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Pietatis Causa
1. Nella vita
ci possono essere scelte che se farai sai già che ti
pentirai, e se non farai non ti perdonerai mai.
Avrebbe potuto lasciarlo lì. Sarebbe stato semplice, sarebbe
stato ovvio. Forse, in qualche modo, sarebbe persino stato giusto. Se non
giusto, almeno necessario; se non necessario, inevitabile.
E dire che ne aveva avute di ragioni per voltare le spalle, e non erano
nemmeno poche. Anzi, erano molte, moltissime. Più di quante
lui stesso riuscisse a richiamare alla mente, ora, con i muscoli
dolenti e il respiro affannoso e gli occhi sbarrati ed increduli.
Decisamente, più di quante avrebbe avuto bisogno –
di quante chiunque
avrebbe avuto bisogno – di metterne sul piatto per dire che
sì, sì:
il sacrificio valeva tutto il guadagno e anche di più.
E forse avrebbe davvero dovuto farlo – di certo avrebbe
dovuto farlo. Era semplice, era chiaro, era ovvio. Bastava pensare al
guadagno.
Ma lui non aveva pensato al guadagno, perché lì,
su quel pianeta morente, da guadagnare non vi era più nulla,
neanche la speranza. Lì, su quel pianeta che già
aveva iniziato a contrarsi su sé stesso come cuore agli
ultimi battiti, il guadagno non lo vedeva. Il sacrificio sì,
invece, il sacrificio lo vedeva eccome. E, per un istante solo, per una
bontà di cuore e per un mero calcolo matematico…
per un battito, per un cuore…
lui aveva detto che no, non serviva ancora il sacrificio, si poteva
anche metterlo da parte, il sacrificio.
Era pura e semplice matematica, di quelle elementari che persino lui
capiva.
A…iu…ta…mi…!
Se c’è un corpo così
com’è, è perché il corpo
serve tutto. Se si nasce con un corpo così,
è perché è così che serve
per vivere bene – spesso, per vivere e basta.
È la regola dei corpi.
Verità biologica inconfutabile: non si sopravvive
con metà corpo amputato. E non occorreva essere una cima per
capirlo, e non occorreva neppure vedere gli organi interni riversi al
suolo come viscidi, enormi, inermi vermi violacei.
Non si sopravvive con metà corpo amputato. Basta formulare
il concetto per avere chiara la risposta, e se poi lo vedi non devi
neppure preoccuparti di rendertene conto.
Non aveva dovuto preoccuparsi di rendersene conto.
Ti…
prego…!
C’era la collera, e c’era l’odio e
c’era il potere straripante. Ma c’era anche quella
realizzazione, quella consapevolezza lampante che attenuava il resto
– non è la consapevolezza che rende tutti umani,
infondo, a dispetto del sangue? – e gli aveva impedito di
accelerare una fine inevitabile: il sacrificio, in qualche modo, era
stato già compiuto, e poco importava che la morte non fosse
ancora arrivata, perché era comunque lì.
Ti…
scon…giuro…!
Aiu…ta…mi…!
C’era stata la collera, e c’era stato
l’odio e c’era stato il potere straripante, ma
c’era stata anche quella consapevolezza che aveva attenuato
il resto e poi… e poi… e poi c’era stata la
pietà.
∞
Goku contava i respiri e contava i minuti, anche se, a conti fatti,
erano solo questi ultimi a pesargli sull’anima. Forse.
Più o meno. Pesavano di dolore, e i respiri pesavano di
colpa e vergogna e tradimento.
“Scusa, Crilin…” pensò,
rivolto ad un amico scomparso da troppo poco tempo perché la
nostalgia avesse già potuto prendere il posto del dolore.
Scomparso da troppo poco, e scomparso per sempre.
Inspirò ed espirò, tremante. Avrebbe accettato,
Crilin, perché era un buon amico, il migliore. Avrebbe
accettato anche se forse non avrebbe capito, come con Vegeta. Lo
avrebbe ammonito e avrebbe cercato di riportarlo alla ragione ma alla
fine si sarebbe comunque fidato di lui perché lui era Crilin, ed
era il suo migliore amico da una vita. O forse… forse non lo
avrebbe ammonito, anche se non avrebbe capito: d’altronde, la
situazione non era come con Vegeta, qui non ci sarebbero state
conseguenze, e non ci sarebbe stato un dopo. Ed era da questi pensieri
che traeva la forza di sradicarsi dai sensi di colpa, ed era per questi
pensieri che si vergognava. Vigliacco, oltre che traditore. Ma era
meglio vergognarsi di sé stessi che delle proprie azioni: i
pensieri, quelli, almeno, si possono nascondere.
Goku contava i respiri e contava i minuti, anche se, a conti fatti, li
stava solo scalando, in una sorta di inesorabile countdown che lo
separava da una coscienza di nuovo – quasi – pulita.
“Basta, quand’è che muori?”
pensò quasi, al colmo della frustrazione e della
disperazione, e si sentì in colpa, per questo. E si
odiò, per quella colpa.
Puoi provare pietà per un nemico morente, ma sentirti in
colpa per una morte che neppure gli hai inflitto, ma che si
è procurato con le sue stesse mani?
Ma Son Goku aveva il cuore tenero, Son Goku era buono, Son Goku aveva
pietà anche verso chi non meritava nulla se non
l’Inferno.
Per questo lo aveva raccolto e lo aveva salvato, per questo, pur
rischiando la vita, era riuscito a raggiungere la sua navicella e a non
lasciarlo ad una sorte che, di certo, era ampiamente meritata.
L’esplosione era stata tremenda ed era stata rossa di fuoco e
sangue: collera e ferite di un mondo al collasso per la superbia di
uno.
La navicella della Capsule Corporation si era ribaltata ed era stata
sparata nello spazio cosmico da quell’onda d’urto
immane che li aveva raggiunti appena oltre la stratosfera. Si era
bruciacchiata e si era capottata e li aveva sballottati come in una
centrifuga, ma aveva retto, perché portava la firma della
famiglia Brief.
Chissà cosa avrebbe detto, Bulma, di quel suo gesto. Ma
Bulma non era lì, era sulla Terra. Bulma, Gohan e Piccolo
erano a casa, erano vivi. Loro, per lo meno, laddove non era riuscito a
proteggerli era riuscito perlomeno a salvarli. Non come Vegeta, non
come Crilin…
‘Stai buono, adesso, e non tentare niente di
strano’ lo aveva ammonito, come se fosse necessario, come se
avrebbe mai più avuto la forza di fare qualsiasi cosa, come
se non fosse già condannato. ‘Troverò
un pianeta dove ti risistemeranno. Resta lì e fatti un esame
di coscienza, almeno per capire fino
a che punto non te lo meriti’.
Era stato duro, ed era stato tagliente. Ma era stato meglio
così, lasciargli credere che avesse delle colpe che avrebbe
fatto in tempo a scontare.
Gli aveva chiesto aiuto, anche se non lo meritava. Ma
d’altronde ‘più del modo in cui si vive
conta il modo in cui si muore’, ed il tiranno non aveva fatto
altro che riprodurre in morte la filosofia con cui era sempre vissuto:
sfruttare le debolezze degli altri per ottenere guadagni immeritati.
Goku, però, non poteva aiutarlo – e forse, in
qualche modo, era grato che questa possibilità gli fosse
preclusa, perché in quel caso no, non voleva immaginare cosa
avrebbe fatto. Non si sopravvive con metà corpo amputato e i
visceri riversi al suolo: verità inconfutabile.
Forse, più giusta sarebbe stata una morte rapida che ponesse
fine alle sue sofferenze, ma di certo, più umana era una
speranza, un’illusione di salvezza.
‘A…iuta…mi…!’.
‘Troverò un pianeta dove ti
risistemeranno’.
…Ed era quanto Goku potesse dargli, perché non si
sopravvive con metà corpo amputato: inutile prestare
l’energia ed accanirsi, non si sopravvive e basta.
Aveva comunque cercato un pianeta che avrebbe potuto aiutarlo
– se ci fosse stato qualcosa da aiutare, una ferita che
necessitasse di medicamenti e non del congedare ogni legge della natura
e della biologia.
E c’era Ethbera, a sedici ore di viaggio da lì.
Non credeva che la navicella sarebbe riuscita a trovare un pianeta, ma
lui non era più un Sayan semplice, lui era un Super Sayan ed
era buono e le aveva percepite, in lontananza, quasi invisibili, delle
minuscole, sfumate forze affini. Erano gentili, erano buone –
troppo, perché il tiranno morente avesse già
potuto averle contaminate. Troppo, perché meritassero di
avere il suolo del loro pianeta contaminato da sangue di mostro.
Ma il mostro non ci sarebbe comunque mai arrivato, dopotutto. A lui
bastava una meta, bastava l’illusione di una speranza, in
attesa della morte.
Aveva spronato i sensori della nave e questi avevano trovato Ethbera.
Era piccola, quella terra, ma ronzava di elettricità quanto
e probabilmente più della sua Terra. Un pianeta libero, e
avanzato.
Lo aveva detto a Freezer.
E sarebbe stato perfetto, se ci fosse stato qualcosa che poteva essere
salvato.
Erano passati… minuti. Quanti,
non avrebbe saputo dirlo. Aveva smesso di contarli, assieme ai respiri.
Ora rimaneva solo lo sfinimento e la disperazione, e poco importava che
quello fosse un nemico, che fosse il nemico. A vederlo
così… forse sarebbe stato davvero più
giusto lasciarlo su Namecc, forse sarebbe stato più umano
porre fine alle sue sofferenze.
Non si sopravvive con metà corpo amputato, ma magari si
resiste alla morte. E, diavolo, Freezer stava resistendo.
Goku lo osservava immobile, appoggiato al generatore gravitazionale al
centro della navicella, con le sopracciglia di nuovo scure e corrugate
e gli occhi sbarrati. Incredibile, c’era più
inquietudine nel veder morire un altro che non sé stesso.
Freezer era immobile laddove era stato gettato dai sussulti della
navicella, dopo che l’aveva lasciato cadere nella foga di
gettarsi sui comandi, e non aveva più avuto il coraggio di
muoverlo. Poco più addietro del torso mozzato, attaccato al
quale rimanevano solo un braccio ed la testa, era stato gettato il
bacino e le gambe e il braccio restante. Perché li avesse
raccolti, ora come ora neppure Goku poteva dirlo, ma forse la ragione
era sempre la stessa: se non puoi salvarlo, lascialo sperare.
Lo osservava da quella posizione addossata al generatore con occhi
carici del riflesso di quell’aggrapparsi ad una vita
già condannata e aspettava – sperava –
che morisse. E che morisse il prima possibile, perché
vederlo lì, rantolare e agonizzare e soffocare nel suo
stesso sangue era quanto di più disturbante avesse mai
visto, ed aveva la netta impressione che ne avrebbe ritrovata traccia,
nei giorni futuri, in un dolore al petto e negli incubi.
Freezer tossì, e gocce di sangue purpureo schizzarono sulle
piastrelle della navicella della Capsule Corporation. Porpora, il
colore degli imperatori giusti e sbagliati.
Era steso a pancia – la metà ancora attaccata al
cuore, perlomeno – in giù, e rantolava per
prendere aria. Il suo respiro non era più quello sibilante e
affannoso di chi tenta di resistere a un dolore, ma affannoso e
gorgogliante di chi sta affogando nel proprio sangue.
Goku non aveva smesso per un solo istante di guardarlo, e non aveva
capito neppure lui perché non fosse riuscito a muoversi da
lì, da quando Namecc morta era rimasta a fluttuare alle loro
spalle come polvere di stelle… Aveva voluto dargli una
speranza, anche se la possibilità di sopravvivere non
c’era, ma perché restarlo a guardare?
Cercò di ignorare la voce della verità che gli
suggeriva la meschina risposta: vedere il momento in cui il tiranno
avrebbe tirato le cuoia avrebbe significato vedere il momento in cui
sarebbe tornato a respirare senza colpa.
Aveva la bocca piena di sangue come un lago, Freezer, e forse anche la
gola. Ad ogni rantolo si smuoveva, formava bolle e piccoli schizzi, ma
non si spostava per lasciarlo respirare. Morire soffocato dal sangue:
degna fine di un tiranno.
Freezer fremette e tossì, uno spasmo istintivo per tentare
di liberare le vie respiratorie, ma quando tentò di
riprendere fiato, quando tentò di…
Sì stupì di sé stesso, Goku.
Più di questo che dell’aver rimandato la morte del
suo nemico, per quello un po’ si conosceva.
Infilò una mano sotto lo sterno del tiranno, sotto quei
muscoli abnormi e innaturali e tesi fino allo spasmo che tremavano di
dolore e sussultavano come lui cercava di respirare; infilò
una mano sotto allo sterno e l’altra gliela premette sulla
fronte e lo sollevò un po’ dal pavimento freddo,
perché il volto fosse girato verso al basso e non
orizzontalmente.
«Sputa» disse, indeciso se Freezer potesse sentirlo
o meno. I suoi occhi erano sbarrati, sottili come spilli, e se il
dolore non l’aveva ancora allontanato del tutto dalla
consapevolezza di sé presto ci avrebbe pensato
l’emorragia. Ma Freezer non era ancora morto, e Goku gli
aveva promesso a voce che lo avrebbe salvato e nella mente che gli
avrebbe dato il conforto della speranza nei suoi ultimi minuti.
Malgrado i sensi di colpa, quello era un regalo che poteva ancora
fargli, per quanto immeritato.
Lo tenne goffamente mentre tossiva, e più che spasmi
muscolari gli parevano convulsioni. No, non era davvero cosciente,
realizzò, o non si sarebbe lasciato toccare.
Non era cosciente e stava sputando sangue a fiotti, quasi un rigurgito
costante e aveva metà corpo amputato. E non si sopravvive,
con metà corpo amputato, anche togliendo
l’incoscienza e l’emorragia.
Ma Goku non lo lasciò, per quanto si sforzasse di toccarlo
solo con le mani ed al colmo del disagio – lo faceva sentire
titubante anche solo mettere una pezza sulla fronte di sua moglie per
abbassarle la febbre, figurarsi assistere Freezer che tossiva e sputava
sangue e aveva metà corpo amputato e le viscere che
fuoriuscivano.
…Ma era quasi
morto, e, finché ci fosse stato quel quasi…
Lo rimise giù con cautela quando si fu calmato, o almeno
così gli pareva. Era così che sopraggiungeva
infine una morte tanto contrastata? Con il tepore dopo le ultime
sofferenze?
«Dai…» sospirò, alzandosi
senza distogliere lo sguardo da lui. «Ti prendo un cuscino e
una coperta».
Non ebbe molto altro tempo da attendere.
Gli ripulì il viso dal sangue con una pezza umida e gli fece
scivolare un cuscino sotto la testa e gli stese il lenzuolo sulle
spalle e su quanto restava del busto.
‘Dormi un po’, finché non
arriviamo’ gli aveva suggerito, goffamente ed inutilmente.
‘Arriveremo su… Etkera…?
Etbera…? Uh … Beh, arriveremo fra qualche ora,
quindi fatti una dormita’.
Aveva da poco voltato le spalle che l’aveva sentito tossire
di nuovo, ed i suoi rantoli diventare più simili ad un
fischio di agonia.
Prima aveva quasi pensato ‘sbrigati a morire’, ma
questa volta non ebbe molto da attendere.
Stava sull’avvicinarsi di nuovo, quando ci fu un ultimo
spasmo più forte ed i muscoli del tiranno si rilassarono e i
suoi occhi si chiusero. Alle percezioni di Goku, il suo ki si spense
come un debole lume inghiottito dalle tenebre.
Il Sayan rimase immobile un istante per la sorpresa, poi
sospirò di un misto di sollievo e compatimento,
perché Freezer voleva davvero continuare a vivere ed aveva
resistito più di quanto chiunque avrebbe mai potuto fare, e
veder morire qualcuno, chiunque fosse, lasciava un po’ di
pietà nel cuore a chiunque l’avesse, un cuore. E
poi, era comunque una vita.
Magari, avrebbe potuto fargli visita all’Inferno, prima o poi.
∞
Lo aveva lasciato lì. Era stato semplice, era stato ovvio.
Era stato giusto.
Freezer era un mostro. Freezer era un genocida. Freezer era un tiranno.
Ma Freezer era anche un figlio e forse era un fratello e
forse… forse aveva una famiglia. E meritava una sepoltura,
nonostante tutto, e la sua famiglia, se ne aveva una, meritava un corpo
da piangere. Solo le bestie infieriscono sui cadaveri.
Per questo non se n’era sbarazzato. Per questo,
ciò che un tempo era stato Freezer, l’aveva
lasciato lì, sul pavimento.
Forse avrebbe trovato il modo di restituirlo, e se non ci fosse
riuscito l’avrebbe sepolto su un pianeta disabitato, magari
anche piacevole all’occhio. Ma non era poi così
importante: l’importante, era che fosse abitato da nulla che
respirasse. Perché Freezer era stato un megalomane, e di
certo avere un intero pianeta come tomba era buono, per un megalomane e
perché… perché nessuna creatura viva,
senziente o meno, meritava di avere la terra su cui era nata
contaminata dal cadavere di quel mostro.
Si svegliò ore più tardi, quando
l’atterraggio su Ethbera era ormai a distanza di qualche
pugno di minuti. Si svegliò infreddolito e fradicio, immerso
nella vasca da bagno, con i polpastrelli raggrinziti e
l’acqua putrida dello sporco che non aveva fatto in tempo a
lavar via prima di cedere alla stanchezza.
Freezer. Lo ricordò con un lampo incoerente, mentre
accendeva il getto dell’acqua calda e toglieva il tappo.
Oltre quella porta, su un pavimento coperto di sangue, c’era
ciò che restava di Freezer. Avrebbe dovuto occuparsene come
prima cosa, ma non aveva cambiato destinazione, prima di decidere di
lavar via il sangue – il sangue di entrambi loro –
e la stanchezza e di cedere all’oblio. Avrebbe dovuto
pensarci, ma non gli era venuto in mente. E ora aveva poco senso,
cambiare destinazione, perché mancavano pochi minuti
– forse un paio d’ore, a Ethbera.
Forse avrebbero potuto conservarlo gli abitanti – un
po’, giusto qualche giorno finché i muscoli non
avessero smesso di dolergli e le ossa, se non guarite, fossero state
abbastanza forti da sorreggerlo di nuovo senza appellarsi al ki. Non
meritavano il cadavere di quel mostro, ma forse avrebbero accettato, ma
se non l’avrebbero fatto li avrebbe di certo capiti. Non
l’avrebbe sepolto lì, però. Neppure se
si fossero offerti, sacrificandosi
per quel che al mostro era sempre mancato e che aveva sempre
disprezzato, la pietà umana.
Freezer non sarebbe stato sepolto su un pianeta abitato, neppure su un
pianeta abitato da meri animali. Perché Freezer era una
condanna senza appello, anche da morto. Perché i suoi
alleati avrebbero potuto volerselo venire a riprendere, o magari
avrebbero voluto farlo i suoi nemici. E se fosse capitato, nessuna
illusione: il pianeta che aveva ospitato il corpo di Lord Freezer, del
tiranno Freezer non avrebbe più avuto nessuna sorte, e chi
lo reclamava sua dimora tanto meno.
Uscì dalla vasca e scese nella stanza di sotto con solo un
asciugamano in vita, con la pelle che sanguinava dai tagli e dalle
abrasioni e dalla ustioni da ki che l’acqua aveva riaperto.
Si massaggiò una spalla, sospirando per impedirsi un gemito.
Dio, Super Sayan o no, non era ridotto bene.
Si vestì e si gettò sul letto sfondato*, fissando
il soffitto. Non aveva voglia di tornare di sopra, perché di
sopra c’era il cadavere di Freezer, e il cadavere di Freezer
gli ricordava le sue colpe verso chiunque avesse sofferto e fosse
scomparso per mano sua, e sul fatto che lui, mostrando pietà
al mostro, avesse quasi sputato, su quelle sofferenze.
Ma almeno… sospirò, almeno ora era finita. Ora
neppure Freezer soffriva più.
Cinque minuti
all’atterraggio sul pianeta Ethbera – condizioni
verificate, favorevoli alla vita terrestre.
La voce registrata, metallica, lo turbò dai propri pensieri
e lo fece sorridere, quasi ridacchiare. Questa era Bulma, poco ma
sicuro: questa era Bulma che lo conosceva e sapeva che non si sarebbe
ricordato di controllare qualcosa di vitale come la composizione
dell’aria, e quindi aveva fatto in modo che
l’annuncio lo avvisasse.
Salì al piano superiore sbadigliando e gemette quando quel
semplice gesto gli mandò una scarica di dolore che
partì dalla mascella agli zigomi alla testa ed al collo. Era
rotto dalla testa ai piedi, accidenti.
Dall’oblò, Ethbera era una terra giallastra e
violacea, a macchie. Più giallo che viola, però.
Chissà se assomigliava alla Terra, malgrado i colori.
Sembrava un luogo pacifico, sembrava un luogo caldo, sembrava un luogo
sicuro. Sembrava un luogo che non meritava di veder atterrare una nave
con il cadavere di Freezer il genocida, a bordo.
Distolse lo sguardo, mentre la nave iniziava le procedure di
atterraggio. Distolse lo sguardo e
vide Freezer.
Non era così che l’aveva lasciato. Non era
così che era morto. Perché Freezer era morto,
perché non si sopravvive con metà corpo amputato
e i visceri riversi al suolo… questo era ovvio, questo lo
sapeva anche lui.
…Ma non era così che l’aveva lasciato.
Freezer aveva la testa poggiata sul cuscino ed ora il cuscino era fra
il mento e le spalle e c’erano strisce purpuree, sangue
spalmato sul pavimento, sotto la sua mano. Come se avesse cercato di
muoversi, come se avesse cercato di strisciare. Ma Freezer era morto,
non poteva essere vivo… Lo aveva visto morire e Freezer
aveva metà corpo amputato e lui non lo sentiva, il suo ki.
Due minuti
all’atterraggio sul pianeta Ethbera – condizioni
verificate, favorevoli alla vita terrestre.
Si avvicinò con cautela, quasi con timore di quel corpo
mutilo.
Mancavano meno di due minuti all’atterraggio su Ethbera, una
terra buona, abitata da energie affini che non meritava di conoscere
neppure il cadavere
di Freezer. L’aveva cercata perché aveva cercato
un pianeta che potesse aiutare Freezer, perché potesse dire
al mostro che l’aveva trovato, perché potesse rassicurarlo, nei
suoi ultimi istanti di vita. L’aveva cercata non
perché Freezer la raggiungesse, ma perché morisse
nel conforto della speranza, non nella disperazione.
Era stata l’unica risposta che gli fosse venuta in mente, di
contro a quell’aiutami rantolato, ed era stato grato che di
scelta non ce ne fosse un’altra. Perché Freezer
era un mostro che non meritava nulla se non la peggiore delle morti e
l’Inferno, ma che si aggrappava alla vita con una ostinazione
quasi folle e Goku… Goku era buono, troppo buono e troppo
pietoso anche con chi non lo meritava affatto e per questo era stato
grato, che Freezer avesse metà corpo amputato.
Perché non si sopravvive con metà corpo amputato,
si muore e basta.
E Freezer era morto, doveva
essere morto, perché se non era
morto… se non era morto…
Esitò e gli sfiorò piano l’unico
braccio che restava, sporco di terra e sudore e sangue rappresi, si
chinò su di lui.
Mancava meno di un minuto all’atterraggio su Ethbera, e
Freezer non respirava. Forse era stato ancora vivo, prima, ma
ora… ora era morto. Ed era giusto così,
perché non si sopravvive con metà corpo amputato,
per questo Goku l’aveva preso con sé: per dargli
conforto prima della morte.
Sospirò, e c’era una nota di sollievo, in quel
sospiro. “Accidenti… che spavento”.
Lo aveva appena pensato.
Mancava meno di un minuto all’atterraggio su Ethbera, quando
lentamente Freezer sollevò le palpebre e, prima di
riabbassarle, lo guardò con occhi vacui ed un gemito sulle
labbra scure impiastricciate di sangue.
Oddio.
–
* Goku sfonda il letto nel suo viaggio verso Namecc, quando ci si butta
di peso senza aver prima disattivato il generatore di
gravità – Dragon
Ball Z, episodio 49, “Vegeta contro Dodoria”.
Campagna
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Farai felice milioni di scrittori!
Chiunque voglia aderire a tale iniziativa, può
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(© elyxyz)
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