Al sorgere del sole
Il
corridoio era deserto.
Levi constatò quel dato di fatto con
noncuranza e s’incamminò verso sinistra. Si era
appena richiuso alle spalle la
porta della sala riunioni, ma al suo interno aveva lasciato una
porzione del
suo cuore. Sì, perché ascoltare le parole per
nulla rassicuranti di un Erwin
pronto a tutto pur di scoprire la verità sui maledetti
Titani non faceva altro
che impensierirlo e agitarlo. Cosa ne sarebbe stato di loro –
tutti loro – se la
missione non fosse
andata a buon fine?
Era inutile rispondersi. Conosceva
perfettamente quale sarebbe stato il loro destino in caso di disfatta e
non
aveva alcuna intenzione di rovinarsi ulteriormente la cena continuando
a
rimuginarci sopra. Non dopo aver inutilmente discusso con il proprio
Comandante.
Quando raggiunse il capannone della
mensa, fu accolto da un inaspettato clamore. Sorreggendosi sulle punte
dei
piedi, cercò di sbirciare oltre le schiene degli altri
soldati, troppo
impegnati ad osservare qualcosa per
accorgersi del suo arrivo, e finalmente, facendosi strada,
poté assistere allo
spettacolo che stava riscuotendo tanto successo.
Eren e Jean stavano litigando. Non che
fosse una novità, d’altra parte, ma questa volta
erano giunti alle mani. Levi
li guardò per poco meno di un minuto, tenendo un
sopracciglio alzato; si
domandò se al mondo esistessero due ragazzi più
stupidi di quelli che si
stavano picchiando davanti ai suoi occhi e scosse la testa. Un secondo
dopo,
aveva mandato al tappeto entrambi i contendenti, che adesso rotolavano
per
terra cingendosi l’addome con le braccia.
-Pulite questo casino-, disse a denti
stretti, scoccando un’occhiataccia anche a chi non si era
preso la briga di
separare i due compagni di Squadra. -E andate a dormire-.
Ci fu un fuggi fuggi generale e l’uomo
represse un sorriso di soddisfazione. Non poteva ammetterlo ad alta
voce, ma
era sempre felice di sapere che i suoi sottoposti lo temevano
abbastanza da
obbedire ad ogni suo ordine, anche il più assurdo. Si
avvicinò al tavolo degli
altri Capi Squadra e sedette di fronte ad Hanji, intenta a gustare la
prima
delle due fette di carne che le erano state servite.
-Ci sei andato giù pesante, eh?-, gli
disse, versandogli dell’acqua nel bicchiere ancora vuoto.
-Non quanto mi sarebbe piaciuto-.
-Ah, sei il solito. Mangia, piuttosto;
ci siamo impegnati parecchio per avere questa carne-.
-Immagino-, annuì lui, senza
ascoltarla davvero. Le parole risolute di Erwin continuavano a
echeggiare nella
sua testa e aveva completamente perso l’appetito. Si
costrinse a bere e a
masticare qualche boccone, ma non ne percepì nemmeno il
sapore.
-Qualcosa non va?-, gli domandò Hanji,
osservandolo con attenzione. Aveva poggiato i gomiti sul tavolo e aveva
incrociato le mani sotto il mento nella tipica posa di chi ha intuito
qualcosa
e aspetta di sapere se ha colto nel segno; Levi ricambiò il
suo sguardo
indagatore, ma non rispose subito.
-Niente di particolare, quattrocchi.
Sto solo pensando al piano-.
-Cos’è che non ti convince?-.
-La testa dura del nostro Comandante-.
Hanji sorrise. Riprese coltello e
forchetta e ricominciò a tagliare la carne, infilzandone un
pezzetto e
masticando a bocca aperta: -Conosci Erwin. Fidati di lui-.
-Non è questione di fiducia-, replicò
Levi con un sibilo, -ma di sicurezza-.
-E…?-.
-Potresti guidare tu la spedizione-.
-Potrei-, concordò la donna,
sollevando distrattamente gli occhi al cielo.
-Lo farai?-.
Il tono della sua voce era teso come
mai prima di allora e temette che Hanji se ne potesse accorgere. Attese
con
ansia la sua risposta e tentò di non metterle fretta, anche
se in quel momento
avrebbe voluto afferrarla per il bavero della camicia e scrollarla
nella
speranza di sollecitare le sue parole.
-No-, si sentì dire.
-No?-, ripeté.
-Il Comandante non me lo ha ordinato.
Io non sarò alla testa dell’esercito-.
La risolutezza con cui Hanji aveva
sillabato quella frase lo gelò. Per alcuni istanti Levi la
fissò continuare a
mangiare come se nulla fosse, chiedendosi se anche lei non avesse paura
di ciò
che poteva accadere; si riscosse, deglutendo a sua volta un altro
boccone e
bevendo un ultimo sorso d’acqua.
-Te ne vai?-, gli domandò la donna,
vedendolo alzarsi e fare il giro del tavolo.
-Sono stanco-, ribatté e pensò che non
ci potesse essere definizione migliore per il suo stato
d’animo. Stanco
fisicamente, ma soprattutto mentalmente.
-Ci vediamo domani, allora-, lo salutò
Hanji, sollevando la mano che brandiva la forchetta. -Riposati-.
“Se solo fosse facile…”, si disse lui,
voltandole le spalle e uscendo dal refettorio con passo pesante.
L’aria fresca della sera soffiò sulle
sue guance scavate, costringendolo a stringere ancor di più
gli occhi. Alzò la
testa e scrutò per un momento il cielo, sereno e puntinato
delle prime stelle,
poi si allontanò in direzione dei dormitori.
Diversamente dal solito, Levi prolungò
la sua camminata passando dietro il campo utilizzato per
l’addestramento
quotidiano. Fiancheggiò le due costruzioni in legno che
fungevano da rimesse e
girò a destra, ritrovandosi tra la caserma e un piccolo bar
gestito da un
militare ormai in pensione. Fu sul retro del primo edificio che si
bloccò.
-Sono felice che siamo riusciti ad
incontrare l’Istruttore-, stava dicendo una giovane voce
maschile, che Levi
riconobbe subito. Insolitamente preso dalla curiosità,
decise di avvicinarsi,
nascondendosi dietro il porticato che circondava la caserma. Rimase
nell’ombra,
in ascolto, e sedette a terra per non perdersi neanche una parola.
-Ero geloso-, Eren continuava a
parlare, -mi sentivo inutile perché non ero capace di essere
come te, Mikasa, o
il Capitano. Eppure né tu né lui potete
combattere da soli. È il motivo per cui
ognuno di noi deve trovare il suo ruolo. Insieme possiamo combinare le
nostre
abilità per essere più forti-.
Al riparo nel buio, Levi annuì con un
deciso cenno della testa. Sentir parlare in quel modo il ragazzo lo
rassicurò
un po’ su quello che probabilmente sarebbe stato il suo
comportamento nel corso
della spedizione. Si era espresso come una persona matura e questo era
un bene.
Ci fu uno scambio di battute tra Eren
e Armin, ma avevano abbassato il tono della voce e Levi non
riuscì a capire
cosa si fossero detti. Comprese perfettamente, però,
ciò che dopo alcuni minuti
di silenzio aggiunse Mikasa: -Quando avremo riconquistato il Wall Maria
e
sconfitto tutti i nemici, ogni cosa tornerà come prima?-.
Il Capitano fremette. Le parole della
ragazza avevano squarciato una ferita non ancora rimarginata e di colpo
i suoi
pensieri si fecero confusi. Ricordi lontani si accavallarono
l’uno sull’altro
in un vortice di colori, lacrime e sangue di cui l’uomo
avrebbe voluto potersi
liberare una volta per tutte. Chiuse gli occhi, passandosi le mani tra
i
capelli e stirando dolorosamente alcune ciocche, sperando di riuscire a
ricacciare indietro le immagini che gli affollavano il cervello. Non ci
riuscì.
Di colpo fu catapultato di nuovo a quel giorno.
***
Mancavano
tre giorni alla sua prima
spedizione fuori dalle Mura. Non aveva bisogno che qualcuno glielo
ricordasse,
ma il Capo Squadra Fragon non faceva altro che ripeterglielo, forse per
intimorirlo.
Che andasse al diavolo! Dopo l’inferno vissuto nella
Città Sotterranea, non
sarebbero stati i Titani a spaventarlo. E poi, aveva una missione da
portare a
termine: non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione di
uccidere Erwin e
recuperare i documenti richiesti dal nobile Lobov.
La milizia aveva finito di cenare da
circa mezz’ora e i superiori avevano ordinato che tutti
andassero a dormire. Levi,
però, entrato da poco nell’esercito e restio a
eseguire ciò che gli veniva
imposto, aveva deciso di prendere una boccata d’aria. Era una
delle cose più
liberatorie che poteva fare, ora che si trovava in superficie, e aveva
preso
l’abitudine di incontrarsi con Isabel e Farlan sul torrione
della piccola
fortezza utilizzata come Quartier Generale del Corpo di Ricognizione
per
starsene in santa pace, lontano dalle angherie degli altri soldati e
dagli
scherni di chi, come Fragon, si riteneva migliore di tre giovani
cresciuti nel
sottosuolo.
Salì la scala a chiocciola che
conduceva fino alla cima della torre e si fermò di fronte
alla porta che dava sull’esterno.
La esaminò con attenzione e si guardò intorno:
dei suoi due amici non c’era
ancora traccia. Che avessero seguito gli ordini e fossero andati a
letto? Ma
no, glielo avrebbero detto. Il problema adesso era un altro e
cioè le
grigiastre macchie di muffa che costellavano il legno della porta. Lui avrebbe dovuto toccare quella
cosa? Con le sue mani?
Non se ne parlava!
Frugò nel taschino della giacca alla
ricerca di un fazzoletto, ma non lo trovò. Fissò
ancora il legno fatiscente e
inspirò profondamente, tendendo le mani e afferrando il
batacchio di ferro. Lo
sollevò, fece scattare il meccanismo e alla fine si risolse
a dare un calcio
alla porta, che si spalancò con un fastidioso stridio.
Immediatamente una
folata di vento lo abbracciò, facendolo rabbrividire, e
Levi, sfregatosi le
mani nel vano tentativo di pulirle, si strinse nella giacca, muovendo i
primi passi
sul torrione.
-Fratellone! Ti stavo aspettando!-.
Una squillante voce femminile attirò
la sua attenzione; strizzò gli occhi nel buio e distinse una
figura sottile
seduta sulle merlature della torre. La ragazza aveva alzato un braccio
e lo
stava ancora agitando, facendogli segno di avvicinarsi. Levi
sbuffò.
-Perché non hai lasciato aperta la
porta?-, chiese, gettando un’occhiata alle proprie spalle.
-Non volevo che qualcuno si accorgesse
che sono salita di sopra. A quest’ora dovremmo già
essere a dormire, no?-.
-Avresti potuto semplicemente
accostarla. Sarebbe stato più facile…-.
S’interruppe. Si era avvicinato alla
ragazza e solo allora notò che mancava ancora qualcuno
all’appello. -Dov’è
Farlan?-, domandò ancora, restando in piedi accanto alla
giovane.
-Oh, ha avuto un imprevisto. Tu eri
già uscito dalla mensa, perciò non hai sentito:
Fragon lo ha messo di guardia
nel sotterraneo. Non so esattamente il perché, ma pare che
fosse importante.
Domani mattina gli chiederemo di cosa si trattava. Dai, vieni a
sederti-, lo
invitò Isabel.
-Perché non smetti di appollaiarti
sulle merlature come un piccione?-, fece Levi, ben consapevole che la
ragazza
si sarebbe risentita.
-Magari fossi un piccione!-, esclamò
in risposta lei, allargando le braccia. -Volerei in alto, sempre
più su…-.
-Se non presti attenzione volerai giù,
altro che uccelli-.
L’afferrò per un braccio e la
costrinse a rimettere i piedi sulla solida pavimentazione del torrione.
Isabel
protestò ancora per qualche secondo, ma alla fine si
calmò e sedette per terra,
incrociando le gambe e fissando il cielo. Levi la imitò
subito dopo.
-Certo che ne sono successe di cose,
eh, fratellone?-, disse distrattamente. Lui si limitò ad
annuire in silenzio e
la giovane continuò: -Alla fine ce l’abbiamo
fatta. Siamo passati ai piani
alti-.
-E dobbiamo rimanerci, ad ogni costo.
Non tornerò in quella topaia, fosse anche l’ultimo
posto rimasto sulla faccia
della terra-.
Strinse i pugni che teneva
poggiati sulle
ginocchia e ripensò
brevemente a tutto ciò che era stata la sua vita prima di
essere arruolato da
Erwin Smith. Quel maledetto biondino lo aveva cacciato in un bel guaio,
ma in
fondo non poteva non ringraziarlo per avergli permesso di salire in
superficie.
-La Città Sotterranea è così diversa
dal mondo di sopra-, sentì sospirare Isabel, presa a
contemplare le stelle. -È
tutto così buio, sporco, povero… Non
c’è cibo, non c’è acqua. La
gente muore
agli angoli delle strade e chi sopravvive ha un cuore vinto
dall’egoismo;
sembra quasi che le persone abbiano dimenticato cosa significhi amare-.
Levi si voltò a guardarla. Il viso
della ragazza veniva a tratti illuminato dal pallido spicchio della
luna, che
fino ad allora era rimasta completamente nascosta dietro una coperta di
dense
nuvole grigie. Forse l’indomani sarebbe arrivata la pioggia:
quello sarebbe
stato un bell’imprevisto per l’allestimento della
spedizione. Il Capo Squadra
Fragon aveva detto che, in caso di cattivo tempo, le operazioni fuori
dalle
Mura sarebbero state sospese e rimandate a data da destinarsi; questo
significava che anche l’uccisione di Erwin sarebbe stata
posticipata. Quello
era l’inconveniente che più infastidiva Levi.
-Isabel, cosa ne puoi sapere tu
dell’amore?-, ribatté.
-Quanto basta-, si limitò a dire la
ragazza.
-Voglio proprio conoscere l’idiota che
ti gironzola intorno-, affermò con tono scettico Levi.
-Non c’è nessuno!-, esclamò lei,
girandosi e assestandogli una gomitata. Alla luce perlata della luna,
lui notò
le sue guance rotonde colorirsi della stessa sfumatura dei suoi capelli.
-Meglio così-.
-Fratellone?-.
-Uhm?-.
-Se conoscessi un ragazzo, tu daresti
la tua approvazione?-.
-Che razza di domanda è questa?-,
chiese, colto di sorpresa.
-Sì o no?-.
I grandi occhi verdi di Isabel erano
spalancati e fissi nei suoi. Levi vi colse un pizzico di imbarazzo, ma
nulla di
più: -Solo se è un tipo affidabile come Farlan.
Altrimenti userò la sua lingua
come uno straccio per pulire il pavimento-.
La ragazza si sciolse in uno di quei
grandi sorrisi che le illuminavano il viso e riprese a guardare il
cielo. Levi,
dal canto suo, nascose un ghigno malevolo al pensiero di pestare a
sangue
chiunque avesse osato ferire Isabel.
-Dicevo…-, continuò lei, senza
staccare gli occhi dalle stelle. -Ci sono molte differenza con il mondo
in
superficie. Qui c’è il sole, la pioggia, la vita.
Il soffitto che abbiamo sulla testa è questo splendido
cielo, non terra e
roccia; c’è il vento che ti scompiglia i capelli,
il profumo dell’erba e tanti,
tantissimi colori. Le persone sono felici e hanno a disposizione tutto
ciò di
cui hanno bisogno per sopravvivere. L’aria aperta
è libertà. Chissà
com’è il
mondo oltre le Mura?-.
Levi rimase in silenzio. Ascoltò la
voce della brezza, improvvisamente fattasi più impetuosa, e
spinse lontano lo
sguardo, fino ad incontrare il limite di cui parlava anche Isabel.
Scrollò le
spalle: -Mancano appena tre giorni-, le disse. -L’esterno ci
aspetta-.
-Vinceremo, non è vero? Insieme
sconfiggeremo tutti i Titani e poi ce ne andremo via da qui!-.
La ragazza scattò in piedi, gli occhi
che sprizzavano fiamme di puro entusiasmo, e lo guardò: -Non
credi anche tu che
ce la faremo?-.
Levi rispose a quell’occhiata
reclinando appena la testa, come per dire che non gli interessava poi
tanto:
-Mi preme di più vedere Erwin Smith affogare nel suo stesso
sangue, sinceramente-.
-Ma fratellone-, protestò Isabel,
tornando a sedere e avvicinandosi di più
all’amico, -sei proprio convinto che
il momento più propizio sia durante la spedizione? Daremo
nell’occhio, se ci
dovessimo separare dal resto del gruppo a cui ci hanno assegnati. E non
sappiamo ancora se effettivamente porta sempre con sé i
documenti. Magari
Farlan non ha cercato bene…-.
-Mi ha assicurato di aver messo a
soqquadro l’intera stanza-, la fermò Levi,
stavolta con tono spazientito,
-eppure non sono saltati fuori. Deve nasconderli nella giacca, quel
maledetto
bastardo-.
Scosse la testa e si passò una mano
sul viso. Isabel seguì ogni suo gesto con lo sguardo.
-A me basta che siamo insieme-, disse lei
con sincerità. -E che, quando torneremo dalla missione,
potremo di nuovo
guardare queste magnifiche stelle. Ora che siamo in superficie, non
voglio
rinunciarci per nessuna ragione al mondo-.
Levi evitò di commentare il desiderio
della ragazza; non aveva alcuna voglia di prenderla in giro, neanche
per il
solo piacere di stuzzicarla, visto che condivideva il suo stesso
pensiero. Si
limitò a restarsene zitto, osservando a sua volta il cielo.
E proprio mentre
contemplava decine di costellazioni di cui ignorava il nome,
sentì una piccola,
calda mano posarsi spontaneamente sulla sua, a contatto con la fredda
pavimentazione del torrione.
Senza scomporsi, ma percependo un
tuffo al cuore, sbirciò in basso con la coda
dell’occhio e notò le dita di
Isabel sfiorargli le nocche. Un barlume di disagio lo fece sussultare e
pian
piano mosse la mano fino a ritrarla.
Lei lo lasciò fare, per nulla stupita:
lo fissò dritto negli occhi, rinvenendo sul suo viso
un’espressione a metà tra
il sorpreso – e lo era, lo era
davvero
– e l’infastidito, poi scoppiò a ridere.
Rise così tanto da stringersi la
pancia con le braccia, mentre Levi ricambiò lo sguardo senza
riuscire a capire
cosa fosse esattamente successo.
-Fratellone, sta’ tranquillo!-,
esclamò Isabel, soffocando una nuova ondata di risa. -Non
temere, mi sono
lavata le mani. Non contrarrai nessuna malattia-.
Nonostante fosse buio, eccezion fatta
per i deboli raggi lunari che faticavano a trapelare tra le nuvole, le
pupille
di Levi si dilatarono. Ascoltare la battuta della ragazza ebbe su di
lui uno
strano effetto: si sentì quasi ferito
nell’orgoglio. Per alcuni secondi aspettò
che le risate della giovane si placassero, poi finì per
borbottare qualcosa che
l’amica non riuscì a cogliere.
-Come, scusa?-, gli domandò,
asciugandosi le lacrime che le avevano irritato gli occhi.
-Non è quello, il problema-, ripeté
più forte, tenendo lo sguardo puntato a terra. -Sei una
sciocca se pensi che mi
sono scostato a causa di un motivo tanto idiota-.
Non notò il mezzo sorriso che aveva
increspato le labbra di Isabel. Non prestò attenzione
neppure alle occhiate di
sottecchi che lei gli rivolse. Si concentrò solo sul
silenzio che era tornato a
regnare nell’aria.
-Prendi la mia mano-.
Il respiro di Levi si bloccò. Sentì la
schiena irrigidirsi e un brivido solleticargli spiacevolmente il viso,
prima di
girarsi a guardarla.
-Cosa…?-.
-Prendi la mia mano-, disse ancora la
ragazza, mostrandogli la sinistra che poco prima si era posata su di
lui. -Ho
bisogno di sentirti accanto a me. Perché quando il
fratellone mi è vicino, ho
la certezza che tutto andrà bene-.
Si spostò verso Levi e con un briciolo
di esitazione poggiò la testa sulla sua spalla, aspettandosi
che si ritraesse
di nuovo. Stavolta, però, non fu così.
-Resteresti con me, stanotte?-,
aggiunse. -Vorrei guardare la notte che lascia spazio al giorno. Non ho
mai
visto l’alba-.
Seppur scosso, Levi annuì a quella
richiesta. Lasciò che Isabel si accoccolasse contro di lui e
la ragazza gli si
aggrappò al braccio destro, trovando tepore e riparo
dall’aria fresca della
sera. Rimasero in quella posizione per un tempo che nessuno dei due
avrebbe
saputo determinare, senza osar parlare. Sopra di loro, le stelle
sembravano
brillare con più forza e le nubi si erano finalmente
diradate, lasciando posto
anche al sorriso sbilenco della luna.
Quando Levi si decise a voltarsi
lievemente verso la ragazza, prestando attenzione a non disturbarla, si
accorse
che si era addormentata. La bocca di Isabel era socchiusa e il suo
respiro si
condensava in piccole nuvolette di vapore; le palpebre, gonfie per la
stanchezza accumulata nel corso della giornata, si erano rilassate,
dando così
a Levi la possibilità di soffermarsi sulle lunghe ciglia
nere. Sentì il corpo
della giovane venir scosso da un tremito che gli fu trasmesso
attraverso il
contatto tra le loro braccia e con una naturalezza che non gli parve da
lui si
arrischiò a cingerle le spalle, accarezzandole la schiena
nella speranza di riscaldarla
un po’.
Lui e Isabel non erano mai stati tanto
vicini. Al contrario di quanto si aspettasse, non se ne
crucciò affatto, anzi:
teneva stretta a sé la persona a cui più teneva
al mondo e per un istante si
illuse che quella nottata di pace potesse durare per sempre.
Osservò
l’espressione rasserenata della sorella – la
sua sorellina minore, come adorava definirla nei suoi
pensieri – e non
riuscì a nascondere un sorriso che lasciava trasparire vera
tenerezza: reclinò
la propria testa su quella di Isabel e fu in grado di inspirare
l’odore dei
suoi bei capelli rossi, finalmente puliti e lucenti dopo anni in cui la
giovane
era stata costretta a lavarli con l’acqua piovana che gli
abitanti della Città
Sotterranea raccoglievano in grandi cisterne putrescenti;
notò un ciuffo
ricaderle fin sugli occhi e con gentilezza glielo spostò
dietro l’orecchio,
attento a non svegliarla.
In un secondo gli venne naturale
pensare che Isabel era davvero bella.
Bella e allo stesso tempo così piccola, bisognosa di
protezione come in
occasione del loro primo incontro. Era inutile che la ragazza cercasse
sempre
di fare la voce grossa per sembrare grande e forte: la
verità era che si
sarebbe sentita sperduta se non avesse avuto al proprio fianco i due
ragazzi
che ormai considerava propri fratelli. E Levi, dal canto suo, la
adorava, anche
se non gliel’aveva mai detto esplicitamente; preferiva tenere
quella
considerazione per sé, nel timore di poter apparire uno
sciocco sentimentale
ammettendolo ad alta voce.
In quella notte sempre più fredda,
continuò a tenere stretta sua sorella, mentre sentiva gli
occhi farsi più
pesanti a causa del sonno che stava cercando di scacciare. Si
assicurò che
Isabel avesse smesso di tremare e poi, in un sussurro che non fu certo
di
essersi davvero lasciato scappare, prestò un giuramento che
la ragazza non udì
mai: -Farò di tutto per proteggerti. Ti prometto che saremo
liberi: porteremo a
termine la nostra missione e ce ne andremo via da qui, lontano da
tutti. Saremo
solo tu, io e Farlan. Liberi come non lo siamo mai stati-.
Le sue parole vennero soffocate dalla
stanchezza, che alla fine ebbe la meglio. Levi si rifugiò in
un sonno senza
sogni che durò per quelli che, al risveglio, gli parvero
essere stati solo una
manciata di minuti. Dischiuse con fatica le palpebre, sentendo la
schiena
scricchiolare per colpa della posizione scomoda a cui si era costretto,
e
distinse poco per volta il panorama che aveva davanti.
La notte si stava ritirando, lasciando
posto ad un nuovo giorno. Il sole non era ancora sorto, ma
all’alba non doveva
mancare poi molto. Rimase in attesa, godendosi la pace che lo
circondava;
qualche minuto più tardi, finalmente, decise di svegliare
Isabel.
-Ehi!-, la chiamò, scuotendola
dolcemente. -Apri gli occhi. Non vorrai perderti lo spettacolo!-.
La ragazza non reagì prontamente.
Emerse dal sonno con calma, prendendosi tutto il tempo necessario: sul
suo viso,
segnato dal torpore, si susseguirono prima espressioni di smarrimento,
poi di
sorpresa.
-Siamo davvero rimasti qui fuori per
tutta la notte?-, chiese, mentre la domanda si trasformava in un sonoro
sbadiglio.
-Pare proprio di sì-, annuì Levi.
-Vedremo se ne è valsa la pena-, aggiunse, indicando un
punto lontano con un
semplice cenno della testa.
Isabel si alzò, si sgranchì le gambe
camminando sul posto e si sfregò energicamente le braccia
infreddolite; quando
si sentì meglio, tornò a sedersi.
-Sono un po’ emozionata-, ammise,
portandosi le mani alla bocca e riscaldandole con il proprio fiato.
-L’alba
deve essere un momento speciale-.
-Come una rinascita-, Levi completò la
frase. -E noi siamo qui, pronti ad assistere all’evento. Ma
ti prego, niente
strepiti-, la ammonì bonariamente, scompigliandole i capelli
già disordinati.
-Va bene, va bene-, fece lei. Incrociò
le braccia sul petto e aspettò ancora, osservando il cielo.
Le stelle si stavano spegnendo poco
per volta. I due ragazzi le potevano contare sulla punta delle dita.
L’unico
astro che continuava a brillare con la stessa, immutata
intensità si presentava
ai loro occhi come un minuscolo puntino che, sovrastando le Mura ad
est, aveva
la forza di risaltare nel cielo nonostante questo si stesse schiarendo
sempre
di più.
-Guarda!-, esclamò di colpo Isabel,
puntando l’indice verso l’orizzonte. -Fratellone,
guarda!-.
L’attenzione di Levi non aveva bisogno
di essere richiamata: era impossibile distrarsi, quando si era in
presenza di
uno spettacolo tanto magnifico.
Di fronte a loro, i raggi del sole
stavano provando a superare la barriera costituita dal Wall Sina;
dietro quei
cinquanta metri di pietra, la luce doveva aver già svegliato
ogni angolo della
terra. Tra poco avrebbe raggiunto anche il torrione su cui si trovavano
e
finalmente avrebbero potuto contemplare una nuova sfaccettatura del
mondo.
-Sta arrivando-, disse Isabel, la voce
impastata della stessa emozione che poco prima aveva provato a
descrivere.
Levi, immobile alla sua sinistra, spostò lo sguardo
dall’orizzonte alla ragazza
e notò i suoi occhi sgranarsi di secondo in secondo: si
rallegrò dello stupore
che addolciva i tratti del suo viso, ma ancor di più fu
felice di osservare la
luce dorata del sole riflettersi in quelle iridi di giada. E avrebbe
ammirato
il panorama proprio attraverso lo specchio dei suoi occhi, se la
ragazza non lo
avesse richiamato di nuovo, costringendolo a voltarsi.
Quando si girò, lo vide: il sole stava
facendo capolino oltre le Mura, allungando sul terreno
l’ombra della barriera.
Si stava sollevando lentamente, superbo, fiero della propria bellezza,
come se
volesse farsi un vanto degli sguardi che i due ragazzi gli rivolgevano;
illuminò i tetti della capitale, filtrò nelle
finestre e diede il buongiorno ai
cittadini, svegliandoli con il tiepido bacio dei suoi raggi.
Scaldò l’aria e
spazzò via il blu della notte, lasciando posto ad un cielo
tinto d’oro, rosso e
rosa. Infine, si lasciò abbracciare dalle esili braccia che
Isabel aveva
spalancato nella speranza di poter trattenere quella luce che sapeva di
magia.
-Il mondo è ancora più bello prima che
sorga il sole-, mormorò lei. Il sorriso che si era aperto
sulle sue labbra non
l’avrebbe più abbandonata.
Levi non sarebbe potuto essere più
d’accordo: l’alba portava davvero con sé
qualcosa di speciale. E tutto, sotto
quei vividi raggi aranciati, sembrava acquistare un nuovo valore.
-Un giorno lo vedremo nascere
direttamente dall’orizzonte-, aggiunse Isabel dopo un minuto
di estatico
silenzio. -Non ci saranno più le Mura ad ostacolarci la
vista e non avremo più
nemici da combattere. Fratellone, mettiamocela tutta durante la
spedizione!-,
disse, scattando in piedi e sollevando in alto il pugno destro in segno
di
trionfo.
Levi la osservò e sentì l’angolo della
bocca piegarsi in un piccolo sorriso. Annuì con un battito
di ciglia, senza
proferire una singola sillaba. Voleva godere di quel momento e seppe di
averlo
vissuto appieno in compagnia di sua sorella.
Tre giorni più tardi avrebbe assistito
ad una nuova alba, ma sarebbe stato completamente diverso.
Perché le sfumature
del cielo non avrebbero simboleggiato un preludio alla vittoria, ma gli
avrebbero ricordato il colore del sangue che Isabel e Farlan avevano
perso in
una battaglia vana come le tante altre a cui lui, invece, avrebbe
continuato a
prendere parte.
***
Levi sussultò.
Il discorso tra Eren,
Armin e Mikasa aveva innescato memorie di un passato non troppo lontano
che
ancora faceva male. Le parole di sua sorella e la fiducia con cui le
aveva
pronunciate tornarono ad echeggiare nella sua testa, martellando
ritmicamente
come un tamburo.
Quante cose erano
cambiate da allora?
Adesso Levi era uno
dei capi
dell’esercito, con una Squadra specializzata al suo comando,
ma non aveva più
accanto a sé la sua famiglia, Isabel e Farlan. Era tornato
vivo da tutte le
spedizioni a cui aveva partecipato, ma i Titani continuavano ad essere
la più
grande minaccia per il genere umano. Infine, era cambiata una cosa
fondamentale: non sperava più di vedere Erwin steso in una
pozza del suo stesso
sangue, ma pregava il Dio in cui non aveva mai creduto
affinché l’uomo non morisse
nel corso dell’ultima battaglia che si apprestavano ad
affrontare. Perché, se
fosse morto, se ne sarebbe andato anche l’ultimo briciolo di
umanità depositato
nel cuore di Levi.
Ancora nascosto
nell’ombra, aspettò
che i suoi tre sottoposti se ne andassero. Colse solo vaghe frasi del
loro
discorso, ma non se ne curò affatto. Sentiva la testa andare
a fuoco, presa
com’era da pensieri, preoccupazioni, ansie, rimpianti. In
particolare, stava
cercando in tutti i modi di dissipare il ricordo di quella notte
d’attesa
passata con sua sorella.
-Al tramonto-,
disse tra sé e sé,
rialzandosi da terra e ripetendo le parole di Erwin, -partiremo
dopodomani. E
forse stavolta, al sorgere del sole, il mondo sarà davvero
diverso. Proprio
come volevi tu, Isabel-.
|