Sussurra
nello specchio
riflesso di città
incantate.
Sospeso nel tempo. Sospeso.
8 Febbraio 1996
Milano (Italia) – Palatrussardi
L’Italia.
Non
ricordava nemmeno un motivo valido per volerci essere. Nemmeno uno.
L’Italia
non gli piaceva. Non gli era mai piaciuta. Non gli sarebbe piaciuta
fino alla
fine dei suoi giorni. La gente faceva casino – feeesta!
– era invadente, impicciona, chiacchierava troppo e lui si
sentiva…aggredito. Come
se da un
momento all’altro dovessero saltargli addosso, spogliarlo,
violentarlo nel
corpo, oltre che nell’anima.
Sotto
il palco dei loro concerti c’era sempre qualcuno che pensava
a lui come ad una
puttana. Ne era consapevole. Non è che non si rendesse conto
dei rischi che
assumeva su di sé nel presentarsi in un “certo
modo”. Nell’ultimo anno la sua
vita era stata talmente condizionata da quella semplice
verità, che anche a
volerla ignorare gli si sarebbe incollata addosso come le gocce di
sudore che
gli impregnavano i vestiti.
Eppure
c’era una logica anche in quel gioco sporco, delle regole da
seguire e che le
persone attorno a lui conoscevano bene tanto quanto lui stesso.
Finché
giocavano secondo le regole era ok. Fastidioso ma ok.
Ma
gli italiani…quelli non avevano idea di quando piantarla, di
dove fermarsi!
La
folla oceanica all’interno del palazzetto aveva riscaldato
l’aria fino a
renderla incandescente. I Placebo si erano trovati davanti un popolo
curioso e
attento, che aveva sollevato in su sguardi carichi di aspettative.
Qualcuno li
conosceva e aveva accennato il ritornello delle canzoni, strappando a
Brian e
Stefan un sorriso compiaciuto. Qualcuno li scopriva quella sera per la
prima
volta, gli sguardi si allargavano, brillanti, le bocche si aprivano su
“o”
stupite ma già stregate. Brian, sudato e soddisfatto,
allungava verso di loro
braccia magre, promettendo abbracci che non avrebbe mai concesso ma che
facevano fremere comunque il corpo di chi, naso
all’insù, osservava la sua
figura minuta saettare impazzita da un angolo all’altro del
palco. Parole
avvelenate sulla bocca di una bambolina di porcellana delicata, un
azzardato
mix che poteva ugualmente far rabbrividire animi conformisti o
suscitare sussurri
lascivi nei più audaci.
Dietro
le quinte David sollevò il mento, fieramente, e si
voltò verso Eno per
incrociarne lo sguardo corrucciato alla vista dello spettacolo che il
brunetto
stava dando di sé sul palcoscenico. Silenziosamente, il
cantante cercò il suo
assenso, una muta ammissione di sconfitta davanti alla
capacità eccezionale di
quella band di ragazzini di attirare l’attenzione su di
sé in modo complesso.
Il produttore non gliela concesse; braccia strette in una posa rigida,
gli girò
le spalle per tornare all’interno del backstage.
David
ridacchiò e tornò a guardare lo show.
Eric
Carlsen era un gigante biondo di circa novanta chili. Alto quasi due
metri. Largo dai cinque ai sei.
…Brian
valutò meglio quell’ultima misura, inclinando il
capino di lato in quella posa
ambigua e sfrontata che strappava consensi con la facilità
con cui avrebbe
strappato ceffoni ad un genitore arrabbiato.
Eric,
però, rise.
Nella
traiettoria dello sguardo del cantante, il bestione biondo occupava
buona parte
della visuale, impedendogli di cercare con gli occhi Stefan e Steve che
lo
avevano preceduto all’after show e dovevano essersi
già imboscati da qualche
parte in compagnia di alcool e cosce nude in egual misura.
-Sei
una forza della natura, ragazzino!- affermò Eric baldanzoso.
Quando
gli si fece ulteriormente addosso, Brian realizzò che la
larghezza doveva
essere più sui due metri e mezzo.
-Una
vera forza della natura!- ribadì l’altro.
Un
braccio attorno alle spalle esili di Brian, il peso di quei muscoli
tatuati lo
schiacciò a terra molto più di quanto avrebbe
gradito. Eric puzzava di birra e
di fumo.
…l’odore del fumo
convinse Brian
che poteva tollerarlo.
E
poi, l’ampiezza della cassa toracica dell’altro si
era ridotta ad un metro e
settanta.
-Uno
come te farà strada! Per Dio! non mi è capitato
spesso di vedere troiette
altrettanto brave a muovere il culo sul palco!
Brian
tirò la bocca in un sorriso cattivo, incassando male il
commento e desiderando
ferocemente liberarsi dal peso opprimente del braccio
dell’uomo. Resistette a
quell’impulso solo perché non era il caso di
litigare con uno così grosso
quando non c’era Steve a coprirgli la ritirata.
-Immagino
che sia un modo contorto per farmi un complimento.- miagolò
stizzito.
Eric
rise, battendo con il palmo aperto contro le sue scapole.
Lasciò lì la mano,
spingendolo leggermente – a Brian
sembrò
di essere investito da una carica di rinoceronti incazzati
– e
direzionandolo verso l’interno della sala, la musica, il bar
e mucchi di corpi
accaldati e scalmanati.
-Ti
meriti una bella bevuta, ragazzino! E ti meriteresti anche una bella
scopata.-
ci aggiunse dopo un istante.
Brian
valutò se la sua fosse una proposta, rabbrividendo di orrore
all’idea, ma Eric
non lo guardava nemmeno e sembrava solo sinceramente divertito da tutta
quella
situazione. Quando poi approdarono al banco del bar e il bestione ebbe
catturato una bionda tutta curve che presentò come
“una sua carissima amica di
cui non ricordava il nome”, Brian si rilassò. La
groupie – perché tale
era e c’erano pochi cazzi al riguardo –
gli sorrise
ammiccante e lui la valutò con un’occhiata
d’insieme, giudicando che fosse
forse un po’ troppo finta, ma decisamente passabile per la
serata. Intravide i
movimenti di Eric come in un flash, la bustina trasparente che lui
ficcò in
mano a lei prima che si arrampicasse agilmente sullo sgabello di fianco
a
quello occupato dal cantante. Le gambe sinuose della ragazza invasero
per
intero il suo sguardo e Brian si ricordò della bustina solo
un’oretta più
tardi, quando ricomparve magicamente dal reggiseno di lei mentre erano
chiusi
nella sua stanza in albergo.
Brian
osservò la tipa preparare con cura le strisce bianche sul
ripiano del comodino
accanto al letto e si disse che Eric era proprio un bravo ragazzo.
9 Febbraio 1996
Bologna (Italia) – Palasport
Eno
li raggiunse prima del sound check. Con lui c’era un uomo che
Brian, Stefan e
Steve avevano intravisto il giorno prima dietro le quinte e che,
adesso,
scherzava e rideva con il produttore con una familiarità che
strappò al
cantante un moto di stizza. Cercò di farsela passare prima
che i due li
raggiungessero ma, per sicurezza, si allontanò al loro
arrivo con la scusa di
andare a cercarsi una bottiglietta d’acqua.
Quando
tornò, il tizio stava chiacchierando con Stefan e Steve, e
tutti e tre
sorridevano, tanto.
-Brian.-
lo apostrofò Eno come se, davvero, lo avesse visto in quel
momento per la prima
volta.- Lui è Levi.- presentò.
Tizio
gli allungò la mano e Brian fece tanto da stringerne la
punta delle dita con la
propria, come se un contatto maggiore non fosse pensabile.
Tizio
fece finta di non accorgersene – un
punto
per lui – Eno storse il naso ed ingollò
un commento (meno trecento punti per lui, ma
Brian sospettava che il proprio posto
nella classifica personale del produttore stesse rapidamente peggiorando).
-Vi
ho visti, ieri sera. Grande show!- si complimentò Levi,
ignorando la reazione
del produttore.
Brian
scoccò ad Eno un’occhiata trasversale,
soddisfatta, e poi sorrise amabilmente
all’uomo.
-Sì.
Grazie.- fece le fusa, con il medesimo tono che avrebbe usato per dire
“ahah,
niente che non sapessi”. E in effetti, fu chiaro a tutti che
era esattamente il
significato che attribuiva a quel ringraziamento.
Brian
Eno scalpitò, strisciando la suola delle costose scarpe
italiane a terra e
richiamando così la loro attenzione.
-Beh,
Levi è il vostro tecnico.- scoccò brusco.
Brian
lo fissò interrogativamente, ma fu Stefan a chiedere di che
“tecnico” stessero
parlando.
-Dave
vuole che abbiate un tecnico del suono per voi. Uno che vi segua in via
esclusiva.- spiegò rapido l’uomo. Levi sorrise di
rimando a Brian quando lui si
voltò a fissarlo, ancora perplesso.- Levi è
quello che ha più esperienza e
Dave…noi –
corresse a malincuore,
confessando di aver comunque preso parte a quella scelta.- pensiamo che
potrebbe aiutarvi a sistemare le cose in modo che funzionino.
-Sarà
un vero piacere lavorare con voi.- si affrettò a
rassicurarli Levi.
Brian
annuì; all’improvviso l’astio di Eno non
era più così importante e il sorriso
nuovo che rivolse al tecnico era sincero in modo disarmante, tanto che
l’uomo
tentennò nel ricambiare la stretta di mano autentica che lui
gli offrì.
-Grazie
fin d’ora, Levi. Siamo felici di poter contare sulla tua
esperienza.- ammise
caldamente.
Brian
aspettò che David e la sua band finissero di esibirsi.
Dalla
platea salivano le urla isteriche dei fan e una cascata di flash
accompagnò il
saluto teatrale con cui il “Duca Bianco” si
accomiatò dal pubblico. Il suo
sorriso aveva un ché di magnetico, considerò
Brian affascinato: quando David
Bowie si voltò verso il backstage i loro sguardi
s’incrociarono a metà strada,
in uno spazio trasparente fatto di irrealtà che avvolse i
sensi di Brian
ottenebrandoli parzialmente. Per un secondo o due fu certo in modo
istintivo
che quello scintillio soddisfatto e accogliente negli occhi
dell’uomo fosse per lui.
Fu una sensazione tanto
improvvisa quanto fugace. L’attimo dopo i passi di David
avevano raggiunto il
primo dei pochi gradini che portavano giù dal palco e, ai
piedi di quella corta
scalinata, Eno lo aspettava a braccia spalancate.
Avrebbe voluto ringraziarlo
personalmente.
Brian
lo pensò.
Levi si era rivelato un aiuto
prezioso e per loro era stato un piacere collaborare con una persona
tanto
competente ed accorta. Era stato immergersi in un mondo completamente
diverso,
fatto di una professionalità autentica che un po’
gli mancava, ancora...
Guardò
il produttore e il cantante mentre si avviavano assieme verso i
camerini. Il
ristretto gruppo di musicisti che suonavano con Bowie li seguiva da
presso, con
loro c’era un giornalista e il tour manager. Quando sparirono
nel corridoio,
Brian si staccò dal muro che lo sorreggeva, sciolse le
braccia e cercò Stefan.
Era
al sesto o settimo giro quando Eric comparve nella sua visuale.
Brian
incespicò sui proprio piedi, non troppo stabile
né sufficientemente sobrio, e
sollevò la testa a rallentatore, percependo quel movimento
con precisione: le
ossa e i muscoli del collo e delle spalle che si tendevano
dolorosamente per
accompagnarlo, la nuca, umida di sudore, che urtava contro la pelle
nuda intorno
alla maglietta scollata… Scostò un ciuffo di
capelli dagli occhi per
assicurarsi che il sorriso dentato fosse proprio quello che ricordava e
si
tolse ogni dubbio quando la mano dell’altro gli si
abbatté rumorosa e pesante contro
la schiena.
-Ragazzino!-
lo apostrofò con la solita malagrazia il gigante biondo.
Brian
storse il naso. Forse doveva comunicargli quanto fastidio gli desse
essere
chiamato “ragazzino”.
Si astenne
quando lui gli fece scivolare in mano un sacchettino pieno di pillole
colorate.
-Fatti
un giro e divertiti.- gli strinse l’occhio il bestione.
Brian
tentennò. Poi ricambiò il suo sorriso.
Corri.
Corri.
…corri, corri, corri!
A
Lione arrivarono con un giorno d’anticipo.
Anche
se era Febbraio li accolse un sole talmente intenso che venne loro
voglia di
sostare nel piazzale dell’albergo.
Eric
e gli altri della crew erano con loro, qualcuno mise in mezzo
l’idea di andare
a fare un giro e gli altri la recepirono con entusiasmo. Mentre
camminavano in
cerca di un posto dove sbronzarsi alle quattro del pomeriggio, si
resero conto
che Lione era un posto di merda e che nessuno di loro ci teneva davvero
a fare
il turista.
Videro
la limousine di Bowie ed Eno passare sulla strada principale. Stefan
diede un
colpetto alla spalla di Brian perché si voltasse, lui
lasciò perdere la vetrina
del negozio in cui si stava specchiando e girò lo sguardo
verso l’auto nera che
sfilava lenta ed elegante. La trovò pacchiana, ma poi
qualificò il nodo nel
proprio stomaco come sana gelosia e la cosa lo mise in allarme molto
più di
quanto si sentisse pronto ad ammettere.
Da
quando erano partiti non c’era stata occasione di incrociare
David se non per
sbaglio e nessuna di parlargli da solo.
…per
la verità, nessuna di parlargli
e
basta.
A
Brian stava cominciando a dare noia.
In
fondo avevano un patto, loro due, e il non sapere che gioco stesse
giocando
l’altro cominciava a disorientarlo. Se, poi, c’era
qualcosa che non tollerava
bene, era il sentirsi spiazzato a quel modo.
-Eric.-
chiamò mentre il gruppo riprendeva a muoversi pesante,
vagabondando sbandato
senza una meta precisa.
Il
bestione si girò e con lui Stefan. Brian si
sforzò d’ignorare gli occhi del
proprio bassista e si concentrò sullo sguardo azzurro e
acquoso del gigante
biondo.
-Tu
sai perché David e gli altri non si fanno mai vedere?-
chiese, accostandosi
all’altro in modo da poter tenere un tono abbastanza basso da
non essere udito
dagli altri.
La
mandria procedeva a passi strascicati e tra risate sguaiate. Steve
afferrò
Stefan per il polso e, gridando qualcosa di volgare, lo
trascinò in mezzo al
gruppo. Lo svedese fece finta di prendere parte al loro gioco e Brian
se ne
disinteressò.
-Ah,
ma loro fanno sempre così!- esclamò Eric, senza
mostrare altrettanta
discrezione ma alzando il tono un po’ troppo.- Mica ci
stanno, con noi altri!
Siamo feccia per quelli… L’hai visto che muso del
cazzo ha Eno?! Un testa di
cazzo simile difficilmente la si becca in giro!- gli toccò
una spalla. Brian si
scostò malamente, ma lui non ci fece caso.- Dai retta a me,
Brian, tu sei
meglio di quelli.
Pensò
che aveva ragione, anche se lui glielo diceva per i motivi sbagliati.
L’orgoglio gli pungolò la pancia alla stessa
altezza della gelosia. Intascò le
mani nei jeans e allungò il passo per raggiungere il gruppo.
-Pensavamo
di scendere in centro per andare a farci un hamburger e una birra tutti
assieme. Charles ha detto che c’è un posto dove
andare a ballare, più tardi.
Brian
annuì senza ascoltarlo davvero. Stefan se ne accorse e
sbuffò, richiamando la
sua attenzione su di sé.
-Che
c’è?!- sbottò il cantante stizzito,
allargando gli occhi.
-C’è
che faccio prima a scriverti una cartolina se voglio parlarti!- ritorse
nervosamente il bassista.
-Non
dire stronzate…
-Non
dico stronzate, Brian! E’ da stamattina che praticamente non
caghi né me né
Steve e passi tutto il tempo con quella testa di cazzo di Eric!-
replicò
Stefan, seccamente.
Brian
si innervosì.
-Sei
geloso, Olsdal? Non mi parevi particolarmente dispiaciuto mentre facevi
la
checca in calore con Tecofski.- lo
aggredì prontamente.
Stefan
si fermò al centro del corridoio. Brian due metri
più
avanti. Si voltò. Lo sguardo del bassista era sinceramente
ferito. Sinceramente era un
avverbio che su
Stefan stava drammaticamente bene e questa era una cosa che mandava
Brian in
bestia in modi paurosi. Odiava il fatto che Stefan fosse sempre sinceramente qualcosa; avrebbe preferito
averlo decisamente più stronzo e meno sensibile alle sue
parole.
-Adesso
non cominciare!- provò a scuoterlo, sollevando gli occhi
al soffitto in modo teatrale.
-…sei
proprio una merda.- chiosò Stefan freddamente.
In
due passi lo aveva superato. Brian sospirò pesantemente
osservando la sua schiena allontanarsi lungo il corridoio.
-Stef.
Piantala di fare la femmina mestruata!- lo richiamò
svogliato.
Quando
non ottenne alcuna risposta, si strinse nelle spalle.
‘Fanculo! se la sarebbe fatta passare o al diavolo!
Afferrò
la maniglia della porta della propria camera tirando con
forza mentre ancora la chiave era nella toppa. Per poco non la
spezzò
all’interno della serratura. Si lasciò scappare
una bestemmia, poi sbatté
violentemente il battente alle proprie spalle e scalciò via
le scarpe,
camminando a piedi nudi sulla moquette rossa. Stava ancora sbuffando
stizza e
cercando di stabilire se volesse o meno concedersi una doccia quando
sentì
bussare delicatamente. Convinto fosse Stefan in preda al pentimento
spalancò la
porta con un sorriso enorme e vittorioso sul volto.
Lo
sguardo profondo e calmo di David lo inchiodò
sull’uscio,
raggelandogli il sangue come una doccia fredda.
Era
troppo che non si trovavano così vicini. Brian
avvertì il
profumo costoso dell’altro investirlo e si sentì
improvvisamente inadeguato nei
propri jeans neri e maglietta corredata da una scritta stupida e
infantilmente
provocatoria. Cercò in fondo al proprio stomaco un
po’ di coraggio e fece
sparire il sorriso, per rivestirsi di una strafottenza ostentata che,
in parte,
rifletteva la delusione che realmente provava in
quell’istante.
-Ah.-
scoccò blando.- Sei tu.
La
constatazione asettica fu accompagnata dallo scivolare delle
dita lungo la maniglia. Brian si fece indietro con indifferenza
studiata, lasciando
la porta aperta e camminando all’interno della camera
ignorando volutamente
l’altro. Gli occhi di David gli bruciavano la schiena ad ogni
passo, ma
resistette all’impulso di voltarsi, accontentandosi di
avvertire “a pelle” che
lui era ancora lì.
Quando
il battente si richiuse con un click soffocato ne fu
certo e si girò.
-Brian.-
lo salutò David accondiscendente ai suoi modi
capricciosi.
-Dave.-
soffiò lui, accomodandosi sul piano della scrivania
accostata al muro opposto.
Aspettò,
senza desiderare rendergli in alcun modo il compito più
facile.
La
sua unica mancanza, si disse, fu il lasciarsi sfuggire
un’inappropriata occhiata al letto a due piazze che
troneggiava di fianco a
loro: David seguì il suo sguardo e Brian ebbe il sospetto
che la sua
espressione assumesse una sfumatura divertita che non gli piacque
affatto.
Fu
solo un istante, comunque. Quello successivo i loro sguardi
si sostenevano con una tranquillità meramente apparente.
-Solo
Brian…intendo Eno, mi chiama “Dave”-
osservò Bowie
pigramente.
Un
sorriso a mezzo incattivì l’espressione del
più giovane.
David lo ignorò e ignorò anche la circostanza che
la propria notazione fosse
caduta nel vuoto.
-Come
vi trovate?
-Benissimo,
grazie.- ribatté Brian, pronto ed impeccabile.
-Ne
sono felice.
-E’
reciproco.
Silenzio.
David
Bowie si spostò nella camera, raggiunse il salottino in un
angolo, scostò la poltrona e si accomodò. Brian
gli ruotò addosso lo sguardo
senza perderlo di vista un solo istante.
-Mi
ha detto Levi che state lavorando molto bene assieme.
-Molto.
-Trovo
che siate stati incredibili in Italia.
-Troppo
buono.
-Intendi
continuare a lungo?
-A
fare cosa?
L’ingenuità
perfetta nel porre quell’ultima domanda strappò a
Bowie una risata istintiva e genuina. Il modo di Brian di scivolare tra
le
espressioni con naturalezza ma, allo stesso tempo, con tanto
esibizionismo era
sconvolgente, incredibile. Lo trovava una delle cose più
affascinanti con cui
avesse mai avuto modo di interagire.
-Ero
venuto ad invitarti a cena.
-A
cena…- ripeté Brian senza fare
alcunché per incoraggiarlo
neppure stavolta.
-Sì.
Solo noi due, s’intende.
-Oh!-
Una “o” meravigliosamente tonda atteggiò
quella boccuccia
pronunciata che, perfino senza rossetto, manteneva intatta la propria
carica di
malizia sfrontata. Gli occhioni sbatterono le ciglia lunghe e nere un
paio di
volte, poi Brian sorrise.- Quel
tipo
di cena.- considerò.
Cercò
in tasca le sigarette, lasciando a David il tempo di
soppesarlo con lo sguardo, libero dall’essere a sua volta
sottoposto allo
stesso esame: in qualche modo, questo costituiva un punto per Brian e
Bowie lo
sapeva.
-Se
dicessi di no?
-Allora
non saprei davvero cosa
dovremmo fare a cena da soli, io e te.- rispose seccamente lui,
sollevando la
testa troppo rapidamente per essere davvero indifferente alla cosa come
tentava
di mostrarsi.
Ogni
tanto dimostrava ancora la propria inesperienza.
-Parlare.-
ribatté David scrollando le spalle.
-Parlare!-
ripeté Brian ironico.- Non hai avuto molto da dirmi
da quando siamo partiti.
-No,
infatti.- assentì quietamente l’altro.
Brian
avvampò. Non voleva farlo, ma all’improvviso la
gelosia e
l’orgoglio ci si erano messi di mezzo in modo non previsto.
-Bene.
Felice di sentirtelo dire!- sibilò rabbioso.
David
non si lasciò impressionare, affrontando con
tranquillità
il suo sguardo.
-C’è
qualcosa che non va, Brian?- lo interrogò.
L’autorità
nel suo tono, sebbene pacato, era tale che Brian si
sentì nuovamente un moccioso inadeguato. Quella sensazione
bastò a strozzargli
in gola le parole velenose che un attimo prima stava pensando e che,
invece, si
trasformarono in un nervoso mordicchiare di labbra ed un biascichio
stizzoso ma
ammansito.
-No.
Niente.- Si prese qualche momento prima di capitolare, ma
lo fece perché, in realtà, non desiderava altro.
David
Bowie lo tirò d’impaccio intervenendo prima che si
dovesse
arrendere esplicitamente.
-Quindi…mi
permetterai di invitarti a cena?- insistette
galantemente.
-Quel
ragazzino va addomesticato.
-Non
è un gatto randagio!
David
considerò seriamente l’osservazione di Eno prima
di
rispondere. Osservò l’altro versarsi da bere da
una bottiglia sfaccettata,
accomodato tronfio dietro il bancone del mobile bar che troneggiava nel
salotto
della suite.
La
stanza di Bowie aveva le dimensioni di un appartamento e lo
sfarzo di una reggia, ma la cosa più incredibile di tutte
era l’assoluta
mancanza di interesse che l’occupante di quella camera
mostrava per tutto
questo. Se fosse stato per David avrebbe scelto una camera molto
più modesta.
-In
un certo qual senso…- ridacchiò alla fine.
Eno
gli scoccò uno sguardo da sopra l’orlo del
bicchiere. Il
whisky scivolò rapido giù per la gola, bruciando
la lingua e il palato;
riscaldò la pancia ma provocò anche una fitta
bruciante, rammentandogli che
l’ora di cena si avvicinava e che lui non mangiava da troppo
per potersi
concedere di bere.
-Perché
sei così ostile verso di lui?- indagò David
pacatamente.
-Perché
non ha alcun talento.- fu la risposta pronta del
produttore.
-Io
penso che tu lo stia valutando superficialmente, che ti stia
facendo condizionare da quello che vedi senza capire che ha un
significato più
profondo di quanto appare…
-Dave!-
soffiò affranto Eno. Posò il bicchiere prima di
finirne
il contenuto, l’acidità di stomaco era veramente
troppa per voler tentare la
sorte.- Parliamoci chiaramente.- invitò, mani aperte contro
il piano di radica
del mobile bar.- E’ un tuo clone mal riuscito. Ci sono
centinaia di mocciosi
come lui pronti a vestirsi di strafottenza e tutine con le paillettes.
Non ci
vuole molto a cantare quanto si è trasgressivi quando sei
certo che questo ti
farà guadagnare rapidamente un posto nel cuore di tanti
ragazzini insicuri.
-Non
mi imita affatto!- osservò David sinceramente stupito,
sollevando le sopracciglia su un’espressione perplessa che
strappò una risata
all’altro.
-Ti
prego!- ironizzò Eno.
-Non
mi credi?
-Guardalo,
Santo Cielo! Posso capire che i tuoi sensi
siano…confusi, ma Dio,
Dave!
-Non
tutto ciò che è ambiguo è
riconducibile a me.- osservò
Bowie con una punta di stizza autentica nel tono.
Eno
si chiese pigramente se non avesse esagerato, finendo per
offendere l’amico. Valutò la cosa mentre si
spostava verso il salottino, in
mano un portasigarette d’argento da cui estrasse una
sigaretta preparata a
mano, la posò tra le labbra ma si prese tempo prima di
accenderla. Trovò posto
tra i cuscini multicolore di un divano foderato di seta verde e
sollevò gli
occhi sull’altro, che sostava pigramente di fianco ad una
finestra ampia,
braccia al petto, attendendo di capire come si sarebbe ulteriormente
evoluta la
discussione.
-Che
cos’è che ti affascina tanto di lui?- decise di
ritorcergli
contro il produttore.
Bowie
sollevò le sopracciglia, stupito dalla domanda ma anche
dal non saper fornire una reale risposta. Su questo Eno aveva ragione,
in
qualunque altra circostanza l’accordo tra lui e il ragazzino
sarebbe già stato
saldato mentre con Brian Molko David non provava alcuna fretta di
riscuotere la
sua parte. Ed effettivamente, ci teneva che i Placebo facessero la loro
figura
sul palco e che riuscissero a strappare l’ombra di un
consenso anche all’ottuso
amico che sedeva nel suo salotto.
-Cosa
c’entra questo, adesso?!- borbottò contrariato,
senza
rispondere.
-Vorrei
capire quanto sei condizionato nel valutare questa
situazione…- fu la quieta ammissione di Brian Eno.
-Oh,
Santo Cielo!- sfiatò Bowie.
-Dave.
Non ti sto impedendo niente, ho accettato che li portassi
con noi anche se mi è sembrato eccessivo, ma non capisco
davvero cosa tu riesca
a vedere in loro.
-In
lui.- corresse David spiccio.
-…in
lui.- gli concesse l’altro.- Cerco solo di capire se
davvero mi sto sbagliando.
-Temo
sia troppo complicato.
-Quello
che è complicato si vende molto male!- ironizzò
Eno
ridacchiando e rilassandosi all’indietro contro lo schienale
del divano.-
Dovresti rifletterci.
David
Bowie annuì. Ciondolò fino al centro della stanza
e da lì
al mobile bar, dove indugiò davanti alla bottiglia di
whiskey ancora aperta.
Stabilì che poteva aspettare che si facesse più
tardi e tornò a guardare
l’altro.
-E’…un
controsenso. E’ tutto un controsenso, in lui. E’
come se
nascondesse in bella vista tutto quello che vorrebbe che gli altri non
trovassero mai e poi mai, il suo io più vero.-
mormorò con difficoltà
evidente.- Sto ipotizzando!- esclamò subito dopo, quasi a
ritrattare la
profondità della sua prima analisi. Gesticolò nel
farlo, giocando
distrattamente con il tappo a diamante della bottiglia sfaccettata: era
brutto.- Ne so quanto ne sai tu o chiunque altro, su di lui, e posso
assicurarti che non è facile superare quella barriera
di…come l’hai definito?-
sghignazzò divertito, ritrovando in un momento la
complicità e l’intesa con la
sua controparte razionale; anche Eno si concesse una risatina.-
“un ragazzino
vestito di strafottenza e paillettes”! Beh,- riprese
muovendosi anche lui verso
il salottino per accomodarsi a sua volta- sono convinto che ci sia
altro oltre
le paillettes e sono curioso di vedere cos’è.
Brian
Eno accese la sigaretta e fece il primo tiro, godendosi il
voluttuoso piacere del fumo caldo che scendeva lungo la gola. Lo
fissò di sbieco,
sornione, deciso a non lasciargli il campo senza averlo preso in giro
– e in
contropiede – almeno un po’.
-Ammetti
che quello che vuoi…scoprire
si trova sotto il vestitino nero che gli hai visto addosso la prima
sera.-
pretese.
David
rise. Ma non rispose affatto.
Come
per il loro primo incontro, la soluzione che David Bowie
aveva adottato implicava il giusto grado di riservatezza. Il ristorante
era
lussuoso quanto basta ma non troppo famoso e, comunque, frequentato da
una
clientela che non aveva alcuna attitudine al jet-set. Il locale era
dotato di
un grazioso giardino d’inverno, nascosto nella parte
più interna della sala,
che era stato interamente riservato all’illustre ospite e la
cui unica porta di
accesso era rigorosamente sorvegliata da un omone in abito scuro che
Brian
riconobbe all’istante: Jeff, il corpulento autista di Londra.
Evidentemente,
anche in tour Bowie preferiva non rinunciare alla discrezione di un
personale
rigidamente selezionato e, quindi, fidatissimo.
Il
bestione lo accolse con un cenno del capo a mo’ di saluto.
Brian fu indeciso se rispondergli, per mera cortesia, ma
mancò i tempi quando
l’altro si affrettò ad aprirgli la porta per farlo
passare. Così rinunciò a
sembrare meno scortese e s’infilò attraverso il
battente.
Il
giardino d’inverno era completamente chiuso; su tre lati era
circondato
da serre trasparenti, strette, in cui fiorivano orchidee fuori stagione
e
banani di dimensioni ridottissime. Un unico tavolo apparecchiato era
appoggiato
contro una delle serre; le porcellane, i cristalli, le posate, la
biancheria…tutto aveva la stessa compostezza, elegante e
sobria. David Bowie
era in piedi e gli dava le spalle, sostando vicino ad una colonna che
reggeva
un unico vaso in cui un ciliegio bonsai sfoggiava fiori rosa
decisamente in
anticipo sui tempi. Le mani dell’uomo erano intrecciate
dietro la schiena,
arricciando sui muscoli tesi, leggermente piegati in avanti per
permettergli di
annusare il ciliegio, le code di una giacca dal taglio formale ma
realizzata in
un tessuto di un grigio cangiante. Se si era accorto
dell’arrivo di Brian,
David lo mascherò bene, rimanendo in quella studiata posa
per il tempo
sufficiente al più giovane a riempirsi gli occhi di lui e
sentire il proprio
corpo prendere dolorosamente coscienza dell’attrazione che
esercitava.
Brian
si obbligò a riprendere in fretta il controllo di nervi e
sensi e, quando David Bowie si voltò, il suo viso era una
maschera impassibile
ed indecifrabile come sempre.
L’uomo
più anziano sorrise.
Brian
si accorse che era stato attento a curare tutti i
particolari del proprio aspetto. Appariva riposato, in forma, rilassato
e, in
accordo a quanto li circondava, sufficientemente elegante pur
nell’estrosità
dell’abbigliamento. Sciolse le mani ed allargò un
braccio, cedendogli con un gesto
galante il passo per prendere posto al tavolo.
-Sono
felice che tu abbia accettato di cenare con me,- esordì
banalmente il suo ospite quando si furono entrambi seduti.- anche se
sospetto
di averti contrariato in qualche modo…- suggerì
dopo con casualità studiata.
Brian
valutò la possibilità di rispondergli
sinceramente e
dirgli quanto fastidio provava nell’essere trascurato e
lasciato da solo in
mezzo “alla marmaglia”. Poi giudicò che
sarebbe stato troppo infantile perfino
per lui e non voleva, comunque, dargli la soddisfazione di sapere
quanto poco
gli ci volesse per ferirlo. Quindi non rispose affatto.
David,
chiaramente, non insistette. Il resto della loro
conversazione si svolse in piacevoli facezie e disquisizioni
superficiali
riguardo il lavoro, il tour, i colleghi…
La
cena fu servita senza che nessuno venisse a prendere le loro
ordinazioni. Brian immaginò che l’altro avesse
dato disposizioni su ciò che
avrebbero mangiato quando aveva prenotato la sala e si
limitò a gustare le
portate che gli venivano servite da silenziosi camerieri in livrea.
Ogni
piatto, squisito esempio della migliore cucina francese, era
accompagnato da un
vino adeguato e Brian fece il tragico errore di non prendere esempio
dal
proprio ospite e di dedicarsi con maggiore devozione al vino di quanto
non fece
con il cibo.
Per
la fine della serata era drammaticamente brillo, ma,
insolitamente per i suoi standard, l’alcool aveva avuto lo
spiacevole effetto
di intontirlo senza trasmettergli neppure un po’ della solita
euforia malsana che
accompagnava le sue sbronze.
David
lo guardò mentre finiva in pochi sorsi una coppa di
champagne che aveva accompagnato fragole provenienti da
chissà quale clima più
mite di quello nord europeo. Il viso arrossato e accaldato, gli occhi
liquidi e
brillanti…si rese conto di quanto Brian apparisse
più giovane perfino della
propria età e di quanto potesse risultare visivamente
fragile, in un eco
sincera di un Io che aveva crepe enormi a renderne instabile la
superficie.
Per
un attimo quella sera era stato tentato di reclamare il proprio
pagamento. Era
certo che non avrebbe incontrato alcuna ritrosia, aveva fatto in modo
che Brian
si sentisse corteggiato, lusingato e coccolato come era giusto che
fosse. Era
certo, anche, che il più giovane fosse sinceramente attratto
da lui. In questo
momento, tuttavia, David non provava che un ricordo sbiadito del
desiderio con
cui lo aveva accolto ore prima al suo arrivo a quella cena.
Sapeva
che il mutare dei propri sentimenti non dipendeva dal fatto che lo
trovasse
meno desiderabile o bello. Né da un improvviso scrupolo di
coscienza ad
approfittarsi di lui in un momento in cui non fosse stato completamente
padrone
di sé: Brian non era così
ubriaco da
non essere in grado di decidere se volere o meno qualcosa.
…per
cui…la sua decisione doveva dipendere da altro. Ma cosa? Questo non era completamente
capace di stabilirlo.
Sapeva
anche che avere Brian davanti a sé che rispondeva
svogliatamente alle sue
domande e appariva assente, frastornato, malinconico gli pungeva
fastidiosamente
la bocca dello stomaco. Avrebbe voluto vederlo sorridere. Sorridere
davvero.
Era curioso di scoprire che colore prendessero quegli occhi cangianti
quando li
rischiarava una luce autentica, spontanea. Inoltre si sentiva
stupidamente
protettivo.
“E’ la vecchiaia, mio
caro”, si prese in
giro mentalmente, terminando anche lui lo champagne nel proprio
bicchiere.
-Hai
mangiato pochissimo.- osservò d’impulso dopo aver
posato rumorosamente la coppa
sul tavolo. Brian si voltò sorpreso a ricambiare il suo
sguardo; David per
primo fu stupito di come il proprio tono fosse risultato
fastidiosamente
giudicante. Smorzò la cosa assumendo i modi affabili e
lusinghieri di sempre e,
sorridendogli, aggiunse quietamente – Devo dedurre che tu non
abbia gradito…
-Era
tutto squisito.- ammise Brian, invece.
David
aspettò per capire se avrebbe giustificato in qualche modo
il proprio
comportamento, allora. Ma il ragazzo non aggiunse una parola di
più.
Evidentemente,
quando si addentrava su sentieri che avvertiva scoscesi, stava anche
attento a
non esporsi troppo. Si chiese di quanti strati potesse essere
costituita la
corazza che Brian indossava per tenere lontano il mondo e si disse
anche che,
per quanti strati fossero, doveva essere abbastanza facile arrivare a
ferirlo
lo stesso. Solo che poi, quando
sanguinava, non ti dava modo di accorgertene e non ti dava modo di
medicarlo…
-…cos’è
che ti disorienta?- provò a chiedere. Lo fece in modo
incerto, la sua voce si
mantenne incredibilmente bassa, quasi avesse paura che anche solo la
domanda
bastasse a far scappare la creatura che aveva davanti a sé.
Ma
Brian non scappò.
Rimase
seduto composto al proprio posto, lo sguardo basso sulle bollicine
rimaste
incastrate sul fondo del bicchiere e le dita che giocherellavano
distratte con
lo stelo sottilissimo.
-Perché
dovrei risponderti?- ritorse velenosamente, all’improvviso.
Gli alzò gli occhi
addosso, incattivito.- Si può sapere cosa vuoi da me?-
sbottò allo stesso
modo.- Perché siamo qui?! Che diavolo
stiamo facendo?
David
aprì al bocca per rispondergli ma il suono sferzante della
risata sarcastica di
Brian gli fece morire quella risposta sulle labbra.
-Oh
sì, certo!- lo prevenne ironicamente.- Stiamo cenando.-
motteggiò.- E parlando,
anche!
Bowie
gli ricambiò lo sguardo, glaciale. Non ribatté
subito. Aspettò che Brian si
calmasse, che ritornasse in sé e si rendesse conto che,
probabilmente, aveva
appena varcato una sottile linea di confine che non gli era permesso
superare.
Brian
dovette capirlo. Lasciò perdere il bicchiere e smise di
inveirgli contro, ma
non chiese scusa. Chiedere scusa sarebbe stato troppo per lui.
-Direi
che siamo entrambi molto stanchi.- chiuse la serata David Bowie.
Posò il
tovagliolo appallottolato sulla tavola.- Jeff ti
accompagnerà in hotel. Io
preferisco rientrare a piedi e approfittarne per fare una passeggiata e
schiarirmi le idee. Immagino di aver bevuto troppo.
Non
aspettò la sua replica. Si stava alzando già
mentre lo informava degli
immediati programmi. Brian lo seguì con lo sguardo quando,
senza voltarsi, lasciò
la sala sfilando a passo svelto e composto di fianco al tavolo.
Bene,
era appena riuscito a tirare un poderoso calcio a quella che
presumibilmente
sarebbe stata la più grande botta di fortuna della sua vita.
Sospirò.
Ora doveva trovare la voglia di alzarsi anche lui e tornare in albergo.
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