VILE CHI L'ABBANDONA (1)
Un tondo
perfetto la luna, espansa nel cielo nero in un alone
soffuso.
La luce bianca entrava dalla finestra aperta, inargentava i
contorni, e non riusciva a scaldarli.
Appena una bava di vento, la tenda sottile, un velo che ondulava
stanco, il corpo nudo -bello, ancorché nella sua
virilità
paga-, tremava un poco nella vestaglia damascata, lasciata
aperta contro il freddo di una notte d'autunno.
Respirò a fondo. Era vivo dunque, ancora, ancora e
nonostante tutto.
Volse lo sguardo alla lunga scrivania che di giorno lo vedeva assorto
in corrispondenze, relazioni e studi.
Chiuse la cintura con un nodo frettoloso, e
si sedette, gli occhi ancora al manto buio che si spingeva fin
dentro la stanza, senza trovare doppieri accesi a contrastarlo.
Una candela quasi consunta, una lettera aperta letta e riletta decine
di
volte, brunita contro la fiamma per farne affiorare la scrittura
segreta,
e più là un anello. Tre gigli incisi e
all'interno
una scritta.
Un ammonimento, una preghiera, un'allusione. Forse. O forse nulla
più di ciò che sembrava.
Vile chi l'abbandona.
Una mano alla fronte, gli occhi chiusi, eppure percepì il
fruscio leggero di altra seta, apparsa come ninfa segreta
dall'oscurità del corridoio. Lentamente si voltò,
altra
ombra avrebbe celato l'ombra scesa sui suoi occhi, gliel'avrebbe
risparmiata. Candida la pelle che occhieggiava tra i lembi del banyan,
nuda anch'essa. Morbida lo aveva accolto poco prima, lo reclamava forse
di nuovo, nel cuore già soffocata la sentenza. Lo sapevano,
lo
sapevano bene, tutte, che lui non si negava mai al piacere,
né
mai giaceva due volte con la stessa donna.
"Hans... ?". Nella voce suadente un lieve fremito.
"Tornate pure a letto, mia cara, e riposate. Domattina vi
farò riaccompagnare".
Non si accorse se indugiò, o se richiuse su di sé
la stoffa, in un pudore tardivo.
La sua mente era già altrove. Dall'unica donna che non
poteva avere il suo corpo, ma possedeva il suo cuore.
26 settembre 1791
Per due mesi non ho
avuto vostre notizie, né nessuno mi ha detto dove eravate ...
Maria Antonietta, ormai segregata a le Tuileries, aveva
affidato ad un amico, l'ungherese
Esterhazy, il compito di fargli avere l'anello. Lo aveva
indossato per due giorni, perché il suo sangue ne
riscaldasse il freddo oro.
Fersen lo strinse nella mano, portando poi il pugno alle labbra.
Immaginò il profumo del polso, il candore delle dita, le
labbra
di rosa che si posavano sull'ovale inciso prima di consegnarlo a
Esterhazy. E la speranza, nel cuore, che quel dono e il suo messaggio
lo raggiungessero.
La fuga che lui aveva organizzato si era conclusa disastrosamente.
Aveva sbagliato, più di una cosa. Il rimorso gli divorava le
viscere, come un mostro insaziabile.
I reali erano stati riconosciuti e catturati a Varennes. E lui li aveva
lasciati a Bondy. Lasciati.
Uno strazio indicibile essersi allontanato dalla loro carrozza, nemmeno
il conforto di un ultimo saluto.
E ora... avrebbe potuto ancora rivederla? Rivederla! Solo un'arrogante
illusione?
L'illusione di un uomo innamorato? O piuttosto di un
vigliacco?
Nulla più di questo ... Un vigliacco. Un vigliacco che
cedeva
alle lusinghe della carne, perché non riusciva a colmare un
vuoto immenso, la bestia che dimorava nel suo petto.
Amica mia ...
Si alzò di nuovo, alla finestra. La luna era ancora
là.
Lo irrideva il bacio degli amanti, profili intrecciati d'ombre nel
candore dell'astro dei poeti.
Amica mia ... se solo
avessi il vostro coraggio.
Bene non seppi cosa mi
portò
quel giorno da voi. Vi avevo riconosciuta infine a quel ballo. Io, il
solito sciocco vanesio, affascinato da una dama straniera, e nei suoi
occhi, una luce che conoscevo bene, eppure così impaurita e
amara.
Cosa volessi dimostrare, non saprei dirlo. Forse la
presunzione di
voler ancora cogliere in voi quello sguardo. Voi così eterea
e
irrangiungibile, voi così sdegnosa delle attenzioni degli
uomini. Oscar! Non avevo capito nulla... nulla di voi.
E quando fuggiste via
... mi avete
mai perdonato? In un solo momento avevo spazzato via ogni vostra
illusione e ogni amicizia tra noi. L'amore può essere solo
una
lenta agonia ... Questo ebbi l'ardire di dirvi! Quale crudele aruspice
fui!
Eppure, amica mia... Se
forse
rinsaldai un poco quell'antico legame salvandovi la vita, a Saint
Antoine ... e salvandola al vostro André... se pure dunque
un
poco salvai anche me stesso, quella notte... chissà cosa ne
fu
di voi.
Del vostro amore, Oscar.
Sciocco fui sempre, a
non accorgermene. Ma voi eravate un tale engma... un tale delizioso
enigma, per me.
Se solo avessi il vostro
coraggio!
A volte, sapete, Oscar
... mi cullo
nella speranza che voi... che almeno voi abbiate conosciuto la
felicità... e abbiate capovolto il destino che è
proprio
delle rose di Versailles... quello di sbocciare una volta, e poi
sfiorire.
Sì, amica
mia, io questo
spero. Che il vostro ardore e la vostra purezza vi abbiano reso
giustizia, fino all'ultimo, voi che siete un esempio per me, nonostante
tutto, di lealtà e forza... voi, per me, un esempio.
Lo ripeté, le mani sul davanzale, gli occhi ancora volti al
cielo.
Gli sembrò che un nuovo calore lo pervadesse. Che
un proponimento potesse farsi progetto.
Che fosse giunto il tempo di vivere, ancora, e rivedere, provare a
riabbracciare, la donna che amava. Che doveva farle sentire la sua
presenza. Non importa se non avesse potuto amarla come avrebbe
desiderato. Evidentemente non era nato per essere felice. Ma forse solo
per
essere suo.
Ora sapeva cosa fare. Forse lo aveva sempre saputo. Forse aveva solo
bisogno di una notte come quella per rendersene conto. Una notte che
denuda i tuoi fantasmi, o li cela troppo bene per averne.
Tornò al tavolo, accese la candela, e si mise a scrivere.
Alla sua regina. Al suo amore. A Marie.
Ora sapeva cosa fare.
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(1) Ho preso spunto da "Les grandes vies" di S. Zweig. La lettera di
Maria Antonietta a Fersen è vera, cfr. "Diary and
correspondence of Count of Fersen; relating to the Court of France", p.
164 e segg. Valentin Ladislas Esterhazy fu intimo amico di
Maria Antonietta.