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Crew&Ship: Regulus Black, Sirius Black | brotherhood!Sirius/Regulus Warnings: Hurt, Angst, Goodbye Varie ed eventuali: Questa fanfiction - questa piccola, dolorosissima
fanfiction - non sarebbe mai nata se non fosse stato per la mia Finnigan. Il
minuto prima eravamo lì che parlavamo di quanto doloroso e bellissimo fosse
il rapporto tra i fratelli Black e quello dopo avevo già aperto WordPad per
abbozzare questa cosa. È che Finnigan è un procione stravagante: quando le
ho chiesto se per regalo di compleanno desiderava questa o una Wolfstar
innocua, lei ha scelto questa, pur sapendo quanto sarebbe stata
dolorosa. Procione veramente stravagante. Ecco, Finnigan, questa è tutta per te: fattela piacere, perché a me,
personalmente, piace. È stato terribile scrivere di Regulus in questa
maniera e in questa persona, quindi vedi di fartela piacere, thx ♥ Madonna, sei già una Finnigan grande. Buon compleanno (e tanti limoni), ma
cher ♥ La vostra amichevole Rana di quartiere.
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« Il
primo della stirpe è legato ad un albero e l’ultimo se lo stanno mangiando le formiche.» (Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine)
Nel sogno – sempre lo stesso, sempre lo stesso e
vorresti davvero strappartelo dal cuore dalla testa, farlo
a pezzi e gettarlo via dove non può farti male – Sirius ti
tiene la mano. È stupido, rifletti sempre a posteriori, perché Sirius non ti
ha mai tenuto la mano: diceva che era da stupidi, che era da femmine
– non ha mai capito quanto ne
avevi bisogno, quanto ti sentivi piccolo.
Nei tuoi sogni, però, lo fa.
Ha appena una manciata d’anni e tu
gli trotti dietro in quel modo goffo e traballante di chi ancora non ha
nelle scarpe un gran numero di passi, troppo piccolo per articolare
correttamente il suo nome –
viene fuori in un sibilo che suona come Siuuu o qualcosa del genere –
troppo piccolo per parlare con lui, ma già intelligente abbastanza da capire
che non vuoi restare indietro. Allora vacilli pericolosamente sulle
ginocchia, prendi coraggio e ti sbilanci come un uccellino in procinto di
spiccare il volo, in bilico sulle punte dei piedi, infilando la manina in
quella calda e morbida di Sirius, che la stringe senza esitazione e ti
guarda appena per scoccarti uno di quei suoi sorrisi fiammanti e luminosi
come le stelle da cui ha ereditato il nome. Gli prendi la mano perché hai
questa bizzarra sensazione che se resterai indietro, sarai perduto. Che se
resterai con Sirius, sarai salvato.
A questo punto, il sogno sfuma in
una nebbiolina perlacea e le vostre piccole schiene si fanno ancora più
piccole, fino a sbiadire nella bruma che anticipa il risveglio, ma che per
qualche secondo resistono davanti alle palpebre schiuse, appicciose di
sonno.
Però oggi c’è qualcosa di diverso.
Lo accogli di malavoglia, è
sgradevole contro la pelle sudata, come le lenzuola quando ti si avvinghiano
alle ginocchia, fasciandoti stretto. Non resti a vedere le vostre schiene
che sbiadiscono, ma precipiti nel buio e un urlo terribile ti riempie le
orecchie –
il tuo cuore non ha mai battuto più forte.
Cerchi di scappare, ti divincoli,
tiri calci e pugni e il pavimento ti viene incontro, ti sale addosso e ti
schiaffeggia – slap! –,
strappandoti dagli ultimi brandelli fumosi del sogno. È mattina presto – lo
capisci dalla luce grigia e smorta che filtra dalle tende serrate –
e qualcuno, due piani più giù, sta urlando. Verosimilmente, tua madre e tuo
fratello.
Impieghi diverso tempo a renderti
conto che quella sensazione viscida non ti ha ancora abbandonato. L’avevi
imputata al fastidio per essere stato così bruscamente svegliato, ma è
chiaro che c’è dell’altro. È come un sussurro maligno sul collo, come il
presagio di una catastrofe... Sfreghi piano la nuca e ignori il dolore
pulsante al naso; cerchi di venire a patti con questa cosa, con questa cosa
che ti stringe lo stomaco e che non fa male, ma neppure bene. È solo
fastidiosa, solo...
Una porta sbatte. Troppo forte e
troppo vicina per non essere quella di Sirius. Pensi di affacciarti e
domandargli che cosa succede –
sempre che sia anche solo vagamente in vena di parlarti –
ma i passi rapidi di tua madre lungo le scale ti fanno desistere, perché
forse puoi affrontare tuo fratello, ma non lei. Mai lei.
E pensare che tu, Regulus, volevi
solo una famiglia felice, non quest’enorme casa piena di veleno.
Adesso stanno dicendo qualcosa a
proposito del sangue. C’è sempre qualcosa da dire a proposito del sangue.
Non puoi esprimerlo ad alta voce, ma non hai mai capito perché ci sia
sempre qualcosa da dire a proposito del sangue. E d’altra parte, da te ci si
aspetta obbedienza e fedeltà, non domande spigolose che non dovrebbero
neppure sfiorare lo zerbino.
Premi la fronte contro la porta,
isoli le urla e pensi a Sirius. Non che tu non lo faccia mai; lo fai, e
spesso, ma stamattina, qui e adesso, hai voglia di pensare a quello che hai
perso. Vuoi piangere quel fratello perduto che a volte, molti anni fa, ti
strattonava il mantello sulle spalle perché voleva proteggerti dal freddo
– voleva proteggerti da tutto,
Sirius, perché eri piccolo e fragile e buono, e raramente le persone piccole
e fragili e buone riescono a proteggersi da sé. Vuoi piangere quel che un
Cappello ha diviso e mai più riunito, quel che i colori dell’oro e
dell’argento hanno macchiato, insozzato, abbruttito, fino a fargli perdere
senso. E vuoi anche odiare chi sembra aver meritato il suo affetto più di te
solo perché i colori – i pensieri –
sono quelli giusti.
Sirius.
È un nome piccolo, tutto di lingua e
di gola, che suona come qualcosa di serio. Ma in lui, di serio, c’è solo lo
sguardo che ti rivolge ogni volta che vi incrociate sulle scale – sembra quello di un estraneo –
come se non ti conoscesse più, come se non ti avesse mai conosciuto.
E ogni volta vorresti scuoterlo e urlargli di guardarti, di guardare in
faccia quel bambino che aveva tanta smania di proteggere e che ha infine
abbandonato solo perché un vecchio, lurido Cappello si è messo tra loro,
sancendo quella che deve aver interpretato come la fine. E ogni volta resti
con i tuoi pugni chiusi e con la tua bocca sigillata, ad incrociare lo
sguardo con quel fratello che non ti appartiene più ma che, dentro, proprio nel cuore, senti ti appartenga al punto da fare male, da
farti male.
Le grida si sono spente e lo
realizzi solo adesso, che il legno della porta ha quasi del tutto assorbito
il calore della tua pelle. Riesci ad intercettare solo suoni piccoli e
soffici come qualcosa di morbido che viene scagliato – ti ricordi, Sirius, quella volta che
abbiamo giocato a tirarci le coperte addosso e tu sei riuscito ad avvolgermi
stretto, con un lembo di coperta a farmi da cappuccio e la tua voce che mi
diceva che sarebbe stato bello se fossi rimasto sempre così, piccolo e buono
e facile da vegliare? – e ti arrischi ad aprire la porta, piano piano,
un centimetro alla volta, quel tanto che basta a cacciare la testa nella
fessura stretta e guardare a sinistra, alla sua porta socchiusa. Quei suoni
buffi adesso sono più forti, più cadenzati. Una goccia di sudore gelido ti
scivola oltre il colletto del pigiama e il tuo cuore batte più forte. Non ti
piacciono, quei suoni, perché sembrano presagire qualcosa di orribile.
Qualcosa da cui devi proteggerti. Sei già fuori dalla porta, sei già fuori
dalla sua porta, la stai già spalancando e sembra tutto un sogno,
vero? L’esasperata lentezza dei tuoi movimenti, il respiro pesante e
trattenuto, i colori brillanti – quelli giusti, quei maledetti colori giusti
– è tutto così onirico, vero?
Ma resta concentrato, piccolo
Regulus, perché questo non è un sogno: è tuo fratello Sirius che sta
scaraventando tutte le sue cose nel baule, tutte –
vestiti, effetti personali, libri, qualsiasi cosa.
Ma non l’orologio che gli hai
regalato due anni fa, ci hai fatto caso?
La bocca è così asciutta, oh, così
talmente asciutta che cerchi di raccogliere un po’ di saliva e rischi solo
di soffocare. Senti come tremano le ginocchia. Senti come tremano le mani.
Senti come ti senti piccolo e fragile e buono, e nessuno sta rimanendo per
proteggerti.
«Cosa stai facendo?»
Sirius impiega un secondo in più per
riconoscerti, è solo una frazione di tempo molto piccola, ma la senti pesare
come il dolore di cent’anni. C’è qualcosa di angosciante nei suoi occhi che
ti guardano ma non ti vedono, come se fossi solo un’ombra sul muro,
un riflesso sulla porta. Tu, però, non te ne stai rendendo conto: continui a
fissare il baule rigurgitante della sua roba sgualcita e spettinata e stai
cercando di non capire quello che sta per succedere –
quello che in realtà hai imparato ad aspettarti molto tempo fa.
«Me ne vado» ti informa e sotto la
coltre di calma apparente sono chiari i sentori di una tempesta. Ma Sirius è
testardo e orgoglioso: non esploderà qui. Qualcun altro, in qualche altro
luogo, gli darà un momento per crollare.
Non sarai tu.
Ma fino ad allora, schiena dritta e
mento alto, tuo fratello terrà fede a se stesso.
«Dove? E quando torni?»
Sirius si interrompe nel mezzo di un
movimento, abbozza un sorriso ingannevolmente indulgente, si raddrizza e
getta una t -shirt
appallattolata nel baule. Ti guarda. Vorresti che non lo facesse –
non in quel modo, come se fossi sempre e solo il fratello stupido.
«Regulus» articola lentamente e il
tuo nome ha un suono così sgradevole, così pesante «Io non tornerò. Mai
più».
Ecco. L’ha detto. L’ha detto e te
l’aspettavi, ma questo non significa affatto che sia meno doloroso.
Meno devastante. Stringi il pugno; c’è il fantasma della sua mano, delle sue
dita arricciate sulle tue. Ma Sirius non ti ha mai dato la mano, ricordi?
Non importa quante volte tu l’abbia tesa: lui non l’ha mai presa.
Chiude il baule con un movimento
violento e il coperchio cozza con una nota definitiva. Sirius si china,
afferra una delle maniglie laterali e si incammina fuori dalla porta,
incurante del bagaglio che urta e graffia e stride – un po’ ti somiglia, Regulus, no? Non ti
senti così anche tu? – incurante dei tuoi passi goffi e traballanti
perché ancora non ne hai abbastanza nelle scarpe che lo seguono,
della tua mano che si tende con l’intenzione di acciuffargli il dietro della
camicia e del tuo braccio che è troppo corto – o è Sirius che è troppo
lontano? – e non ce la fa.
«Sirius, tu non... non... Sirius».
La tua voce non è mai stata così
sottile. Anche le parole suonano strane, stridule (Siuuu).
La sua schiena inizia già a sembrare
più piccola.
Ma poi, poi c’è questo momento
estemporaneo, questo momento dove Sirius trascina il baule lungo il gradino
e indugia ai piedi delle scale. Non capisci cosa sta succedendo, ma oltre lo
shock, il rifiuto e l’abbandono c’è questa speranza, questa piccola speranza
che fa una capriola allegra quando Sirius volta la testa e ti fissa, con gli
occhi grigi che brillano nella penombra. Ti guarda come il bambino che era,
come il bambino che eri, e – no,
non lo stai sognando, o immaginando –
il suo braccio si alza e la mano viene tesa in segno d’offerta per quella
che deve essere la prima volta nelle vostre giovani vite stropicciate.
Quando parla, la sua voce è così
piena di dolore che la tua gola si chiude di riflesso –
perché sei ancora piccolo e fragile e buono e per un attimo pensi che
sarebbe bello spogliarsi del cognome, confondere il sangue e piangere un
po’.
«Vieni con me. Regulus, vieni
con me» ripete e c’è tanta urgenza nella sua voce e lo vedi, Regulus, lo
vedi che sta ancora cercando di proteggerti? Lo vedi che ti sta tendendo la
mano? Non la senti ancora, quella sensazione che se non la prenderai sarai
perduto? Che se resterai con lui sarai salvato?
Apri e chiudi le dita –
c’è lo spettro di un calore mai esistito, sul palmo. Per un attimo pensi che
i tuoi piedi si muoveranno, che avranno passi a sufficienza nelle scarpe per
calpestare ogni singolo gradino, lasciare scivolare la tua mano ormai troppo
grande nella sua mano troppo grande e buttarsi dietro la schiena
quest’enorme casa piena di veleno. Per un attimo ti vedi nella luce del
primo mattino, vestito di nient’altro che un pigiama leggero, in piedi sul
marciapiede, in piedi accanto a Sirius che ti sorride di quel sorriso
luminoso e brillante come le stelle di cui porta il nome, accanto a Sirius
che tende la bacchetta e chiama il Nottetempo.
E il Nottetempo è già qui, la tua
mano è ancora nella sua – siete
due fratelli, siete due ragazzi e siete troppo grandi, ma che te ne importa?
– sulle labbra ancora quel mezzo sorriso vivace – fraterno – ma ecco
che indugi sullo scalino. Un bigliettaio senza volto ti fissa, Sirius ti
fissa e il peso di quello che altri, molto tempo fa, hanno scelto di farti
diventare ti precipita sulla schiena, spezzando il contatto con le dita di
Sirius – sbrogliandole dalle tue.
Vieni scaraventato nel tuo corpo,
qui, in cima a questa scala ombrosa. Il braccio di Sirius trema, ma lui non
cede. È giusto. Tocca a te abbassarlo.
«Non posso».
Prevedibilmente, il braccio di
Sirius ricade inerte su un fianco. La linea della bocca è curvata in un
sorriso amaro, deluso, ma non sorpreso. È peggio di tutto il resto.
«No» conviene. «Non puoi».
Adesso non lo sai, non lo sai
ancora, ma queste sono le ultime parole che sentirai pronunciate dalla sua
bocca. Le sue ultime parole per te, per quel fratello che ha dovuto lasciare
andare, che ha fatto scelte diverse – scelte di altri fatte per lui.
Se lo sapessi, forse faresti qualcosa, qualcosa che non sia solo startene in
piedi su quel primo gradino, sospeso, con questa cosa che ti cresce
nella pancia e ti dilania pezzo a pezzo, a guardarlo aprire la porta di
casa, a stringere gli occhi per quell’unico fascio di luce che ti illumina
da capo a piedi – quegli occhi che adesso, così illuminati, hanno lo stesso
colore dei suoi, il colore giusto –
che illumina il tuo corpo che, visto dai piedi dalle scale, sembra solo
quello di un bambino.
È solo quello di un bambino. Siuuu.
Faresti qualcosa che non sia
restartene fermo e guardare la sua schiena rimpicciolire e sbiadire nella
nebbia opalescente del primo mattino, inghiottita infine dal buio di una
porta chiusa.
Invece è proprio quello che fai.
Sirius è andato avanti, tu sei rimasto indietro e sei irrimediabilmente
perduto.
Ti resta solo quel vecchio dolore
vecchio di cent’anni.
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Brucia come l’inferno, ma somiglia
alla pace.
Decine di mani di tengono stretto,
ti reclamano, non ti lasciano indietro. Guardi il soffitto di questa grotta
scabra attraverso la superficie increspata dell’acqua, e forse è solo il
residuo della pozione, o forse è solo che stai morendo, ma quello che vedi è
solo una mano tesa verso di te. Piccola, morbida: quella di un bambino.
Somiglia a qualcos’altro e realizzi
ora, in quest’ultimo momento di fredda razionalità, che tutto quello che ti
ha portato qui e adesso origina da quell’offerta che, molto tempo fa, hai
rifiutato.
Ma che male c’è, se la prendi
adesso? Avanti, Regulus, solleva il braccio, così, da bravo. Tendi le dita,
ecco, vedi?, ci sei quasi.
Prendila, Regulus. Stringila tra le
dita – è calda e luminescente,
sembra il riflesso di una stella –
stringila e che sia finita per sempre.
Le persone che amiamo non ci
lasciano mai veramente. Restano qui dove sei rimasto tu.
Siuuu!
«Le stirpi condannate a cent’anni
di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra.» (Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine)
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