Ciao ragazzi! Questa breve storia
è arrivata prima in pari- merito alla "Gara dei Prompt" di
Mokochan, che mi ha dato
l'occasione di scrivere di un personaggio che mi affascina molto, ma sul
quale purtroppo non ero ancora riuscita a
stendere una riga:
Itachi
Uchiha. Spero che il brano vi piaccia - è estremamente
consigliato se avete voglia di un po' di sano angst
- e sentitevi liberi di lasciarmi un pensiero, se vi va! Mi farebbe
molto
piacere.
Questi
sono i prompt che ho scelto:
"He's
haunted by the memory
of a lost paradise|In his youth or a dream, he can't be precise|He's chained forever to a world ~
that 's departed| It's
not enough, it's not enough"
Sorrow dei Pink Floid
Ossimoro
~
Liquore ~
Ps.
Consiglio
caldamente di leggere il brano con la
canzone del prompt in sottofondo, atmosfera a palate.
Buona lettura!
Hisako
Il
liquore
scese giù velocemente, andandosi a mischiare a quel groppo
pesante e
anestetizzato che aveva nel petto. Lasciò una scia bruciante
lungo l’esofago,
ma per il momento i sintomi molesti del sakè parvero ridursi
a quello soltanto.
Itachi Uchiha non era mai stato un bevitore, nei suoi diciassette anni
scarsi
di vita.
Non si riprometteva di diventarlo, in ogni caso –
l’alcool era uno dei vizi
peggiori in cui poteva impantanarsi uno shinobi – ma aveva
deciso di concedersi
un’eccezione. Kisame aveva insistito così tanto.
“Se non ti porto a bere qualcosa proprio adesso –
aveva detto quel pomeriggio
il suo compagno di squadra – finirai per morire senza aver
mai provato
l’ebbrezza di una bella sbronza. Vedrai, ti tirerà
un po’ su il morale.”
Itachi non era stato particolarmente convinto da quella affermazione,
ma nel
suo intimo aveva deciso che un piccolo strappo alle regole poteva anche
concederselo, al punto estremo in cui era arrivato della sua vita.
La testa iniziò a girargli leggermente, mentre un calore
diffuso gli risaliva
per le membra. Probabilmente non era il massimo assumere sostanze
alcoliche
poco dopo il palliativo per la cura del dolore, ma in quel momento
gliene
importava ben poco. Dopotutto poteva anche essere considerato
piacevole, in un
certo modo.
Kisame aveva garantito che un po’ di alcool donava qualche
ora d’oblio, e
Itachi aveva tutta l’intenzione di goderselo fino in fondo.
La
ragazza gli sorrise alla luce della luna che entrava dalla finestra.
“Che ci fai qui, a quest’ora?” chiese.
Gli
ultimi tre giorni erano stati insopportabili.
Erano ormai settimane che Itachi non aveva più voglia di
mangiare, ma in quei
tre giorni aveva perso le forze per farlo del tutto: il dolore al petto
e la
tosse erano diventati così forti e insistenti che era stato
costretto a giacere
sulla sua branda piegato in due per ore, e infine era stato costretto a
confessare a Kisame il suo malessere. Prima aveva cercato di ignorarlo
in ogni
modo: no, non era possibile che si fosse preso qualche malanno, il
lavoro da fare
per Akatsuki era troppo urgente, e poi sicuramente doveva trattarsi di
un
disagio passeggero. Un disagio passeggero che non aveva fatto altro che
aggravarsi, fino a fargli sputare sangue.
“Carcinoma.”
Aveva sentenziato il medico di periferia che lo aveva esaminato quella
mattina,
dopo le prime analisi. Aveva una faccia inacidita da topo, dietro le
lenti
spesse degli occhiali.
“Non so ancora fino a che punto, ma temo che sia a uno stadio
parecchio
avanzato, ragazzo.”
Non importava, rispose Itachi, bastava che gli desse qualcosa che
calmasse il
dolore per permettergli di lavorare, dato che aveva faccende parecchio
importanti da sbrigare.
“Temo che tu non abbia capito. – aveva risposto il
dottore, con la dolcezza di
un limone spremuto negli occhi – Se sei molto fortunato
vivrai ancora per un
anno, con l’operazione e le terapie. E sicuramente devi
smettere subito di
lavorare per chiunque sia quel farabutto che ti paga, se non vuoi
morire nei
prossimi due mesi.”
Ovviamente quel medico apparteneva al giro della malavita e sapeva di
trovarsi
davanti un nukenin, era piuttosto abituato a reazioni del genere: fu
quindi
l’inizio di una lunga discussione. No, non era assolutamente
contemplabile per
Itachi ritirarsi dalla vita da shinobi e no, non era disposto a
sottoporsi a
un’operazione che aveva il quaranta per cento di
probabilità di ucciderlo sotto
ai ferri. Sì, aveva un’aspettativa di vita di sei
mesi. In qualche modo si
sarebbe arrangiato. Era un genio lui, se la cavava sempre e
l’avrebbe fatto
anche stavolta.
Alla
fine erano giunti a un compromesso e il medico gli aveva prescritto una
lista
infinita di farmaci da prendere: ormoni per arrestare lo sviluppo delle
metastasi, regolatori, cinque o sei anti-dolorifici differenti.
Gli effetti delle medicine gli avevano già acquietato le
martellate costanti
che sentiva sui polmoni, ma quell’altra angoscia gli era
rimasta impressa nella
mente come un nuovo sintomo inaspettato della malattia: sei
mesi di vita
- Sasuke era ancora un bambino, ancora non aveva speranze di
vendicare il
clan… non in sei mesi, solo sei mesi… -.
Aveva accolto la notizia come aveva sempre fatto di fronte alle pessime
notizie
- deglutendola in silenzio senza esternare la minima
preoccupazione - ma
il suo autocontrollo perfetto aveva vacillato; lavorare per Danzo aveva
significato inghiottire bocconi amari, ma almeno poteva digerirli
pensando che
era per la sicurezza e il benessere di Konoha. Ora invece non
c’era nessun lato
positivo, nessun bene superiore per il quale soffrire. Solo dolore e
una morte troppo
vicina. Solo sei mesi.
Se ne sarebbe fatto una ragione, ma non quella sera.
Quella sera voleva solo dimenticare.
Buttò giù un altro sorso di sakè
bollente.
Le
mani della ragazza stavano accarezzando, lentamente, i lunghi capelli
neri
appoggiati sulle spalle.
“Certo che non me lo aspettavo…non
ancora…”
Oblio?
Poteva Itachi Uchiha conoscere l’oblio, anche con
l’aiuto dell'alcool?
Quella sì che era una questione interessante, da
approfondire: la Radice – muri
claustrofobici, luce elettrica – addestrava i
bambini a sopprimere le
emozioni, e persino gli esterni che entravano nel corpo Anbu
– come Itachi,
Itachi era stato un bambino esterno entrato nel gruppo Anbu
– apprendevano
come liberarsi dei tumulti del cuore umano. Aveva imparato a isolare
dalla sua coscienza,
per poter essere d’aiuto al suo paese, le esperienze dolorose
- che poi
erano finite nei polmoni, gettate fuori dalla testa si erano annidate
nei
polmoni, formando quella cosa che lo faceva stare male -.
In quel momento i volti del suo migliore amico, di suo zio, di suo
fratello, di
suo padre, di sua madre, le loro facce eteree erano tornate davanti ai
suoi
occhi come spettri: non li aveva mai visti così vicini e
presenti, così vivi e
dolorosi nella memoria, mai così terribili come ora, che le
sue barriere
mentali erano state infrante da quell’ebbrezza
nauseante…
Una mano grossa e mascolina gli si abbatté sulla schiena,
era Kisame. La sua
faccia azzurra appariva sfocata nella penombra di lampade a olio del
locale.
“Su – disse lo squalo – non lasciarti
intimidire. I primi due giri ti
stordiscono, ma c’è un unico modo per far passare
la nausea: i terzo lo devi
buttare giù tutto insieme! Vedrai come ti si schiariscono le
idee.”
E portò alla bocca il suo bicchiere, dando esempio di quello
di cui stava parlando;
poi riempì anche quello di Itachi, che subito lo
imitò. Il liquido bruciò come
acido.
Il
sangue rosso sporcava il suo viso bianco come la neve.
Un sorriso macchiato di scarlatto, immobilizzato
nell’ossimoro eterno
dell’amore e della morte.
“…Itachi…”
Ma
chi era quella ragazza che chiamava il suo nome?
Aveva qualcosa di familiare, come un profumo a lungo dimenticato che
riconduce
alla via di casa, sepolto sotto le macerie della memoria. Erano anni
che non
ripensava a quel volto.
Ora, oltre a suo padre e a sua madre, oltre al suo migliore amico
suicidatosi
di fronte ai suoi occhi e oltre a tutta quella vita che si era caricato
sulle
spalle – una famiglia da sterminare, un ordine
disobbedito, un fratello per
mantenere l’onore perduto – oltre a
quella vita pesantissima, era apparsa
lei. La testa continuava a girare, e quella fanciulla era come tornata
a galla
dal vortice di ricordi dimenticati: da un po’ di tempo ormai
la sua voce gli
sussurrava nella mente, sottovoce, ma solo si era effettivamente reso
conto
della sua presenza. Concentrandosi poteva provare a inseguirla.
Più
lontano, in un tempo perduto;
erano bambini e correvano sotto i ciliegi in fiore.
L’unica cosa importante era godersi il giorno di festa.
Sì,
ora la ricordava. Era quella bambina che gli sorrideva sempre, seduta
sugli
scalini di casa, quando lui passava lungo la sua via nel quartiere del
Clan
Uchiha. Quella ragazzina timida che era riuscita a strapparlo per
qualche ora
dagli studi dell’accademia per convincerlo a giocare a
rincorrersi sotto agli
alberi del viale dietro casa. L’aveva completamente
dimenticata. Il suo sorriso
era stato sepolto dal sangue con cui Itachi si era macchiato le mani,
in
quell’orribile notte di sterminio, e si era perso come un
paradiso perduto,
lontano, in un passato che era troppo doloroso per poter essere
ricordato.
Un passato che ritornava a perseguitarlo, come un fantasma, dopo tutto
quel
tempo…
O forse non l’aveva mai conosciuta davvero e quello era stato
solo il sogno di
una fugace notte estiva: difficile essere precisi con tutto
quell’alcool nel
suo corpo e quella sensazione di anestetico nel cervello.
La
spada la trapassava da parte a parte, penetrata dolcemente nella sua
carne. Più
velocemente possibile, senza nessun dolore. Era stato un attimo, non
aveva
avuto il tempo di emettere nemmeno un gemito, solo – gli era
parso, a fior di
labbra – il suo nome.
“…Itachi…”
Quella
ragazza gli aveva rubato un bacio sotto alla tettoia, quando nessuno
guardava.
Era primavera, e loro avevano dodici anni. Come poteva Itachi essersene
dimenticato…?
Sì, ora la ricordava perfettamente, era come se ce
l’avesse avuta di fronte che
gli tendeva le mani: pelle bianchissima, capelli di seta e due occhi
dolci come
lamponi maturi. Le aveva voluto bene. Si può parlare di
amore, per due bambini
che si tengono per mano? No, probabilmente non è
appropriato: due bambini si
amano a modo loro, in un modo leggero, come due farfalle che si
inseguono nel
vento. L’ineffabilità di quell’amore lo
rendeva ancora più vero, più magico,
perché quella ragazzina era stata il suo raggio di sole una
volta, tanto
intenso da diradare le prime nubi che si affollavano sul suo cammino.
Le aveva
voluto bene per davvero, prima di perderla nei meandri delle sue
tragedie.
Era
notte, la notte del destino degli Uchiha. L’uomo mascherato
stava massacrando
gli uomini e le donne del clan ma Itachi gli aveva chiesto lasciare in
vita
qualcuno, perché voleva occuparsene personalmente. Non
sapeva nemmeno lui bene
perché, avrebbe sofferto molto di più; forse, era
la sua coscienza che gli
imponeva di guardare negli occhi almeno suo padre e sua madre
un’ultima volta,
nel momento in cui li avrebbe traditi, e non lasciar fare il lavoro ad
altri
come un codardo.
Poi, voleva vedere anche lei. Lei che era delicata come un fiore,
Itachi non
avrebbe permesso all’uomo mascherato di toccarla.
Entrò dalla porta d’ingresso della sua casa senza
emettere un suono, si diresse
deciso verso la camera da letto.
Fece scorrere la porta di legno leggero e la trovò
là, adagiata con grazia nel
suo futon, immersa in un sonno lieve. La sua figura esile era
illuminata dalla
luce bianca ed eterea della luna piena che entrava dalla finestra, il
volto
sembrava perso in un’estasi perfetta. Itachi
avanzò e lei udì i suoi passi,
destandosi all’improvviso. Si sollevò e la
vestaglia bianca scivolò sul suo
collo sottile.
Non capì quello che stava succedendo. Sorrise.
Gli chiese cosa ci facesse lì a quell’ora e
arrossì. A cosa stava pensando?
Itachi lo sapeva, e aveva pensato che sarebbe stato bello, se la loro
vita
avesse coinciso con i sogni della sua ragazza. Una storia semplice,
serena e
romantica nella sua normalità.
Ma la vita era così crudele.
Aveva estratto la spada ma lei aveva continuato a sorridere. Forse
aveva capito.
Bastò un solo colpo. Nessun dolore.
Una pozza di sangue fra le lenzuola.
“…Itachi…”
“È
meglio se ora ce ne torniamo al covo Itachi, non mi pare che tu possa
sopportarne di più. Non hai una bella cera. Cosa
c’è, ti è entrato qualcosa in
un occhio? Ah, maledetto locale polveroso, dovrebbero fare un servizio
migliore
con tutti i ryo che gli abbiamo lasciato! Forza,
appoggiati a me.
Andiamo a casa a dormire che ne abbiamo bisogno tutti e due.”
Ormai
era troppo tardi, la barriera di oblio era stata infranta. Lei
era
riemersa, dopo essere stata cancellata con la forza marziale di una
pratica per
cancellare l’umanità degli assassini, e ora non se
ne sarebbe andata mai più.
Ma Itachi ne era felice, non poteva negare di doverle come minimo
chiedere
perdono dopo averla abbandonata così. Sì. Presto
sarebbero stati di nuovo
insieme, tutti e due, con sua madre e suo padre.
Mai aveva sentito la morte così
vicina.
Mai aveva così tanto amato un
fantasma, una tragica gioia, un
sorridente rammarico.
“…Hisako…”
*Il
significato di Hisako è “bambina dalla lunga
vita”. Cattiva,
cattiva me XD
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