the sound of disappearance
WE ARE OUT FOR PROMPT - WINTER IS COMING WEEK 31 AGOSTO - 6 SETTEMBRE
Titolo: the sound of disappearance
Personaggi: Orfeo; Euridice; Giasone. OrfeoEuridice.
Prompt © Marta CrackedActress: Mitologia greca, OrfeoEuridice. Modern AU: Orfeo è una rockstar in declino dopo aver perso la sua musa.
Note: Il titolo è una citazione di Suzanne Finnamore.
[Per
correttezza, scrivo che è un poco riveduta dall'originale, nonostante
sia rimasta perlopiù identica. Ho solo cambiato qualche parola e
l'ordine di un passaggio o due, per rendere il tutto più scorrevole.]
OoOoOoOoOoO
La pressione del bracciolo duro del divanetto in finta pelle
contro la nuca si stava facendo dolorosa, ma Orfeo non cambiò posizione. Teneva
gli occhi fissi sul pavimento, su una macchia marrone-verdastra che spiccava
sulla moquette consunta, resa gialla dalla luce artificiale. Il vecchio
orologio a muro ticchettava fastidiosamente dalla parete di fronte,
ricordandogli implacabile il passare di ogni secondo.
Presto, lo schermo dello smartphone, abbandonato sul
tavolino basso in legno sintetico di fronte al divano, si sarebbe illuminato –
l’ennesima chiamata di Giasone, che per l’ennesima volta si sarebbe
doverosamente informato sulla sua salute; lo avrebbe esortato e implorato di
dimenticarsi il buco di topo in cui aveva deciso di rintanarsi, di
raggiungere lui e gli altri nell’hotel a sei stelle dove una camera vuota lo
attendeva a braccia aperte, completa di piscina idromassaggio coperta e vista
sull’oceano; gli avrebbe raccontato l’ennesima costosa cazzata combinata da uno
dei ragazzi, nel goffo tentativo di tirarlo su ma finendo con l’essere il solo
a riderci sopra; infine, avrebbe buttato lì qualche frasetta indagatoria sul
parto che si stava rivelando la nuova canzone, una gestazione che tardava a
concludersi. Troppo.
Gli avrebbe ricordato che erano sotto contratto per un altro
album, almeno, e su quella minacciosa nota avrebbe concluso la telefonata, per
tornare a spassarsela con – moglie, amante, senza un pensiero al mondo.
Orgoglioso di aver fatto il proprio dovere di frontman e migliore amico.
Si passò una mano sul viso, sfregandosi gli occhi.
Ad Orfeo non serviva l’orecchio assoluto per trovare la
sfumatura falsa nel suo tono di voce: conosceva Giasone da prima ancora che
Medea gli mettesse in testa di essere il figlio spirituale di Mick Jagger,
quando i Misterika non erano che gli Argonautika, un gruppo con troppi
chitarristi e troppo poco talento che si esibiva per le sole orecchie sorde della
nonna di Giasone, nello scantinato di casa sua.
Allora come
oggi, era sempre stato consapevole di essere
meno un amico e più un’insperata botta di culo per quelle
rockstar della
domenica che a malapena sapevano leggere uno spartito coi sottotitoli;
figurarsi
comporre il “rock più sublime dai tempi degli
Stones”, come gli ricordavano i
caratteri di un rosso urlante bordato di bianco della copertina del
giornale che portava il loro nome dalla cornice in equilibrio precario sul cassettone
accanto al letto, abbastanza
lontana da essere al sicuro dalla sua ira.
Orfeo sorrise quasi ringhiando, pregustando il piacere
velenoso che avrebbe provato a sbattere in faccia la verità a quei falliti che
vivevano e prosperavano nella sua ombra: non c’era alcuna canzone, né le cose
sarebbero cambiate in futuro. Onestamente, non riusciva neanche a vederlo, un
futuro, o a concepire di volerne uno.
Lui, che componeva dall’età di quattro anni, il Mozart del
rock, lui e la Musica non avevano più niente da dirsi.
Si sentiva impolverato come
la custodia della sua chitarra, che non aveva toccato dal giorno in cui il
fattorino, ricompensato con una lauta mancia, l’aveva trasportata su per i quattro
piani dell’albergo e sistemata con adorazione nel punto più luminoso della
stanza, il posto d’onore.
Appena si era chiuso la porta alle spalle, Orfeo
l’aveva spostata sotto il letto con un piede, senza alcun riguardo per la
compagna di più di vent’anni.
Che riguardo aveva avuto per lui il dio della musica,
portandosi via la sua ragione di vivere?
Ognuna delle sue canzoni da cinque
anni a quella parte erano state per lei. Erano state lei, l’Euridice che viveva
nella sua mente, Euridice coi capelli rosa pallido e le fasi della luna sulla
spina dorsale. Erano state il suo rossetto rosso e le sue trecce. I braccialini
della fortuna al polso destro, che non levava mai per superstizione. La sua
passione per le bolle di sapone giganti, per la pastiera napoletana e il caffè
al ginseng. Le diete che aveva iniziato e che non aveva concluso. L’allergia ai
pollini, agli acari, ai gatti a pelo lungo.
L’Orfeo che gli aveva tirato fuori chissà da dove –in vita e
quando essa aveva preso a spegnersi.
Il cancro era stato un processo lento. Un nodulo al seno,
dall’aria del tutto innocua, che se l’era mangiata, rendendola ogni giorno più
fiacca, ogni giorno meno lei. I capelli rosa erano caduti a terra come i mazzi di fiori
dei suoi fan, che avevano vissuto con loro ogni attimo - pregato per loro, e
Orfeo li ringraziava con la musica più dolce che mai gli fosse riuscito di
trasporre dalla mente alla carta.
Gli incassi aumentavano, Euridice si faceva
sempre più magra e più stanca.
Ma erano felici, si disse, anche allora. Euridice amava la
sua musica. Doveva esser stata contenta di averlo portato all’apice. Felice di
lasciargli una sfavillante carriera, al posto dei propri abbracci, dei propri
baci.
Ormai, Orfeo poteva solo sognarla: sognava una chitarra
fatta delle sue ossa bianche; le corde, i suoi capelli. Sognava di poterla
rendere suono, lei che era un corpo morto, il buco nell’anima che gli aveva
lasciato il dio della musica, con cui non si poteva contrattare.
Orfeo era secco, prosciugato. Ma, pensò, alzandosi
finalmente e ignorando lo schermo illuminato del telefono, aveva un armadietto
pieno di alcolici per colmare il suo vuoto.
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