ACCETTALO, SEI SPECIALE
Da
quando aveva memoria le cose erano state così. Non accusava
nessuno di dimenticarsi di lei, era convinta che non ci si dimentica
delle persone importanti, e che quindi, semplicemente, lei non rientrasse in
quella categoria. Aveva smesso di incolparsi per il suo modo di essere,
troppo chiusa, cervellotica, così si era
definita, qualcuno che deve sempre analizzare ogni cosa.
Una
volta un suo compagno di classe o amico, non era brava con le
relazioni, le aveva detto che lei aveva sempre qualcosa di profondo da dire, e che era
una cosa bella. Lei l'aveva guardato e aveva sorriso, non aveva avuto
il coraggio di dirgli che non c'era niente di bello nell'essere cervellotica.
Quando
aveva iniziato a non sentirsi a sua agio con gli altri aveva dato la
colpa alla sua timidezza, quando poi si era resa conto di non riuscire
a comunicare per via di quello che avrebbe detto, qualcosa che non fa
piacere sentire, un ragionamento una conclusione una sentenza, qualcosa di profondo, allora aveva
guardato in faccia la realtà e aveva ammesso a se stessa che
era semplicemente più intelligente di molti, quel
più che le permetteva di vedere le cose da punti di vista
meno raggiungibili dalla media, quella media da cui era circondata.
Finiti
i sensi di colpa per aver pensato di essere qualcosa in più degli altri,
lei che era abituata alla mediocrità,
né bella né brutta, carina, né pessima
né brava, te la cavi, né 5 né
10, 8, si era rassegnata ad avere un qualcosa
in più che nessuno avrebbe né notato né ammirato né capito.
E
così si ritrovava circondata da persone con cui non parlava,
era molto più brava ad osservare, ad agire. Non diceva "ti
voglio bene", qualcuno che lei ammirava molto aveva scritto "ama chi ti ama, non amare chi ti sfugge, ama quel
cuore che per te si strugge. Non t'ama chi amor ti dice, ma t'ama chi
guarda e tace"*, e lei sperava che prima o poi qualcuno
l'avrebbe guardata e vista davvero, così, nell'attesa, per
dimostrare ciò che provava parlando il meno possibile aiutava, stringeva mani, abbracciava, accarezzava
via lacrime, sperando che tutto questo bastasse, sperando di
ricevere in cambio anche lei almeno un sorriso, un "grazie", qualsiasi
cosa sarebbe stata meglio di quel niente, anche un cenno avrebbe potuto
risvegliarla da quel terpore causato dal non riuscire a essere capita
da nessuno.
Una
volta una professoressa all'uscita di scuola l'aveva fermata e le aveva
detto "l'intelligenza non basta",
anche quella volta aveva sorriso e se ne era andata, pensando che si,
qualcuno era riuscita a notarla, ma che infondo quelle parole non
l'avevano affatto fatta sentire più compresa, le avevano
solo confermato il solito sospetto, era una cervellotica troppo intelligente.
Una
sera, in discoteca un ragazzo le aveva chiesto come mai fosse sempre
così silenziosa, e lei, sempre sorridendo, aveva risposto che le piaceva stare da sola. Ovviamente
aveva omesso che le piaceva stare sola spesso, ma che era orribile sentirsi sola sempre.
E
alla fine, quando non si aspettava più niente da nessuno,
quando solitudine e delusioni erano diventate la normalità,
era arrivato lui.
***
Bisogna
dire che lui non era propriamente arrivato, si era più che altro rivelato. Stavano nella stessa classe da
due anni e non si potevano definire nient'altro che compagni di classe,
non erano amici, si limitavano a odiarsi cordialmente, con frecciatine
più o meno cattive di chi non sa nulla dell'altro e quindi
può giudicare solo l'apparenza. A un tratto del loro
rapporto le parole erano cessate (a lei non
piaceva parlare) ed erano iniziate battaglie di sguardi,
curiosi astiosi sfuggenti. A volte si fissavano e basta, come a voler
capire tutto l'uno dell'altro, e lei aveva paura di quelle volte,
perché non le piaceva nemmeno essere guardata. E
così cadeva nella sua ennesima complicatezza: come può desiderare di essere vista
senza essere guardata? Come può essere amata senza amarsi? Non
pensava fosse una cosa possibile.
All'inizio
della primavera c'erano state molte uscite con gli amici. Durante
quelle serate ogni tanto si erano rivolti parole più gentili
del solito, forse perché si stava così bene con
qualcosa di alcolico tra le mani e la testa più leggera,
forse perché quella brezza leggera che si portava via
l'inverno contemporaneamente lasciava un po' di loquacità a
chi di solito non ne aveva, o forse, come molti dicevano, la primavera
dava alla testa.
La
prima volta che avevano parlato davvero stavano a una festa, lei si era
allontanata un attimo per potersi dire che si sentiva sola
perché effettivamente lo era.
Si era seduta per terra e aveva iniziato a guardare in alto. Odiava il
groppo in gola che le poteva venire a qualsiasi ora e in qualsiasi
luogo. Una volta sicura di non avere gli occhi lucidi e riacquistate le
redini dei suoi pensieri aveva abbassato lo sguardo e si era resa conto
di non essere da sola. Non aveva fatto in tempo a dirgli di andarsene,
che già non sopportava di avere dei momenti di debolezza,
permettere che qualcuno addirittura vi assistesse era troppo, quando
lui l'aveva guardata negli occhi e le aveva fatto una domanda che non
si sarebbe aspettata in quel momento, soprattutto non da lui.
"Perché non ti piace essere guardata?"
Allora
l'aveva guardata negli occhi e gli aveva detto: " Non è
vero". Lui aveva accennato un sorriso, "Non
potrai nasconderti all'infinito" le aveva detto, e lei non
era riuscita a sorridere, si era alzata ed era tornata dagli altri.
Aveva
evitato di guardarlo per giorni, lo ignorava, sperando di riuscire a
ignorare anche la speranza che stava nascendo in lei, speranza di essere notata, ammirata, capita.
Erano
tornati a rivolgersi la parola a scuola. Si stava bene in giardino, con
lo sguardo rivolto al cielo e il sole a riscaldarti come solo lui sa
fare. "Perché non ti piacciono le parole?" chiese lui. Si
era seduto accanto a lei, e nemmeno questa volta lei si era accorta del
suo arrivo. "Cosa ti fa pensare una cosa del genere?"
replicò lei, infastidita da una domanda così
diretta. "Parli solo se strettamente necessario" disse lui, "quindi ho
pensato che, o non ti piacciono le parole o non ti piacciono le persone
a cui ti rivolgi. E siccome dovresti odiare troppo persone, ho scartato
la seconda ipotesi". "Ci pensi parecchio a me"
disse lei scherzando. Lui rimase stupito da quella frase, non l'aveva
quasi mai sentita parlare con leggerezza, dietro quello che diceva
c'erano sempre mille significati. "Più di quanto dovrei" ammise
guardando per terra, come se quella confessione fosse qualcosa che
nemmeno lui riusciva ad accettare. Lei fu come scottata da quella
affermazione, per un secondo si irrigidì e gli occhi le si
spalancarono, "Tra tutte le ipotesi che hai fatto, non c'è
il motivo più semplice e banale per cui le persone non fanno
le cose" disse per ritornare all'argomento precedente, terreno
più neutro per entrambi. "E quale sarebbe? Penso tu abbia un
concetto di semplice e banale tutto tuo" "Semplicemente",
iniziò lei ignorando le sue ultime parole, "non mi piace
parlare". "È bello il silenzio" aveva affermato lui, poi
l'aveva guardata negli occhi, aveva sorriso, e lei aveva pensato che
avevano tutti ragione, la primavera dava
alla testa.
Il
giorno in cui aveva smesso di nascondersi era uno
qualunque. Che poi, lei non aveva propriamente smesso, le sue difese erano
più che altro cadute. Inaspettatamente.
Lei
era più distratta del solito, si perdeva dietro a pensieri
che avrebbe preferito non avere, riguardanti una testa mora e due occhi
verdi che non smettevano di guardarla, e non lo aveva sentito
avvicinarsi, si era resa conto che non lo sentiva mai quando si
avvicinava. Lui doveva aver fatto una battuta, ma lei non aveva sentito
nemmeno quella, troppo presa a tenere gli occhi chiusi, a non ammettere
a se stessa la motivazione per cui la sua testa fosse così
piena di lui, e mentre lei si stava voltando per guardarlo, lui aveva
usato l'unica arma che sarebbe stata in grado di distruggerla. "Ogni
tanto puoi anche smetterla di essere così...così cervellotica! Sei anche maledettamente intelligente, cavolo! Possibile che non ci arrivi?!". Aveva
sentito il momento in cui il muro che si era eretta intorno era
crollato pezzo per pezzo, ogni mattone per terra equivaleva a occhi
sempre più lucidi e mani tremanti, cuore palpitante e
respiro affannoso. Prima che l'inevitabile accadesse davanti a occhi
indiscreti, occhi verdi che non smettevano di guardarla, era corsa in
bagno. Mentre la gola aveva iniziato a bruciarle per i singhiozzi
trattenuti, le lacrime avevano iniziato a scorrerle sul viso. Odiava
piangere, ma non riusciva a smettere. Proprio quando stava per entrare
in un gabinetto, per poter piangere senza il pericolo di essere vista
da qualcuno, ma tanto per rendere la cosa ancora più
umiliante, fu strattonata per un braccio. Lui era di nuovo davanti a
lei, ma non fece in tempo a dirgli di andarsene, di lasciarla da sola e
di smetterla di parlarle, di guardarla, che si ritrovò
con le sue mani tra i capelli e coinvolta in un bacio, tenero, dolce,
uno di quelli che lei avrebbe definito del buongiorno o della
buonanotte. Quando si staccarono lei lo guardò negli occhi,
e lui sorrise. "Scusami, non volevo dire quelle cose" le disse mentre
le asciugava le lacrime, "è solo che non sopporto quando
guardi un punto ma non vedi niente, quando ti isoli. Penso sempre che
in quei momenti tu stia guardando i tuoi fantasmi negli occhi, e non
capisco perché loro si e me no". Lei rimase colpita da
ciò che aveva detto, "Hai ragione, loro riesco a guardarli
negli occhi, ma solo per impedire che si avvicinino"
confessò abbassando lo sguardo. Lui le mise due dita sotto
il mento e lei tornò a guardarlo negli occhi. "Mi prometti
una cosa? Quando vedi i tuoi fantasmi, guarda me negli occhi, vedrai
che andranno via". Fu il suo turno di sorridere e di baciarlo, lui lo
prese come un si.
Qualche
giorno dopo, giorni pieni di domande e risposte, "dimmi quello che ti
passa per la testa, a me
piace il silenzio, ma è bello sentire anche qualcosa di profondo", lei si
ricordò di quello che era successo quel giorno, il giorno da
cui non si sarebbero più potuti tirare indietro.
"A
che cosa non arrivo?" gli chiese guardandolo negli occhi. Stava
imparando a parlare e guardare, anche se preferiva di gran lunga
osservare e agire. Lui la guardò stralunato. "A cosa ti
riferisci?" "L'altro giorno mi hai detto che nonostante il mio, ehm,
modo di essere, non ci arrivo. Quindi volevo sapere, cosa è
che non capisco?" gli chiarì lei. Lui arrossì,
forse ricordando quella giornata, o forse per essersi lasciato sfuggire
quell'affermazione che avrebbe voluto tenere per sé. "Vuoi
davvero che te lo dica io?" "È davvero così
terribile?" "No, anzi, lo è solo per te stessa" "Dai
su, dimmelo" "Accettalo, sei speciale".
***
*questa
verità non può che essere stata detta dal grande
William Shakespeare.
Che
dire di questa storia? Ci tengo e ne sono soddisfatta come di ogni cosa
che mi viene dal cuore. Ho scritto il titolo in verde forse sperando
che qualcosa di quanto scritto accada veramente. E' stato difficile
provare a dare un ordine a questa storia, un po' perchè
parlando di sentimenti non esiste, un po' perchè, vivendo di
quelli, forse proprio non lo concepisco. Ma a prescindere da me, siete
voi che dovete sentirvi coinvolti e, perchè no, anche
capiti. Quindi, ecco a voi.
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