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Chapter I
La
ragazza sedeva a terra al centro della sua stanza, le sue bambole di
pezza erano gettate a terra sul folto tappeto turchese, mentre sulla
grande finestra la pioggia ticchettava da più di due ore.
Aveva
ormai quindici anni, lo sapeva benissimo, ma non riusciva a separarsi
da quelle figurine di stoffa. Aveva dato loro dei nomi e aveva
inventato delle storie: la sua preferita era una bambolina con i
capelli legati, di un bel color verde acqua, ed era una ballerina;
per lei immaginava gli scenari più belli e i movimenti
più
eleganti, le piaceva pensare che volteggiasse e saltasse, proprio
come una specie di fatina... Diversamente da lei.
Posò
poi lo sguardo su un'altra delle sue bambole e l'afferrò
delicatamente. Le dita iniziarono a spazzolare i lunghi capelli rosa
e di nuovo la sua immaginazione ricominciò a creare gli
scenari
tipici di quella figurina. Luka, così l'aveva chiamata, era
una
guerriera capace delle migliori acrobazie e tecniche, sapeva
combattere e cavalcare: insomma, era una vera e propria amazzone.
“Signorina
Rin, posso entrare?” fece una voce dietro la porta chiusa a
chiave.
Il castello in aria di Rin venne per l'ennesima volta demolito, i
suoi sogni da bambina infranti per tornare di nuovo alla
realtà. La
domestica girò il pomello, ma la porta rimase chiusa. La
donna
sembrò subito irrigidirsi e chiese se la 'Signorina'
stesse
bene, la pregò di aprire la porta o come minimo di
risponderle.
La
pioggia sembrò diventare più forte e un tuono
riecheggiò per la
stanza. Rin lo associò al padre, severo e minaccioso,
perciò decise
di andare a girare la chiave ancora infilata nella serratura.
Abbandonò quindi Luka sul pavimento, sempre riservandole
tutti gli
onori e tutta la delicatezza che meritava, e si allungò
verso la
sedia a rotelle. La guardò con disprezzo e tirò
la leva del freno,
in modo che potesse arrampicarcisi in tutta sicurezza.
È
sempre così, maledizione!
Come
sempre, Rin si aggrappò ai braccioli rivestiti di velluto
rosso e si
mise in ginocchio sul poggiapiedi, per poi issarsi faticosamente a
sedere. Appena si assicurò di essersi seduta correttamente,
buttò
fuori tutta l'aria che aveva nei polmoni, mentre con la mano destra
sganciava la leva del freno.
Appena
la porta si aprì, il viso dell'anziana domestica
iniziò a schizzare
su e giù per tutta la lunghezza della ragazza. Il capelli
biondi
c'erano ancora, gli occhi azzurri erano sempre gli stessi,
così come
il delicato visino da angelo.
“Signorina!
Suo padre le ha severamente vietato di chiudere a chiave la porta!
Non ha pensato che le potesse succedere qualcosa?!”
“Lo
so già...” rispose atona. Cosa sapeva
già? Che non avrebbe mai
potuto camminare? O che nessuno sarebbe mai venuto a trovarla,
nemmeno i suoi genitori? Ne aveva fin sopra i capelli di quella
storia.
“Cosa
c'è?”
“Suo
padre sta tornando al fronte, non vuole andare a salutarlo?”
Rin
scosse la testa e si girò, per tornare a contemplare le sue
bambole
di pezza. Sapeva già che la domestica le avrebbe rinfacciato
il
fatto che magari suo padre non sarebbe tornato e che sarebbe stato
carino, o perlomeno educato, andare a salutarlo. Rin invece sapeva
che non gli sarebbe successo nulla, sapeva che non era uno di quei
soldati di fanteria che vengono mandati in prima linea a morire: no,
lui era uno dei pezzi grossi, quelli che stanno in una tenda a dare
direttive.
“Signorina...”
“Se
non hai nient'altro da dire, allora vorrei ritornarmene alle mie
faccende!”
L'anziana
signora s'inchinò e indietreggiò di pochi passi,
ovviamente
ricordando alla ragazza di non chiudere la porta. Rin fece spallucce
e condusse la sedia a rotelle vicino alle sue bambole, per poi
scivolare piano sul tappeto. Se lei non poteva camminare, beh, lo
avrebbero fatto i suoi alter ego!
Di
nuovo, qualcuno bussò alla porta, minando la pazienza della
ragazza
che si voltò di scatto. Era ancora la domestica. Questa la
guardava
con la solita espressione pietosa e amorevole, quella che si usa
quando si ha a che fare con un cucciolo ferito, ma subito i
lineamenti della donna cambiarono repentinamente: sapeva che Rin
odiava essere compatita.
“Che
cosa vuoi, ancora?”
“P-Più
tardi passerà un corriere con un regalo per voi da vostro
padre...
Per favore, quando arriverà ci lasci portare il regalo nella
sua
stanza...”
La
ragazza annuì e tornò a coccolare la sua
bambolina preferita, Miku.
Dopotutto non le importava quanto suo padre cercasse di comprare il
suo amore, tanto era sempre distante.
Ma
non lo era sempre stato, così come la mamma.
Chissà dove era
andata? Il papà le aveva raccontato che era tornata a vivere
dai
genitori, perché con loro non stava più bene.
Allora Rin aveva
replicato con un secco e sonoro: “Ma voi vi amate
tanto!”
Ci
aveva riflettuto tanto, per mesi forse. I due si amavano davvero, ma
qualcosa si era frapposto al futuro della loro famiglia. Era iniziata
una guerra e il padre era stato costretto a ritornare sul fronte,
quindi non aveva più tempo per loro.
“Non
credo sia per questo...” disse all'unica figurina maschile
che
aveva, di nome Kaito.
Infatti
sapeva che il vero motivo non era quello, ma bensì la sua
malattia.
Non ricordava mai il nome di quel male, sapeva solo che le impediva
di camminare. Era iniziato tutto quando aveva nove anni: un giorno si
era alzata e sentiva le gambe formicolare, tutto qui. Aveva chiamato
la mamma e lei le aveva detto di non preoccuparsi, che magari si era
addormentata in una posizione scomoda. Eppure le cose continuarono
per mesi, mentre la piccola Rin sentiva di perdere sempre
più
sensibilità.
Ma
le cose degenerarono completamente dopo la diagnosi del dottore,
all'età di soli dodici anni: infatti, il papà
aveva rimproverato
duramente la mamma per non aver fatto visitare prima la figlioletta e
da allora non avevano più smesso di litigare. Sembrava si
fossero
completamente dimenticati di lei, della sua malattia e di tutto
ciò
di cui lei aveva bisogno. Per loro era diventato più
importante
litigare, finché il loro litigi li avevano portati alla
separazione.
E
gli amici? Rin non ne aveva mai avuti, solo le sue bambole di pezza.
Il perché? Perché nessuno aveva mai osato
portarla fuori. Già le
sue condizioni di salute la costringevano su una sedia a rotelle, ma
ci si erano messi anche i suoi genitori, che non volevano farla
uscire di casa. Dicevano che non le faceva bene, che si sarebbe
ammalata e che poteva essere rischioso. Tutte scuse che l'avevano
portata alla solitudine.
“Basta
rimuginare...” fece stendendosi sul tappeto, con Luka e Miku
strette al petto. Diede un'ultima occhiata alla stanza e si chiese
cosa le avrebbe regalato di nuovo il suo papà.
Spero
siano altre bambole, almeno con loro posso immaginare di essere
qualcun altro...
Con
quel pensiero, i suoi occhi si chiusero e la ragazza cadde in un
sonno profondo.
*****
Il
ragazzo sedeva sulla sua poltrona
preferita, nella mano destra teneva un bicchiere di delizioso succo
d'arancia, mentre gli occhi azzurri erano puntati sui raggi di sole
che filtravano dalle tende. La giornata volgeva al termine e il
giovane aveva passato il tempo intrattenendo i suoi ospiti, tutti
grandi magnati e aristocratici. Era soddisfatto di quello che era
riuscito a fare e di dove era riuscito ad arrivare.
Chiuse gli occhi, sul viso angelico
si allargava un sorriso soddisfatto, mentre con la mente ritornava a
quel periodo buio della sua vita che finalmente aveva lasciato spazio
al sole. Suo padre era morto per colpa di un infarto, il medico aveva
detto che era stato causato dallo stress legato ai problemi
finanziari in cui si trovavano. Scosse la testa a quel ricordo, era
ancora doloroso, così come il doversi caricare sulle spalle
montagne
di debiti. Len aveva imparato a dirigere la fabbrica del padre,
spesso lo accompagnava e questo gli aveva insegnato molte cose,
mettendo da parte l'infanzia del ragazzino. Da una parte lo aveva
ringraziato, dall'altra provava un po' di rancore, ma non troppo.
Forse la parte più difficile era stata prendersi cura della
madre,
completamente distrutta dal dolore.
Len riaprì gli occhi e si diresse
verso il suo bel salottino, dove la mamma stava lavorando a maglia.
Tutto era migliorato, lei era uscita dalla depressione e i soldi
erano tornati nelle casse della famiglia. Insomma, tutti i suoi
sforzi erano stati ripagati.
Non
hai mica fatto tutto da solo!,
disse una voce nella sua testa. Succedeva spesso che sentisse
qualcosa, ogni volta che ripensava al miglioramento della sua vita.
Sapeva bene di non essere stato l'unico ad aver contribuito a tutto
ciò, c'era stato l'intervento di qualcosa fuori da lui,
qualcosa di
magico che per certi versi voleva la sua parte di merito. Che
sia pazzo?,
pensò per la
centesima volta, mentre schioccava un bacio sulla fronte della madre,
la cui bellezza era venuta meno con l'avanzare della depressione.
“Ti
voglio bene!” disse mentre usciva verso il giardino per
godersi il
sole tanto agognato. Che fosse anche quello il risultato di quella
strana magia? Len
pensò che magari fosse solo una coincidenza: dopotutto, quel
periodo
era stato durissimo e di uscire fuori non se ne parlava... Per lui
era come se piovesse sempre, nonostante le sporadiche giornate di
sole.
Ora però camminava con le mani
dietro la schiena nel suo bel giardino in fiore, il vento gli
scompigliava i capelli biondi che scappavano alla presa del suo
elastico, mentre fischiettava un motivetto accattivante e allegro. Si
era ormai dimenticato di quel giorno lontano, la fortuna aveva
iniziato a girare dalla sua parte e questo per Len bastava. Che fosse
un atto egoistico il suo lo sapeva, ma che altro avrebbe potuto fare?
Forse dimenticare, perché quel ricordo sembrava una
pugnalata al
cuore.
Era una fredda e piovosa
serata di
dicembre e, come al solito, sedeva da solo nel salotto. La mamma era
rinchiusa nella sua stanza, non voleva nemmeno parlare al figlio, che
sedeva sulla sua poltrona a fissare i lampi che illuminavano la
stanza immersa nel buio. Si era detto che non avrebbe sprecato
nemmeno un ciocco di legno per il camino, sarebbe rimasto al freddo
pur di non usare le ultime risorse della sua famiglia. Allora pensava
a come poter tirare avanti, cosa fare per riportare il regno
economico ereditato dal padre in auge, senza però dover
ricorrere a
metodi drastici come la prostituzione o lo strozzinaggio. Aveva
immediatamente rifiutato quelle idee, si sentiva addirittura sporco
per averci pensato, ma non vedeva altre possibilità. Tutti
si erano
infatti rifiutati di aiutare una società sull'orlo del
declino,
perciò il povero Len era rimasto da solo.
Fu allora che alla sua porta bussò
qualcuno. Si era alzato per aprire con il corpo pesante, come fosse
stato svuotato di tutte le energie, come se non volesse più
lasciare
la sua poltrona in stile Barocco e volesse morire là sopra.
Len si mise a ridere ricordando la
depressione in cui era sprofondato perché ora tutto andava
per il
verso giusto, ma un brivido lo attraversò da capo a piedi,
quando
gli sovvenne il sorriso cinico del suo ospite. Era in piedi davanti
la porta, coperto da un mantello grondante di pioggia, mentre la mano
era poggiata su un oggetto nascosto da un grosso telo.
Il
ragazzo non sapeva che fare, non voleva farlo entrare, eppure l'uomo
riuscì ad infilarsi in casa con un movimento fulmineo.
“Mi aveva
chiesto se conoscessi il
motivo della mia sfortuna... -fece tra sé e sé-
Come avrei mai
potuto sospettarlo?”
Infatti l'uomo gli aveva posto una
domanda stranissima, a cui nessuno avrebbe potuto rispondere.
Continuava a sorridere, a guardarsi attorno, mentre aspettava che Len
dicesse qualcosa. Fu quando il giovane iniziò a perdere la
pazienza
che mostrò l'oggetto che l'accompagnava.
“Se
vuoi sapere chi ha rubato tutta la tua fortuna, prova a guardare in
questo specchio!”
All'inizio era scettico, era
convinto che quell'uomo fosse l'ennesimo ciarlatano pronto a
togliergli quei pochi soldi rimasti. Era tutta questione di denaro?
Per l'uomo, doveva essere solo una questione di divertimento, il
biondino lo aveva sospettato dal principio.
L'uomo aveva un ghigno sul volto,
poi lo invitò ad avvicinarsi, mentre al posto del riflesso
del
ragazzo appariva l'immagine di una giovane che per qualche motivo gli
assomigliava in modo impressionante.
“Che fai? Ti
abbandoni ai
ricordi?”
Len si voltò e vide l'uomo a cui
stava pensando, con accanto il suo specchio. La sua espressione non
era diversa da quella dei ricordi del ragazzo che
indietreggiò di
pochi passi, scettico e sospettoso.
“Che ci fai
qui?!” chiese
aggredendolo con lo sguardo.
“Dovresti
mostrare un pochino di
gratitudine per quello che ho fatto per te!”
Il misterioso ospite riprese a
ghignare e a muovere la testa in tutte le direzioni, compiacendosi
dei risultati raggiunti dal giovane imprenditore. Iniziò a
complimentarsi per la bella casa e per il giardino ben curato,
iniziò
a fare moine riguardo al nuovo staff e ai nuovi abiti che Len
indossava.
“Quindi? Cosa
vorresti dire con
questo?” chiese il biondo.
“Che questo
è il risultato della
decisione di quella notte!”
Len socchiuse gli occhi e aspettò
che proseguisse. Ancora una volta, però, non riusciva a
decifrare
quel volto, nascosto in parte dal cappuccio del mantello. Quanti
anni avrà?, pensò poi, cercando di
capire meglio il suo
interlocutore. Un singolo particolare del viso avrebbe potuto fargli
capire che persona fosse, ma purtroppo per lui l'unica parte visibile
era la bocca, affiancata da un paio di ciuffi di capelli quasi
bianchi.
La misteriosa figura fece un passo
avanti e fece un cenno al ragazzo, invitandolo a mettersi di fronte
allo specchio. Chi avrebbe visto questa volta? Perché si
sarebbe
dovuto specchiare di nuovo? Purtroppo non lo sapeva e aveva paura di
scoprirlo.
“Avanti, vieni
a vedere!”
Len deglutì e si posizionò davanti
la lastra di vetro riflettente. Al posto del suo riflesso, vi era
l'immagine di una ragazza dai capelli biondi, seduta a terra e
circondata da diverse bambole di pezza. Sullo sfondo c'era una sedia
a rotelle.
Il giovane imprenditore ebbe un
sussulto e si voltò di scatto verso l'uomo: “Che
dovrebbe
significare?!”
“Ti ricordi di
lei, non è vero?
Ti avevo detto che era colpa sua, se la sfortuna si era abbattuta su
di te... Ora tu sei felice, mentre lei si è sobbarcata tutte
le tue
sventure! Cosa pensi possa significare?”
Len non rispose, era ancora intento
a fissare quella ragazza, privo di parole.
“Come, non lo
sai? Con il nostro
accordo, la ruota della fortuna ha ripreso a girare in tuo favore...
Ma non può andare bene per tutti! E lei non fa
eccezione.”
“S-Stai
insinuando che il suo
dolore sia... C-Colpa mia?” chiese titubante.
“Lo specchio
rappresenta le due
facce di una medaglia, luce e oscurità, bene e male...
Fortuna e
sfortuna. Cosa hai intenzione di fare? Lasciare che le cose procedano
così, oppure vuoi metterti contro lo stesso scorrere del
destino per
salvarla? La scelta è solo tua!”
Angolo
di Zenya ^^
Aaaaallora! Magari
qualcuno si ricorda di me col nome di Dark Sun o per la storia The
Servant's Story,
o magari è la prima volta che leggete una mia storia... Nel
caso, ciao a tutti!
Finalmente una
nuova storia,
eh? Come si suol dire, nuovo nome, nuova storia! Che ne pensate? Spero
che il primo capitolo di questa double o triple shot vi sia piaciuto
(sì, devo ancora decidere quanti capitoli saranno, ma direi
pochi) e vi invito a lasciare una recensione, mi piacerebbe
molto sapere cosa
ne pensate ^^ dopotutto questa storia si è letteralmente
scritta da sola :P
Beh, alla prossima
e un bacione a tutti i lettori, silenziosi e non!
Angoletto dello Spam
:P
- The Servant's Story
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2652590&i=1
- E se non ci fosse un Eroe?
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2957402&i=1
- Kingdom
Hearts: the Last Princess http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3258304&i=1
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