Under a Paper Moon- capitolo 5
5. Scarlett
Che diavolo mi era
saltato in mente?! Perché ero stata così scorbutica e
rabbiosa? Dannazione, mi stavo rovinando con le mie stesse mani. E non
potevo assolutamente permettermi di farlo.
L’avevo riconosciuto
subito, appena aveva alzato lo sguardo dopo avermi quasi investita: era
il ragazzo che avevo visto a scuola con Beth proprio quel giorno, lo
stesso ragazzo che la mia migliore amica era determinata a conquistare.
Si era mostrato preoccupato e anche un po’ confuso, ma,
d’altra parte, come dargli torto visto che mi ero comportata come
una psicopatica?
Visto da vicino era ancora più carino: capelli
castani arruffati, probabilmente perché ci passava troppo spesso
le mani, labbra chiare e quasi sempre leggermente schiuse, mascella un
po’ squadrata ma non troppo. E poi c’erano gli occhi, di un
colore indefinito tra il blu e il grigio uguale a quello che ha il
cielo poco prima che si scateni un temporale.
Indossava dei jeans
scuri, una maglietta grigia e una felpa nera. Non sembrava uno di quei
ragazzi fissati con l’aspetto fisico, non era uno di quelli per
cui prima viene l’apparire poi l’essere. E questo era
decisamente un punto a suo favore. Casomai avessi deciso che poteva
interessarmi. Però, anche se avessi preso seriamente in
considerazione l’idea di provarci con lui -possibilità
molto, molto remota-, non avrei potuto farlo: primo perché
piaceva a Beth e quindi non potevo mettermi in mezzo visto che lei era
arrivata prima; secondo mi ero comportata da pazza lunatica e per
questo probabilmente mi aveva fatto perdere un sacco di punti in
partenza. Ero abbastanza certa che lui mi considerasse una schizzata
fuggita da un ospedale psichiatrico. E come dargli torto visto il mio comportamento più che bizzarro?
Quando aveva
accostato davanti a casa mia ero rimasta per un intero minuto a
fissarmi le gambe giocherellando con un buco nella manica del cardigan
come avevo fatto praticamente per tutto il viaggio. Non l’avevo
guardato neanche quando mi aveva chiesto a che numero abitassi, mi ero
limitata a rispondere automaticamente senza nemmeno pensarci. Solo
quando lui si era schiarito la gola mi ero decisa ad alzare lo sguardo
e avevo incrociato i suoi occhi grigio-blu che mi studiavano.
«Siamo arrivati.» Aveva detto prima di mordicchiarsi il
labbro.
Lo faceva spesso, quasi fosse stato un tic nervoso,
un’abitudine, un modo per sfogare la tensione. Involontariamente
mi ero ritrovata a farlo anch’io. Grazie al cielo me n’ero
accorta dopo un secondo e avevo smesso di farlo. Avevo lanciato
un’occhiata fuori dal finestrino e avevo constatato che
sì, in effetti eravamo di fronte alla piccola, o meglio
minuscola, villetta -anche se definirla così mi sembrava
un’esagerazione- dove vivevo.
Mi ero voltata verso di lui ed ero
finita di nuovo per perdermi nel cielo tempestoso che erano le sue
iridi. «Uhm… Sì… G-grazie.»
Aveva
annuito appena e mi aveva fatto un piccolo sorriso incentro.
«Figurati.»
“Ora dovresti scendere, per salvare
almeno le ultime apparenze”, mi aveva suggerito una vocina nella
mia mente. L’avevo assecondata subito, anche se, purtroppo, non
avevo il pieno controllo dei miei movimenti: avevo aperto la portiera
con mani tremanti e non ero riuscita a trattenermi dal lanciargli
un’ultima occhiata di sottecchi prima di scendere.
Inevitabilmente i suoi dannatissimi occhi color tempesta mi avevano
beccata e aveva inibito ancora di più le mie già scarse
facoltà mentali.
Ero riuscita a scendere dall’auto per
puro miracolo reggendomi a stento sulle gambe. Avevo chiuso la portiera
cercando di abbozzare un sorriso e sapevo, nel momento esatto in cui
ordinavo alle labbra di incurvarsi, che sarebbe stato un disastro. Lui
però l’aveva ricambiato lo stesso infondendo qualcosa di
dolce in quel gesto tanto semplice. Una parte di me definì quel
qualcosa pietà, e dovetti ammettere che c’erano buone
possibilità che fosse vero.
Se n’era andato lasciandomi
confusa e piena di dubbi sul marciapiede. “E ora che
faccio?”, avevo pensato scoraggiata. Ero stata ad un passo dal farmi scoprire per ciò
che ero realmente. E con chi, se non con il ragazzo che piaceva alla
mia migliore amica? Cominciavo a chiedermi se ci fosse una qualche
divinità che ce l’aveva con me perché l’avevo
insultata un po’ troppe volte dandole la colpa delle mie piccole,
e molto numerose, disgrazie quotidiane.
Quel pomeriggio avevo deciso di
uscire per cercare un posto dove passare la notte del plenilunio: lo
facevo tutte le volte, provavo a non andare nella stessa zona per
evitare di far nascere sospetti e per cercare di non distruggere troppi
alberi. Perché sì, ogni tanto mi capitava di perdere il
controllo e fare concorrenza ai produttori di segatura. Per questo
dovevo ringraziare i miei bellissimi, quanto difficili da nascondere,
artigli.
Purtroppo mi ero trattenuta un po’ troppo ad osservare
il sole che calava lento sull’orizzonte quindi avevo dovuto
recuperare il tempo perso correndo. E quasi finendo sotto l’auto
di Adam. Da quel momento era andato tutto degenerando: la paura di
essere scoperta mi aveva resa scontrosa e lunatica e le sue continue
insistenze non avevano aiutato. Anche se, tutto ciò che aveva
fatto lui era in buona fede e mirato ad aiutarmi.
In qualche modo ero
riuscita ad aprire la porta, facendo cadere le chiavi come minimo una
decina di volte, ed ora mi ritrovavo in mezzo al salotto con le mani
nei capelli e un senso d’angoscia incredibilmente soffocante nel
petto: c’era mancato un soffio perché Adam capisse
cos’ero. C’era mancato un soffio perché la mia
intera vita venisse irrimediabilmente rovinata. C’era mancato un
soffio perché tutti i miei sforzi venissero annullati.
“Sei irresponsabile”, mi rimproverò una vocina nella
mia mente. Dovetti ammettere che aveva ragione. Molta, troppa ragione.
«Non posso andare alla festa… Non posso
proprio…» Mi dissi.
Guardai il cellulare, che avevo
buttato sul divano, combattuta: non mi andava di dare buca a Beth, ma
non potevo neanche permettermi di rischiare tanto passando la notte
prima della luna piena in mezzo a così tante persone.
Mi
mordicchiai il labbro maledicendomi per la mia poca attenzione e per la
facilità con cui mi facevo distrarre da cose banali come i
tramonti. Non ero neanche una tipa romantica, quindi non mi spiegavo
perché mi ero persa dietro al ciclo del sole. Feci un respiro
profondo e cercai di fare il punto della situazione. E qual è il
modo migliore per farlo? Parlare ad alta voce, ovviamente.
«Se
sabato vado a quella stupida festa rischio di ammazzare qualcuno, se
non ci vado Beth mi uccide, quindi, che diavolo devo fare?»
Chiesi ad un immaginario interlocutore. Da una parte avevo voglia di
uscire e rilassarmi un po’ anche se sapevo che sarebbe stato
pericoloso, dall’altra il mio buon senso mi urlava di non essere
egoista e di pensare a tutte le persone che sarebbero state con me quel
giorno.
«Uh… Ma sì, in fondo non farò male a
nessuno, la paura è tutta nella mia testa. Io a quella dannata
festa ci vado.» Decisi annuendo soddisfatta.
“Pessima
idea”, commentò una parte di me. In fondo sapevo che aveva
ragione, se non completamente quasi, ma non potevo farmi condizionare
così tanto dal mio essere lupo. Suonava un po’
irresponsabile alle mie stesse orecchie, ma, ehi, avevo solo
diciassette anni, non potevo pretendere di essere matura e
giudiziosa… Giusto?
Alla fine i pantaloni di pelle non si erano
rivelati essere così male. Mi mettevano ancora un po’ a
disagio, però avevo deciso di mettere da parte le mie
insicurezze per provare a distrarmi almeno per una sera. E magari per
trovare un ragazzo.
Avevo scelto di indossare gli anfibi sia
perché non avevo scarpe col tacco sia perché non avrei
saputo come camminarci. La canottiera di Beth aggiungeva un tocco
femminile e sofisticato, credo, al tutto e devo ammettere che mi
sentivo abbastanza attraente.
Avevo raccolto i capelli in uno chignon alto e
fermato le ciocche ribelli con una notevole quantità di forcine.
Riguardo al trucco ero stata più in difficoltà: non mi piaceva né mi riusciva
usarlo, però volevo rendermi carina e presentabile quindi dovevo
fare uno sforzo e cercare di non sembrare un panda.
Dopo qualcosa come
un centinaio di tentativi, e altrettanti dischetti di cotone
imbrattati, ero finalmente riuscita a disegnare una linea di eyeliner decente sulla
palpebra. Mi metteva in risalto gli occhi, cosa che non credevo
possibile, a dirla tutta, visto che erano di un comunissimo marrone.
Aggiunsi un po’ di mascara per dare un tocco in più e
coprii qualche imperfezione della pelle con del fondotinta.
«Non
sembro nemmeno io…» Commentai guardandomi allo specchio.
Mi mordicchiai il labbro osservando il mio riflesso: forse non sarebbe
andata così male, insomma, potevo controllarmi e riuscire a
passare una bella serata. Se ci fossi riuscita sarebbe stata la prova
del fatto che potevo vivere la mia vita e gestire il mio essere lupo.
Questo poteva darmi una possibilità di crearmi un futuro degno
di questo nome, magari andare al college, viaggiare… Fare
qualcosa di completamente mio.
Qualcuno suonò il campanello con
un po’ troppa insistenza, quasi gli si fosse incollato il dito al
pulsante. Scossi la testa riconoscendo il modo di fare di Beth. Infilai
il cellulare nella tasca dei pantaloni insieme alle chiavi di casa e
scesi al piano di sotto.
Quando aprii la porta mi ritrovai davanti una
ragazza incredibilmente sorridente: Elisabeth era semplicemente
perfetta nel suo vestito di raso nero e i tacchi le facevano delle
gambe da urlo. Aveva lasciato i capelli sciolti sulle spalle in modo
che le incorniciassero il viso e mettessero in risalto il piercing al
sopracciglio. Il trucco era davvero ben fatto: ombretto blu notte
sfumato sulle palpebre, mascara blu elettrico e rossetto rosa scuro.
Sembrava una modella appena uscita da una sfilata.
«Pronta per
fare festa?» Chiese con uno scintillio malizioso negli occhi.
«Oh sì, puoi contarci.» Mi stupii della mia stessa
sicurezza.
«Sei uno schianto Scarlett.» Commentò
studiandomi.
«Non quanto te, ma grazie.» Replicai
sorridendo.
Ridacchiò. «Beh, sai, la classe non è
acqua.»
Scossi la testa mentre mi chiudevo la porta alle spalle.
«Sei sempre la solita.»
«Se intendi sempre la
migliore ti do ragione.» Ribatté scendendo elegantemente
le scale nonostante quei trampoli che aveva ai piedi.
La sua auto era
parcheggiata davanti a casa mia: era un SUV grigio metallizzato un
po’ vecchio ma comunque più che funzionante. Beth si
sedette al posto di
guida, mentre io presi posto accanto a lei.
Lanciai un’occhiata
perplessa alle sue scarpe paurosamente alte. «Come fai a guidare
con quelle?»
Scrollò le spalle. «Non lo
faccio.» E si sfilò i tacchi per poi farmi
l’occhiolino. «Noi donne dobbiamo saperci adattare.»
Il locale era piuttosto piccolo, buio e molto affollato. C’era un
sacco di gente sia al bar che sulla pista da ballo. Le ragazze
indossavano abiti striminziti al limite dell’accettabile e scarpe
con tacchi concepiti per sfidare la gravità. Per quanto
riguardava i ragazzi c’era chi si era mantenuto sul classico
scegliendo jeans con una maglietta o una camicia, e chi aveva
decisamente esagerato: sembrava impossibile anche a me, ma avevo visto
pantaloni argentati, maglie strappate messe peggio dei miei jeans, e da
qualche parte avevo intravisto qualcosa di rosa.
«Non credevo ci
fossero così tante persone.» Commentai guardandomi
intorno.
«Il gruppo che suona è molto conosciuto. E il
cantante è qualcosa di meraviglioso.» Rispose Beth
studiando un ragazzo dai capelli rossi poco lontano da noi.
«Uhm…» Mormorai distrattamente: ero troppo impegnata
a cercare un’uscita veloce e nascosta. In caso di bisogno, se il
mio essere lupo fosse diventato incontrollabile, me ne sarei dovuta
andare subito quindi era meglio avere un piano di fuga ben congegnato.
«Vado a cercare il ragazzo del parcheggio. Vuoi unirti?» Mi
chiese la mia migliore amica.
«No, credo che andrò a
prendere qualcosa da bere.» Replicai.
«Okay. Sta’
attenta, mmh? Non voglio doverti venir a riprendere in casa di
chissà chi domattina.» Disse guardandomi con le mani sui
fianchi.
Le diedi un colpetto sul braccio. «Beth! Semmai sei tu
che devi stare attenta, io sono una brava ragazza.»
Alzò
un sopracciglio, scettica, ma non commentò. Si limitò a
farmi un sorrisetto malizioso prima di infilarsi tra la massa di corpi
vestiti troppo poco che si agitava sulla pista da ballo.
In qualche
modo riuscii a raggiungere il bar, facendomi spazio a forza di
gomitate, sia ricevute che date. Trovai per miracolo uno sgabello
libero e mi ci arrampicai beccandomi un bel po’ di occhiatacce.
Provai per diversi minuti ad attirare l’attenzione del barista,
inutilmente: va bene che non ero bellissima né formosa, ma
poteva considerarmi anche solo per un attimo, no?
«Posso offrirti
qualcosa?» Sussultai sentendo una voce sconosciuta e parecchio
vicina.
Mi voltai di scatto e accanto a mi trovai davanti un ragazzo
dai capelli neri tirati indietro da un’impressionante
quantità di gel. Aveva gli occhi marroni e allegri. Indossava
una camicia di jeans e dei pantaloni neri. Sbattei le palpebre, quasi
stralunata, mentre analizzavo le sue parole: che voleva quello?
“Vuole provarci con te, genio”, mi rimbeccò una
vocina nella mia mente.
«Oh… Sì, perché no.»
Riuscii a dire.
Sorrise, soddisfatto, prima di richiamare il barista,
che, contrariamente a come aveva fatto con me, gli prestò subito
attenzione. «Due limonate.»
“Accidenti, tu si che sai
come divertirti, eh?”, pensai ironica. Mi sforzai comunque di fargli un
sorriso il più convincente possibile.
«Non ti ho mai vista
qui, è la prima volta che ci vieni?» Domandò
osservandomi ed appoggiandosi con il gomito ed il fianco al bancone.
«Uh… Sì. Di solito vado in una discoteca
dall’altra parte della città, il Subway, non so se lo
conosci.» Spiegai ritrovandomi a gesticolare: lo facevo quasi
sempre quando ero nervosa. O in imbarazzo.
Lui annuì. «Oh,
sì, ci abbiamo suonato un paio di volte.»
Aggrottai la
fronte. «Tu suoni? In un gruppo?»
«Già.»
Si indicò sorridendo mestamente. «Ti presento il
chitarrista di riserva dei Nevermind.»
«Sul serio?
Forte.» Commentai colpita.
«Più o meno:
“riserva” vuol dire che non partecipo mai ai
concerti.» Ammise.
«Questo è un po’ meno
forte…» Mormorai. «Però non è
malissimo.»
Ridacchiò. «Dipende dai punti di
vista…» Mi tese una mano. «Casomai ti interessasse,
io mi chiamo James.»
“Due ragazzi nel giro di due giorni,
mica male”, commentai mentalmente ripensando ad Adam. Gli strinsi
la mano. «Io Scarlett.»
«Sei la prima ragazza che
incontro con questo nome… Però è bello.»
Replicò.
Abbassai lo sguardo. «Grazie…»
Il
barista mollò sul bancone le nostre ordinazioni. «Ecco
qua. Sono sei dollari.»
Spalancai gli occhi: sei dollari? Sul
serio? Erano fatte con limoni d’oro per caso? Cercai nelle tasche
dei pantaloni i soldi e, dopo qualcosa come cinque minuti dopo riuscii
a trovare tre dollari. Quando alzai la testa, però, vidi James
che ne dava sei al barista scorbutico.
«Te li
rendo…» Sussurrai, ma lui mi fece un cenno vago con la
mano.
«Ehi, ho detto che te l’avrei offerta, no? E poi che
figura ci faccio se ti lascio pagare?» Spiegò sorridendo.
«Oh… Allora grazie…» Dissi cercando di
mostrarmi convinta.
«Di niente.» Prese i bicchieri e me ne
porse uno. «Spero sia meglio di quella del Subway.»
Mi
lasciai sfuggire una risata. «Lo spero anch’io: quella
è imbevibile.»
Si mise a ridere con me mostrando delle
adorabili fossette sulle guance. “Se lo vedesse Beth lo vorrebbe
tutto per sé…”, pensai, “ma adesso lei non
c’è…”
James era abbastanza simpatico e
amichevole anche se un po’ timido. Riuscì a distrarmi dal
plenilunio e dalla mia paura di combinare guai. Si rivelò essere
una compagnia piacevole anche se forse era troppo dolce per essere il
mio tipo. Questo non toglieva che potesse diventare un buon amico.
Mi
raccontò la storia della formazione dei Nevermind, il gruppo che
avrebbe suonato quella sera, e scoprii che era il fratello del cantate.
Nonostante questo però aveva solo un ruolo marginale nella band.
Suonava la chitarra da quando aveva sei anni: aveva cominciato con
quella classica per poi innamorarsi, parole sue, di quella elettrica.
Era interessante starlo a sentire: mentre parlava gli brillavano gli
occhi e sembrava davvero molto coinvolto. In più gesticolava
esattamente come facevo io, cosa che mi fece sentire meno sola. Mi fece
ridere più di una volta guadagnando punti extra per la sua
risata tremendamente allegra e contagiosa.
Da una parte, mi sembrava
quasi impossibile che stesse parlando proprio con me, soprattutto
perché c’erano ragazze che avevano il novanta per cento di
pelle scoperta e che sembravano molto più disponibili a
divertirsi di me. Però lui era ancora lì, con le sue
adorabili fossette e il suo carattere esuberante seppur riservato.
Non
so neanche quanto tempo passammo a chiacchierare praticamente di tutto:
era piacevole farlo e mi veniva naturale. In più apprezzavo il
fatto che non mi facesse domande personali di nessun tipo, stava sulle
sue senza sbilanciarsi troppo e già solo per questo si meritava
una possibilità.
Per mia grande sfortuna, il mio lupo non era
d’accordo con tutta quella tranquillità: si
ripresentò con la grazia di un uragano pretendendo di farmi
perdere il controllo di fronte ad un possibile fidanzato.
La prima cosa
che sentii fu un dolore leggero ma pulsante alla testa. Inizialmente lo
presi come una conseguenza della musica martellante e della poca aria
che c’era nel locale. Poi però cominciò a farsi
più insistente e a scendere verso il basso fino a fermarsi
all’altezza dello stomaco.
Lo riconobbi solo in quel momento e
bastò a farmi venire l’ansia. Cominciò a
trasformarsi, passando dall’essere un dolore alla voglia di
ringhiare. Strinsi le labbra sperando che se ne andasse, che mi
bastasse concentrarmi per farlo sparire. Purtroppo, fu inutile, era
ancora lì, pressante e forte.
Lanciai un’occhiata a James
cercando di non farmi vedere: stava parlando di come i Nevermind
scrivevano le loro canzoni e di tutte le volte in cui erano stati i
suoi testi a risolvere i blocchi creativi di Max, suo fratello.
«Devo… devo andare in bagno, scusa.» Riuscii a
balbettare prima di alzarmi ed allontanarmi tentando di non barcollare.
Mi sentivo intontita, a tratti più che lucida e respiravo a
fatica. Avevo lasciato James da solo e non avevo neanche idea di quando
sarei tornata. Anzi, forse non l’avrei mai fatto: era decisamente
più prudente andarmene subito, non aspettare oltre. Neanche un
minuto.
Riuscii a scivolare fra tutti i corpi sudati che si muovevano
sulla pista da ballo e ad avvicinarmi ad una porta che avevo adocchiato
appena ero entrata con Beth. “Giusto, c’è anche
lei…”, pensai mentre mi aggrappavo alla maniglia per non
cadere.
Aprii la porta il minimo indispensabile che mi serviva per
passare e mi infilai in qualunque cosa ci fosse dall’altra parte.
Grazie al cielo non c’era nessuno. In effetti, sarebbe stato
strano il contrario: era un semplice corridoio spoglio con un tavolo
vecchio e traballante addossato al muro di fronte a me e accanto
all’uscita di sicurezza alla cui destra c’era una finestra
piccola e piena di ragnatele.
Tirai un sospiro di sollievo constatando
che potevo andarmene, potevo salvare le apparenze e la mia vita. Ero
stata tremendamente irresponsabile ad andare a quella dannata festa e
ne stavo pagando le conseguenze, ma almeno l’avrei fatto solo io,
gli altri erano salvi.
Feci un passo avanti e portai le mani al viso
cercando di fare respiri profondi. Ero riuscita a calmarmi quasi del
tutto quando una fitta più forte ed improvvisa mi tolse il
fiato. E, nel momento esatto in cui sentii le zanne allungarsi nella
mia bocca, qualcuno aprì la porta alle mie spalle.
SPAZIO AUTRICE: Sono tornata finalmente *-*
In questi quindici giorni (?) non sono riuscita a scrivere, ma visto
che quasi tutti i capitoli della storia sono già stati scritti,
gli aggiornamenti procederanno con regolarità. O almeno
cercherò di fare in modo che sia così.
Finalmente Scarlett è andata a quella famosa festa insieme a
Beth. Nonostante sapesse che il giorno prima del plenilunio è
piuttosto complicato per lei, Scarlett ha comunque deciso di correre il
rischio e si è cacciata nei guai. Resta da capire chi è
lo sconosciuto che ha aperto la porta e cosa succederà dopo.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi rigrazio infinitamente per la pazienza con cui l'avete aspettato.
TimeFlies
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