– Diciotto –
Matt
Sentire
la mia voce nel più totale silenzio mi fa sempre uno strano effetto. In quanto
a dilatazione dei pensieri trovo che assomigli tutto a una sorta di
infiltrazione nella mia testa da parte di altri, naturalmente consenziente,
dato che sono proprio io stesso a parlare.
Davanti
a me ci sono i miei compagni di squadra, numerosi tecnici della nazionale e
l'immancabile Rhys Jones. Come prevedibile, alla fine, anche giovedì è arrivato
e con lui il primo raduno dei convocati gallesi. Tradizione vuole che ognuna
delle figure con i ruoli più rilevanti tenga un discorso di benvenuto e incoraggiamento
verso tutti i giocatori, discorsi ripetitivi, sentiti e risentiti, che sono
ormai divenuti formalità, ma proprio per questo irrinunciabili.
Il
primo a parlare è stato Rhys Jones, con il suo tono calmo e i suoi modi di fare
paterni. Essendo nostro head coach da tre anni sa sempre cosa dire perchè
l'arrivo sia il migliore in assoluto. Dopo di lui è stato il turno dei vari
tecnici – che allenano trequarti e avanti – e, alla fine, è toccato a me. Per
quanto sia un evento già conosciuto, per quanto si tratti del primo giorno di
incontro per preparare i test match, che comunque non hanno lo stesso identico
valore del torneo delle Sei Nazioni o dei mondiali, è sempre un momento molto
solenne. Gli sguardi dei miei compagni di squadra sono rispettosi, così come lo
è il silenzio; mi guardano negli occhi e ascoltano attentamente. Credo sia
dovuto proprio a questo se mi sento sempre un po' sotto processo. Se poi
aggiungiamo il fatto che parlare in pubblico non è mai stata la mia passione, è
facile intuire come sto. Gesticolo mentre parlo, ascoltando il suono delle mie
parole come se fossi seduto proprio accanto ai miei compagni. Non suonano male,
sembrano addirittura essere convincenti, per quanto alla fine siano già state
dette.
Come
concludo il mio intervento mi zittisco, osservando i miei amici, in attesa.
Qualcuno fa qualche cenno di approvazione, ma nulla di più; è una formalità,
questa, e la nazionale gallese ci ha insegnato che nelle formalità vale più un
rispettoso silenzio che un complimento mascherato da battuta. Jones si avvicina
a me, mi posa una mano sulla schiena lanciandomi un sorriso e un'occhiata e
lasciandomi così il via libera perchè io possa tornare a sedermi.
Respira
a fondo e ci guarda tutti:
«Non
sarà facile, ragazzi miei, e lo sapete. Ma ho sempre creduto nelle vostre
qualità ed è questo il motivo per cui vi ho voluti qui. Ognuno di voi sarà
perfettamente in grado di dimostrare il proprio valore anche contro le
avversarie che andremo ad incontrare»
Nessuno
fiata. Il silenzio è surreale, ricorda tanto quello piombato alla conferenza
stampa per l'annuncio dei convocati nel momento esatto in cui ho cominciato a
parlare degli All Blacks. Anche ora, anche se indirettamente, sono proprio i
tutti neri a rendere il silenzio quasi spettrale, sono loro una delle
avversarie a cui Jones si riferisce. Sfidare i neozelandesi preoccupa e al
contempo eccita tutti noi, è inutile fingere che non sia così. Misurarsi con
loro è senz'altro un onore, ma anche una grossa responsabilità per coloro che
vestiranno la maglia rossa il 22 novembre.
«Ma
per farlo sarà necessario anche tanto esercizio e, vi garantisco, che da lunedì
sarà così» Jones termina con queste poche parole il suo intervento.
Ci
guarda negli occhi, uno a uno, sorridendo.
«Direi
che per oggi abbiamo concluso. Vi aspetto tutti qui domani mattina, per le foto,
interviste e... beh, già sapete»
Dopo
un lungo momento di silenzio le voci cominciano a levarsi. I ragazzi iniziano a
guardare negli occhi chi hanno seduto accanto, a lanciare sorrisi qua e là, a
darsi pacche sulla spalla in segno di ben ritrovati. Ci alziamo in piedi, le
sedie stridono, il volume delle parole aumenta e i primi commenti sui discorsi
appena ascoltati inizia a farsi largo nella stanza. Jones saluta tutti, uscendo
dalla stanza in cui siamo chiusi da più di un'ora, seguito dai tecnici. Io mi
guardo un momento intorno rendendomi improvvisamente conto di essere felice di
trovarmi qui. Ogni volta che ritrovo questi miei compagni, ogni volta che varco
la soglia della Welsh Rugby Union, che penso che avrò l’opportunità di vestire
nuovamente la maglia della nazionale, capendo di aver raggiunto un traguardo
davvero importante per me, mi sento emozionato come la prima volta. Era questa
la sicurezza che avevo bisogno di ritrovare, la certezza che sarà incredibile
anche questa volta, qualunque siano i risultati che raggiungeremo.
«Il
tuo è stato un bel discorso»
Mi
volto per vedere chi si sta rivolgendo a me, nonostante tono e voce siano
perfettamente riconoscibili. Paul è proprio davanti a me, la barba a mezza via,
la mascella da pugile – come gli altri si divertono a descriverla – e
l’espressione di chi è maledettamente felice di stare al mondo dipinta in
volto.
Gli
sorrido. Anche se ci siamo già salutati prima dell’inizio dell’incontro, è
sempre un piacere trovarselo davanti. Io e Paul siamo maturati insieme fra le
file dei Cardiff Blues, io come terza linea, lui come centro, un esplosivo
centro. È stato il primo a congratularsi con me per la mia nomina a capitano ed
è sempre riuscito a essermi d’aiuto nei momenti critici. Poi, un anno fa, ha
accettato un contratto di tutto rispetto per giocare in Francia, ed è volato
dall’altra parte dello stretto.
«Ti
ringrazio» mi limito a dire, per rispondere al suo complimento di poco fa.
«Trovo
che tu sia migliorato anche a parole. Stai crescendo»
«Considerando
che ho ventisei anni sarebbe anche ora» scherzo.
Lui
annuisce semplicemente, facendo un’espressione vaga. Infila le mani in tasca e
torna a guardarmi:
«Il
coach ci ha dato il pomeriggio libero, come alle gite scolastiche. Andiamo a
mangiare qualcosa?»
Controllo
l’orario, è quasi l’una. Nella sala da ricevimento della sede in cui siamo
hanno certamente preparato qualcosa, al termine di questi incontri è sempre previsto
un rinfresco. Tuttavia so perfettamente che Paul non si riferisce a questo, ma
a un pasto solo noi due, con birra e carne, per raccontarsi reciprocamente
qualcosa senza i pixel di Skype o la mancanza di
segnale dei telefoni cellulare.
«Questa
sera?» gli chiedo.
Annuisce:
«Torniamo
in quella birreria, quella che mi piace tanto, hai presente? …Dio, non mi
ricordo il nome»
«Parli
di quella in Chathedral Road, vero?»
Schiocca
le dita:
«Esattamente»
Si illumina: «Che ne dici? Io, te, una tagliata di manzo e una pinta di birra.
Scommetto che non hai mai ricevuto invito migliore»
«Effettivamente
ne ricevo pochi di inviti del genere»
«Perfetto,
allora stasera sei impegnato. Abbiamo diverse cose di cui parlare, ora che
abbiamo la possibilità di farlo»
Acconsento
con il capo, per poi rendermi conto che, così facendo, con molta probabilità
non avrei occasione di fare l'ormai abituale tratto di strada insieme a
Danielle. Ieri sera, quando siamo usciti, le ho detto che l'avrei informata
sugli orari di oggi e delle prossime settimane. In fin dei conti il Millennium
Stadium è proprio alle spalle di Arms Park, se ce ne fosse stata l'occasione,
magari di tanto in tanto, sarebbe stato bello poter rincasare insieme anche con
gli incontri della nazionale alle porte. Parlarne con lei finora mi è servito.
Le manderò un messaggio dicendole di non aspettarmi stasera, se sono fortunato,
forse, riuscirò a incontrarla lungo il tragitto.
*
A
quanto pare il locale è proprio come se lo ricordava Paul. L'ho capito perché
non si è guardato intorno a lungo, limitandosi ad acconsentire con il capo
sentenziando un "È proprio lui" appena varcata la soglia. Quando
giocavamo insieme venivamo spesso qui, anche se Arnold's era sempre la prima scelta.
Sono
le otto e mezza. La sera è calata sul mio primo giorno da capitano riconfermato
e, con sé, ha portato la pioggia; spero solo che non sia una sorta di segnale
premonitore. Purtroppo non sono riuscito a incontrare Danni a fine giornata ma,
quando le ho mandato un messaggio per dirle di non aspettarmi, abbiamo
cominciato a scriverci, cosa che si è protratta per un po'. Mi ha fatto gli
auguri per l'inizio di questo mio nuovo capitolo da capitano, dicendomi anche
che se mai avessi voglia di un'altra chiacchierata come quella di ieri sera mi
basta farglielo sapere. Un sorrisetto affiora sulle mie labbra ripensando a
questo, Paul, seduto davanti a me in attesa della cena, a quanto pare se ne
accorge.
«A
che stai pensando?» chiede, risvegliandomi dai miei pensieri.
Scuoto
la testa:
«Niente
di che» mi limito a rispondere.
Rimane
a guardarmi, certamente ha intuito che la risposta che ho dato poco fa non era
quella vera. Considerando che anche oggi, durante il pranzo alla sede della
Welsh Rugby Union al termine degli incontri, siamo praticamente rimasti sempre
insieme, le domande che ci sono rimaste da porci reciprocamente sono ben poche
e sento che lui sta per partire all'attacco. Fortunatamente il cameriere
ritarda di qualche secondo l'affondo del mio amico, raggiungendo il tavolo e
servendoci le nostre portate. Paul osserva quasi estasiato il suo piatto:
«Questo
mi era mancato» dice.
«Non
ti piace il cibo francese?» gli chiedo, pur conoscendo la risposta.
«Neanche
un po'. Praticamente mangio sempre le stesse cose»
Annuisco,
bevendo un sorso di birra. Il mio amico rigira un paio di volte il piatto sul
tavolo, come a cercare l'angolazione più invitante, visibilmente soddisfatto
della sua decisione.
«Comunque,
non credere di scapparmi» riprende poi, mentre io ho già affondato la forchetta
nel mio contorno.
«In
che senso?» domando, confuso.
Mi
lancia un'occhiata:
«Parlo
di ragazze, Matt. Te ne sei trovato una oppure continuerai a farti rincorrere
dai tabloid in eterno?»
Sorrido,
distogliendo lo sguardo. La risposta che darò ora a Paul sarà una risposta
anche per me, per questo motivo apro bocca e lascio che le parole escano
spontanee.
«Diciamo
che... c'è qualcuna»
Mi
guarda, portando immediatamente gli occhi su di me, smette addirittura di
salare la carne.
«Sei
serio?» domanda.
Abbozzo
un sorriso, pensando a Danni:
«Beh,
sì»
«E
che diavolo aspettavi a farmelo sapere?» sbotta.
Alzo
le spalle, decidendomi a mangiare la zucchina ancora infilzata sulla mia
forchetta.
«Perché
è tutto piuttosto recente»
Riprende
a salare la carne:
«Lei
come si chiama?»
«Danielle»
«E
come vi siete conosciuti?»
«Ad
Arms Park»
Non
aggiungo altro e Paul subito mi guarda per farmi capire che le informazioni
spicciole che gli ho dato non gli bastano: vuole, e deve, sapere di più.
Lo
accontento:
«Lavora
ad Arms Park. È una delle donne di servizio. Lo fa per pagarsi gli studi»
«Studi
in?»
«Storia
dell'arte»
Schiocca
la lingua:
«Perciò,
fammi capire. Questa, Danielle, giusto?»
Acconsento
e lui riprende:
«Ecco.
Lavora ad Arms Park per pagarsi gli studi universitari in storia dell'arte?»
Nuovamente
annuisco e lui inizia a tagliare il suo filetto.
«Però.
Te ne sei trovato una intelligente. Sei sicuro che valga la pena rischiare?»
Mi
strappa un sorriso, soprattutto per la sua espressione, un miscuglio perfetto
di provocazione e lode.
«È
proprio perché è intelligente che non riesco a togliermela dalla testa» dico,
quasi in un solo fiato, rendendomi conto che è la verità.
Il
mio amico rimane a guardarmi per un momento, dopodiché comincia a gustarsi la
sua cena, un sorriso amichevole stampato in faccia.
«E
lei questo lo sa?» chiede poco dopo, questa volta tenendo gli occhi bassi sul
suo piatto.
«No.
Direi di no»
Cala
il silenzio sul nostro tavolo, evito attentamente di incrociare lo sguardo con
quello di Paul che si sta preparando per un nuovo affondo, sicuramente quello
decisivo.
«Cos'è
che ti ferma? Sai di non piacerle o è fidanzata?» domanda.
«Nessuna
delle due»
«Allora
cosa?»
Mando
giù il mio boccone, sempre sotto lo sguardo di Paul, che osserva
alternativamente il suo piatto e la mia faccia. Sospiro:
«È
solo che...» comincio, ma non so come continuare.
So
cosa mi blocca ma non so come spiegarlo e, inoltre, non so se il mio amico mi
crederà. Prima che possa continuare, però, lui prende parola:
«Si
tratta di Meg? Pensi ancora a lei?»
Subito
lo guardo, stupito. Sentivo avrebbe tirato in ballo la mia ultima relazione,
quella che credevo essere la storia perfetta. Meg e
io siamo stati insieme per quattro anni prima che tutto cessasse, prima che
ponessi fine a quella storia. Ma le cose fra noi non funzionavano più, si erano
arenate in un mare di pretese e incomprensioni. Quando sono stato nominato
capitano del Galles per la prima volta, la prima vera volta, Meg era accanto a me a sostenermi. Con il passare del
tempo, però, gli impegni sempre più incombenti, tutto è crollato. Lei voleva
che dedicassi molto più tempo alla nostra storia, voleva che rinunciassi a
seguire tanto diligentemente i miei impegni da giocatore, che mi prendessi
maggior cura di lei. Quando mi sono reso conto che non aveva compreso cosa
significasse il rugby per me, quando ho capito che non condivideva il mio stile
di vita e non sosteneva la mia più grande e importante passione, l’ho lasciata.
Ma è stato comunque difficile porre fine a quell’amore, difficile superare i
giorni, le settimane e i mesi successivi, anche se ora so perfettamente di aver
superato la cosa. Tuttavia sono stati i miei impegni da giocatore sempre più
pressanti a complicare e distruggere poco a poco il mio legame con Meg ed è questo a spaventarmi. Temo possa succedere anche
con Danni, per tale motivo continuo a rimandare. Anche se Danielle comprende e condivide
la mia visione del rugby, non significa che lei sia disposta a stare con uno
come me, che nei periodi importanti per la nazionale vorrebbe stare accanto
alla propria ragazza ma è impossibilitato a farlo.
«Meg non c’entra» rispondo infine. «Ormai è passato più di
un anno, ho superato quella storia»
Il
mio compagno di squadra rimane a guardarmi, con il preciso intento di farmi
capire che ora, però, vuole una risposta degna di essere chiamata tale. Provo a
sistemare nella mia testa le parole, tentando di farle combaciare perfettamente
fra loro in una risposta sincera ed esaustiva.
«Te
l’ho detto, è tutto piuttosto recente. Con gli impegni della nazionale di ora
non sono sicuro che valga la pena farmi avanti con lei. A che scopo chiederle
se è disposta a mettere in piedi una relazione con me se poi, proprio nelle
prime settimane, io sono il primo ad essere assente e a trascurare la cosa?»
«Ok,
su questo non hai tutti i torti, lo ammetto»
Beve
un goccio di birra, il suo piatto che si svuota velocemente.
«Tuttavia,
lei sa questo? Che tu sei capitano, di tutti i tuoi impegni, gli allenamenti,
eccetera?»
Annuisco
e mi ritrovo a raccontargli di Danni mentre finiamo di cenare. Gli dico quello
che è successo in questi due mesi, il modo in cui ci siamo conosciuti, i nostri
rientri abituali, le uscite da Arnold’s,
i discorsi sul rugby. Cerco di descriverla meglio che posso, anche per far
capire al mio amico cosa mi abbia colpito tanto, e tanto in fretta, in lei.
Quando concludo aspetto la risposta di Paul, ma lui sembra non avere intenzione
di dire niente senza aver prima ordinato una seconda birra. Ferma un cameriere
e ordina – alla fine anche per me – dopodiché torna a guardarmi.
«Ho
perso un passaggio. Quando vi siete visti l’ultima volta?»
«Siamo
usciti a cena ieri sera»
Assume
una posa da pensatore, acconsentendo ripetutamente con il capo:
«Ciò
significa che sa dei tuoi impegni da capitano. Sbaglio?»
«Sì
che lo sa. Te l’ho anche detto»
«Beh,
allora è fatta» conclude, schioccando le dita.
Inarco
un sopracciglio:
«Non
è la stessa cosa. Sa dei miei
impegni, non vuol dire che è disposta ad accettarli»
Fa
un’espressione strana, una delle più assurde che gli abbia mai visto fare.
«Perciò
che vorresti fare?» chiede, scettico.
Distolgo
lo sguardo, pensando a una risposta. Non mi viene in mente niente e finisco con
il rispondere con un’alzata di spalle, una di quelle palesemente insicure. Paul
mi guarda:
«Ragionando
così non si cava un ragno dal buco, lo sai. Sarai capitano del Galles ancora a
lungo, prima o poi dovrai affrontare ciò che ti preoccupa tanto»
«Come
fai a esserne sicuro?» chiedo, riferito alla questione riguardante la durata
della mia nomina.
Si
illumina, come se non stesse aspettando altro:
«Perché
sei il più indicato» dice. «Fidati di me. Personalmente non vorrei avere un
capitano diverso da te»
Gli
sorrido in segno di ringraziamento. Ma è anche vero che Paul ha sollevato una
questione importante. Anche ieri sera, con Danni, non ho concluso praticamente
niente. La serata è stata rilassante e piacevole, proprio come immaginavo.
Avrei voluto chiedere alla ragazza di vederci di nuovo, ma sono stato frenato
dalla marea di impegni della nazionale. Non me la sono sentito di chiedere a
Danielle di replicare ancora, magari vedendo l’appuntamento futuro sotto
un’ottica diversa, come si guardano le uscite di coppia con il preciso intento
di costruire qualcosa che superi l’amicizia.
Sospiro,
per poi bere un lungo sorso di birra. Al nostro tavolo è calato il silenzio e
io so che Paul sta aspettando che mi chiarisca le idee da solo. Se il mio amico
ha ragione, se davvero il mio impegno da capitano è portato a durare nel tempo
– e, personalmente, lo reputo un tale onore che non riuscirei mai a rinunciarvi
– la questione con Danni si protrarrebbe e basta se mi ostino a ragionare come
sto facendo. Portare tutto questo avanti nel tempo mi farebbe solo correre il
rischio di perdere la ragazza e sento che non è ciò che voglio.
Alzo
gli occhi su Paul:
«Sai
di avere ragione» dico.
Lui
sorride:
«Io
penso che se Danielle è disposta a provarci adesso, durante la tua chiamata in
nazionale, starà con te per sempre» rende il suo gesto più romanzesco bevendo
dal suo boccale.
Mi
limito ad abbozzare un sorriso, in cerca di altro di cui poter parlare;
sicuramente il nostro discorso, giunti a questo punto, è considerato concluso.
Alla fine sono d’accordo con il mio amico, come gli ho già detto. Protrarre la
cosa non servirà a niente e, mi rendo conto, che non è neanche quello che
voglio. Avere a che fare con Danielle mi
piace e non riesco neanche ad accantonarne l’idea. Ora, l’unico problema, è che
con gli allenamenti della nazionale in arrivo – che oltretutto si svolgono fuori
Cardiff – non so quando avrò l’occasione di rivedere la ragazza.
Fortunatamente
ho il suo numero.