi bisogno di
me” mi guarda “ma
adesso il mio compito è finito. Hai visto, hai pianto, ti
sei pentito.
Puoi morire, o tornare indietro nel mondo.”
La ascolto, sbigottito.
“Non… sono… morto?”
Lei scuote la testa.
“Non ricordi? Dipende da te”
“Posso tornare indietro?”
“Se vuoi, sì. Ma devi dirmi
perché.”
Sposto lo sguardo sul terreno. Rifletto.
“Alba. Devo chiederle scusa. Devo farmi perdonare.”
Annuisce. “E poi?”
“Devo perdonare me stesso. Verniciare di bianco lo steccato
della signora Perkins.”
Sorrido, tra me e me.
“Gliel’avevo promesso”
Lei mi guarda, gli occhi ora sono quasi lucidi.
“Solo questo?”
Ci penso su, per un attimo.
“Voglio vivere.
E quando riuscirò a farlo di nuovo, voglio innamorarmi e
avere un
figlio” la mia voce trema, su queste parole. “Se
mai me ne sentirò
degno”.
Il tempo si dilata, mentre lei di nuovo annuisce e poi la ruota
comincia di nuovo a vorticare, velocissima.
Il vento la investe e io non so più che cosa sia, se una
ragazza, una bambina, una donna.
Mi avvicino e, mentre davanti alla porta del ritorno mi ritrovo a
formulare un ultimo pensiero, un rimpianto.
Avrei voluto che lui
mi perdonasse.
“Era una bambina”
Sussulto. La guardo, interrogativo.
“Sarebbe stata una bambina.”
Rimango per un attimo paralizzato. Poi all’improvviso, come
un flash, la vedo.
Davanti a me un vetro cade e io vedo che lei, la bambina-ragazza-donna,
ha i capelli neri e ricci e gli occhi castani.
Come i miei.
Lei sorride.
“Ci rivediamo quando muori. Io resto qui, ad aspettarti.
Chissà, forse allora deciderò di fartela
pagare…papà.”
Apro la bocca, tendo la mano per cercare di sfiorarla, ma è
troppo tardi.
La giostra dietro di me mi inghiotte, mi riporta verso la vita.
Grido,
un ultima parola, il suo nome, quello che segretamente avevo pensato
quando, dopo anni, mi ero accorto di quanto mi facessi schifo da solo.
Elisa.
Ti supplico, figlia mia,
perdonami.
Un
ultimo flash, i suoi
occhi che mi guardano.
E poi fu buio.
N/A
Perdonatemelo, già so che non può essere
perfetta, ma in fondo nulla lo è.
Dite voi.
Chiara
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