Two stories in the
night
Sara Vitali
Me ne sto seduta al bar davanti al bancone di legno, giocando con il manico del boccale di birra mezzo pieno che sta
davanti a me e ascoltando “Piano Man” di Billy Joel
agli altoparlanti quasi completamente scassati. In questo bar non
c’è quasi nessuno, cosa che non guasta
all’atmosfera sudicia e raccolta che impregna
l’aria. Il barista è sparito dietro
l’angolo, a fare chissà che cosa, quindi qui
dentro sono praticamente sola: c’è solo un altro
tizio seduto ad un tavolo lontano da me e un cane bagnato fradicio
sdraiato sul pavimento accanto alla porta d’ingresso.
Nessuno sa perché sia a Belfast, lontano da casa, lontano
dai miei genitori, lontano dal mio ex fidanzato che mi assilla da quasi
quattro mesi. Sono scappata, questo è il punto. Ho
approfittato della prima occasione e sono fuggita da Genova per non
vederlo mai più. Era arrivato a stare due giorni sotto al
mio portone, in attesa che io mettessi un piede fuori casa.
Spero che non gli venga mai in mente di venirmi a cercare in Irlanda
del Nord. Specialmente a Belfast.
- Ti spiace se mi siedo?
Una voce profonda e improvvisa mi fa sobbalzare e spostare con una
manata il boccale di birra. Mi volto verso lo sconosciuto, pronta a
rispondere freddamente, ma riconoscere colui che mi ritrovo davanti mi
fa cambiare idea quasi all’istante.
Kit Harington. Chi vuoi che non lo riconosca, in tutto il mondo? Il
prode Jon Snow, uno degli attori del Trono di Spade che più
rubano il cuore alle fangirl impazzite fin dal primo episodio della
prima stagione.
Ha indicato il sedile di pelle mezzo strappato accanto a me, e aspetta
una risposta mentre io lo fisso inebetita.
Coraggio, ripigliati!
Mi schiarisco la gola. – Certo.
Mi volto in fretta verso il bancone incrociando le braccia, tentando di
non sembrare impacciata. Afferro il boccale di birra e bevo un sorso,
evitando il suo sguardo.
Lui fa un mezzo sorriso e si siede, mentre “Piano
Man” continua a suonare. Fa un cenno al barista che,
chissà da quando, sta riordinando le tazzine da
caffè poco lontano da noi e ordina un Metropolitan. Sollevo
le sopracciglia e bevo un’altra lunga sorsata di birra.
Che faccio? Attacco discorso? Sarebbe un’occasione sprecata
non farlo, apparentemente qui non c’è nessuna
fangirl impazzita in procinto di assaltarlo.
Bevo un’altra sorsata e sbatto il boccale vuoto sul bancone,
provocando un rumore sordo.
- Giornataccia?
Oddio. Ha parlato. A me. Mi sento addosso i suoi occhi scuri.
- Periodaccio – mi limito a rispondere, sorpresa della mia
audacia. Lui non risponde, così restiamo in silenzio per un
po’: ne approfitto per riflettere e per osservarlo di
soppiatto.
Caspita, penso, è davvero bello.
Capelli ricci e neri, occhi neri, barba nera, vestito con jeans neri e
una maglietta nera aderente che lascia intravedere gli addominali e
giacca di pelle marrone cappuccino. Total black, insomma.
Ok, Sara. Parla.
- Sei Jon Snow o mi sbaglio?
Mi guarda di traverso e risponde facendo di nuovo quel sogghigno.
- Sì, sono io. Kit – Mi porge la destra.
– Kit Harington.
- Sara Vitali. – Rispondo stringendogliela.
- Cosa ti porta a stare qui da sola, Sara?
- Lunga storia.
- Puoi raccontarmela?
- Beh, io non sono qui a farmi gli affari tuoi – ribatto
aspramente. Ok, amico, sei famoso, ma non invadere la mia sfera
personale.
Sorride ancora. – Punto tuo.
Qualcosa di strano attraversa i suoi occhi scuri, qualcosa che non
riesco bene a cogliere. Forse una scintilla di divertimento o di
scherno?
- Lascia che ti offri dell’altra birra, per farmi
perdonare… Guinness?
Annuisco, ciucciandomi il labbro inferiore in un tic istintivo che mi
porto dietro sin dai primi giorni della mia vita.
Kit alza una mano verso il barista, quello si avvicina e lui gli chiede
dell’altra Guinness porgendogli il boccale, discreto, come
gli stesse confidando un segreto o chiedendo una partita di cocaina.
“Piano Man” è finita da un pezzo,
sostituita da “Shelter From the Storm” di Bob Dylan.
La mezza pinta di Guinness arriva quasi subito e vedo che Kit per un
attimo mi osserva portarla alle labbra e berla, prima di finire il suo
Metropolitan e chiedere un whiskey irlandese liscio.
Passa qualche silenzioso minuto, rotto solo dalla musica in sottofondo.
- Vorrei davvero sapere qualcosa di te. Se per te non è un
problema.
Appena mi riprendo dal sorso di Guinness che mi è andato di
traverso appena ha aperto bocca finisco il boccale in pochi sorsi e
comincio a sentire la testa più leggera. Chiudo gli occhi e
sospiro, massaggiandomi la tempia con un indice. So cosa sta per
succedermi. Dicono che l’alcool sciolga la lingua: beh, a me
la scioglie anche troppo.
- Facciamo così: puoi chiedermi quello che vuoi, ma hai solo
tre domande. Scegli accuratamente.
Kit inspira l’aria fra i denti, butta indietro le spalle e
ride. – Affare fatto.
- Ok – mi sistemo meglio sullo sgabello e volto verso di lui.
– Spara.
Appoggia il gomito sul bancone sudicio, in posa quasi provocatoria. -
Da dove vieni?
- Italia. Come mai sprechi così la prima domanda?
- Oh, beh, hai un accento strano e sembra che tu ne vada fiera.
Comunque sono io che faccio le domande qui. – Strizza
entrambi gli occhi continuando a sorridere, come se cercasse di farmi
l’occhiolino ma non ne fosse capace.
Alzo gli occhi al cielo e appoggio la testa sulla mano, in attesa della
seconda domanda.
- Come mai hai quelle occhiaie?
- E’ da un po’ che non riesco a dormire. Il mio ex
mi assilla, per questo sono a Belfast.
Come avevo detto, l’alcool mi scioglie troppo la lingua.
- Ex-fidanzato?
- Ex ragazzo. Mi segue da un po’, per questo sono qui in
Irlanda. Spero che così lontana da casa non riesca a
trovarmi.
- Capisco. – Si adombra per un attimo. Prende il bicchiere di
whiskey davanti a sé e lo caccia giù per la gola
come fosse acqua.
Io mi passo una mano sugli occhi e mi piego sulle gambe, in preda ad
una nausea improvvisa. Lo stomaco sta facendo le capriole, porca
miseria.
- Are you okay?
Alzo un dito facendogli cenno di aspettare, ma lui ha già
capito come si sta mettendo la situazione e prima che mi possa
ribellare mi afferra una mano e mi trascina quasi correndo fuori dal
bar, nella gelida aria autunnale irlandese.
- Un po’ d’aria ti farà bene.
Tengo le mani sulle ginocchia, appoggiandomi al muro. Sto aspettando
che la testa smetta di girarmi, mentre sono scossa dai brividi in tutto
il corpo per il freddo.
Sento la porta del bar che si riapre e si richiude, e il contrario dopo
pochi secondi. Poi, improvvisamente, vengo avvolta da qualcosa di caldo
e dal profumo maschile incredibile. Alzo gli occhi: Kit mi ha
appoggiato la sua giacca sulle spalle.
- Grazie. – Sospiro. – È passata.
Alza un pollice in segno di approvazione. Solo ora realizzo che nessuno
fra i passanti lo riconosce solo perché ha in testa un basco
che prima non avevo notato. Visto di fianco deve sembrare uno come
tanti altri.
- Tutto a posto?
- Sì, grazie.
Kit tira fuori dalla tasca dei pantaloni un pacchetto di sigarette, ne
estrae una, se la porta alla bocca e la accende. Poi mi offre
il pacchetto aperto. Rifiuto scuotendo la testa.
- Fumi? – Chiedo.
- Solo quando sono stressato o felice.
Pausa.
- Ti succede spesso? Pensavo fossi ubriaca e stessi per rimettere.
- No, è il modo in cui somatizzo lo stress. Non preoccuparti.
Annuisce ed esala una lunga boccata fumosa.
- Se vuoi ti riporto a casa…
- No, grazie. – Ok che è famoso, è
gnocco e tutto il resto, ma non mi fido abbastanza.
- Lascia almeno che ti chiami un taxi.
- Sei così squisitamente gentile con tutti?
Sorride e scuote la testa. – Non coi paparazzi.
Rido anche io.
- Chiama il taxi, se vuoi – ammicco.
Tira fuori il cellulare e, nella breve chiamata che segue, chiudo gli
occhi e inspiro il profumo fantastico di quella giacca chiedendomi se
anche lui profuma così tanto.
- Fatto.
- Grazie, Kit.
Nella pausa che segue, io mi perdo di nuovo fra i miei pensieri e lui
finisce la sigaretta. Il taxi che arriva suonando il clacson mi fa
sobbalzare e vengo accecata dai fari della macchina. Contro di loro Kit
sembra solo una sagoma scura.
- Grazie per la giacca – dico togliendomela. Lui mi ferma con
una mano.
- Ti prego, tienila.
- E poi come te la restituisco? – Lo guardo scettica, in
attesa che mi dia il biglietto da visita del suo agente.
Così io chiamo e quello mi prende per una svitata, e io mi
ritrovo con la giacca di pelle di un attore famoso. Ehi, penso, potrei
farci un sacco di soldi!
Sfortunatamente invece Kit mi prende una mano, la apre con il palmo
rivolto all’insù e mi scrive il suo numero di
telefono con un pennarello nero che probabilmente usa per firmare
autografi.
- Chiamami. – Risponde semplicemente.
Lo fisso negli occhi sconvolta, pensando che deve avere qualche rotella
fuori posto per dare il suo numero di telefono a una tipa qualunque.
Lui ricambia il mio sguardo così intensamente che mi sento
avvampare.
Il taxista suona di nuovo il clacson.
Kit lo ignora e si avvicina a me in fretta. In meno di un secondo mi
ritrovo fra le sue braccia, inondata dallo stesso odore della giacca, e
Kit mi bacia all’angolo della bocca.
- Ehi, ehi, EHI! – Sbotto sorpresa e furibonda, spingendolo
lontano da me. Lo fulmino con lo sguardo e mi copro chiudendo la giacca
sul davanti con le mani.
- Devo andare.
Corro verso il taxi e salgo in fretta. Riferisco al taxista il mio
indirizzo e mi appoggio sul sedile, cercando di calmare i battiti del
mio cuore.
Kit Harington mi ha baciata, e mi ha dato la sua giacca.
Impreco quando mi viene in mente che ho lasciato la mia borsa al bar.
Kit Harington
Entro nel bar di periferia più scadente che trovo con il
preciso intento di ubriacarmi. Appena metto un piede dentro un odore di
cane bagnato, sudiciume e alcool mi travolge come un’onda.
Mi guardo un attimo intorno. Pavimento di legno, muri scrostati,
bancone di marmo sporco al centro della sala e niente barista. Ci sono
poche persone: un uomo chiuso in se stesso ad un tavolo in fondo alla
sala, e una ragazza seduta al bancone.
Cerco di respirare col naso meno che posso per non sentire
quell’odore nauseabondo, e mi risulta facile. Da quando io e
Rose ci siamo lasciati, non respiro. Mi sento annegare, che io stia
lavorando, mangiando o dormendo, mi manca l’aria sempre.
Continuamente.
Credo nell’amore a prima vista. Credevo di avere trovato in
Rose quella che cerco da una vita. Ora è tutto finito.
Abbiamo chiuso circa due mesi fa: è nato tutto da una
stupida lite per un motivo che non ricordo neanche. Ricordo soltanto le
parole di Rose, quando mi ha urlato in faccia che per lei la nostra
relazione era solo un gioco, e se n’è andata dal
mio appartamento sbattendo la porta.
Ecco, è da quel preciso momento che ho smesso di respirare.
Eppure, Dio mi perdoni, continuo a credere nell’amore a prima
vista.
Una canzone che non conosco viene riprodotta da degli altoparlanti
appesi sopra al bancone dove mi avvicino togliendomi la giacca.
Mi ritrovo accanto alla ragazza che ho visto dall’entrata e
per un attimo mi fermo ad osservarla: ha i capelli biondi, sottili e
leggeri, sembrano fatti di piume pallide di pulcino, lunghi fino alle
spalle e disordinati. Veste di un maglioncino azzurro sformato su un
paio di jeans, e Vans scolorite. Tiene con una mano un boccale mezzo
pieno di Guinness e non mi guarda, per cui non riesco a vedere il suo
volto.
È strano. È una ragazza completamente anonima,
eppure è come se desse una nota di colore a tutto il bar.
- Ti spiace se mi siedo?
Le parole mi escono senza neanche rendermene conto e indico lo sgabello
accanto a lei. Lei sobbalza, quasi rovescia la birra, e si gira a
guardarmi con disappunto. Sgrana gli occhi quando evidentemente mi
riconosce, e io rimango quasi fulminato da quello sguardo nocciola e
penetrante.
Il tempo che io mi prendo a osservarla, lei lo passa a fissarmi. Poi si
riprende, si schiarisce la gola e risponde:
- Certo.
Mentre io mi siedo sorridendo fra me e me e poggio la giacca di pelle
sul bancone, lei mi dà velocemente le spalle e afferra il
boccale per bere ancora, senza guardarmi. Adocchio il barista poco
più in là che riordina qualcosa dietro al bancone
e gli faccio un cenno per farlo avvicinare. Quello non mi guarda e
ascolta la mia ordinazione del primo drink che mi viene in mente con
fare assente.
Questo è il bello dei bar di periferia, nessun barista mai
ti riconosce.
La ragazza accanto a me attira la mia attenzione sbattendo il boccale
di birra ormai vuoto sul bancone.
Decido di parlarle: non sembra una fan scatenata come certa gente che
ho incontrato.
- Giornataccia?
Sobbalza di nuovo e mi lancia un’occhiata veloce. Io non
posso fare a meno di guardarla.
- Periodaccio – Risponde lapidaria. Qualcosa nella pronuncia
mi fa sospettare che non sia inglese né irlandese.
Non aggiungo altro, e accolgo il mio drink con una lunga sorsata.
Questo bar farà schifo, ma almeno il bere è buono.
- Sei Jon Snow o mi sbaglio?
Eccola lì, la domanda standard. La guardo di traverso e non
posso fare a meno di sorridere di nuovo. Ma che cazzo mi sta succedendo?
- Sì, sono io. Kit – le porgo la mano. –
Kit Harington.
- Sara Vitali. – Me la stringe.
- Cosa ti porta a stare qui da sola, Sara?
- Lunga storia.
Muoio dalla voglia di sentirla. Ne ho bisogno, e non so neanche
perché. – Puoi raccontarmela?
- Beh, io non sono qui a farmi gli affari tuoi – Sbotta.
Capisco che devo indietreggiare. Sorrido. – Punto tuo.
È sempre così genuina o questa è una
sera speciale? Mi chiedo che cosa la spinga a guardarsi così
tanto le spalle, come se temesse che le saltassi addosso. Sono
divertito da questo pensiero.
- Lascia che ti offri dell’altra birra, per farmi
perdonare… Guinness?
Sara annuisce, e si ciuccia il labbro inferiore per qualcosa che sembra
insicurezza. Che cosa le passa per la testa? Che cosa pensa quando mi
guarda? Domande che sul momento mi rodono il cervello in cerca di
risposta.
La canzone sconosciuta è finita senza che me accorgessi, ed
ora riconosco la voce particolare di Bob Dylan. Non conosco nemmeno
questa canzone.
Mi avvicino al barista con il busto e gli chiedo un’altra
mezza pinta di Guinness e un bicchiere di whiskey irlandese liscio: mi
serve qualcosa di più forte di un banale drink.
Restiamo di nuovo in silenzio: lei sta di nuovo fissando il vuoto, io
cerco un modo simpatico per dare una risposta alle mie domande.
C’è qualcosa di strano che mi attira in lei, come
una calamita. Per la prima volta dopo Rose, comincio a sentire qualcosa
che comincia a smuoversi dentro di me, e non è un bisogno
anatomico.
- Vorrei sapere qualcosa di te. Se per te non è un problema.
Di nuovo le parole mi scivolano via dalle labbra senza il mio
controllo. Lei, che stava bevendo un altro sorso dl Guinness dal nuovo
boccale, si interrompe di botto e per un attimo temo che la birra le
esca dal naso. Mi lancia un’occhiata in tralice, e finisce di
scolarsi la mezza pinta. Posa di nuovo il boccale vuoto sul bancone,
chiude gli occhi e si massaggia la tempia.
- Facciamo così: puoi chiedermi quello che vuoi, ma hai solo
tre domande. Scegli accuratamente.
Inspiro l’aria fra i denti, sorpreso
dall’improvvisa parlantina, butto indietro le spalle e rido
di cuore. In fondo al cervello si fa largo il pensiero che non rido
seriamente da due mesi, nemmeno con Richard.
- Affare fatto. – Accetto la sfida e mi sistemo meglio sullo
sgabello.
- Ok. – Si volta verso di me e incrocia le mani sui jeans.
– Spara.
Appoggio il gomito sul bancone, imitando la posizione dei giornalisti
quando stanno per farti domande scomode con l’intento di
avere soffiate speciali. – Da dove vieni?
- Italia -. Italia! Tutto quadra, riguardo il suo accento. Mai
sottovalutare le consonanti degli italiani. – Come mai
sprechi così la tua prima domanda? – Domanda.
Più che legittima, aggiungerei.
- Oh beh, hai un accento strano e sembra che tu ne vada fiera. Comunque
sono io che faccio le domande, qui. – Le faccio
l’occhiolino.
Lei alza gli occhi al cielo e appoggia la testa sulla mano, pronta a
sentire la seconda stronzata.
- Come mai hai quelle occhiaie?
La prima delle domande che mi rodevano il cervello. Mi sento un
completo idiota.
- È da un po’ che non riesco a dormire. Il mio ex
mi assilla, per questo sono a Belfast.
- Ex fidanzato?
- Ex ragazzo. Mi segue da un po’, per questo sono qui in
Irlanda. Spero che così lontana da casa non riesca a
trovarmi.
- Capisco. – Stalker. È una vittima di uno dei
figli di puttana che condividono il pianeta con la gente per bene. Ecco
perché si guarda le spalle.
Afferro il bicchiere di whiskey e bevo tutto in un sorso. Un suo
movimento improvviso cattura tutta la mia attenzione: si è
piegata in avanti, come se stesse per vomitare.
- Stai bene? – Chiedo, un po’ preoccupato. Alza un
dito e sbianca.
Miseria, l’ho fatta ubriacare sul serio!
Mi alzo in piedi, la afferro per una mano e quasi corro fuori dal bar.
Vengo investito da un’ondata di gelo, ma sul momento non ci
faccio troppo caso. Penso soltanto a mettere in salvo i miei mocassini
nuovi e, guarda caso, italiani.
- Un po’ d’aria ti farà bene –
le dico, per distrarla e per giustificare il mio gesto.
Sara si è appoggiata con la schiena al muro e respira
pesantemente. Attendo l’ondata di vomito che,
però, non arriva. La vedo tremare per il freddo, e maledico
la mia scarsa delicatezza.
Entro di nuovo nel bar senza badare all’aria pesante, afferro
di corsa la giacca dal bancone, mi metto il basco-anti-scocciatori ed
esco di nuovo fuori. Apro la giacca e gliela poso sulle spalle ricurve.
Lei alza gli occhi e mi guarda: ha ripreso un po’ di colore.
- Grazie – Sospira. – È passata.
Alzo un pollice. – Tutto a posto?
- Sì, grazie.
Ha ripreso a respirare normalmente, per cui mi rilasso e tiro fuori dai
pantaloni un pacchetto di sigarette. Questa decisamente è
una sigaretta da stress. La accendo, mentre una vocina nella mia testa
mi dice che forse non è una da stress. Le offro il pacchetto
aperto, e lei rifiuta scuotendo la testa.
- Fumi?
- Solo quando sono stressato o felice.
Non risponde.
- Ti succede spesso? Pensavo fossi ubriaca e stessi per rimettere.
- No, è il modo in cui somatizzo lo stress. Non preoccuparti.
C’è chi fuma e chi sviene. Mi sembra giusto.
Annuisco ed esalo il fumo.
- Se vuoi ti riporto a casa… - tento di offrirle il mio
aiuto senza che lei lo interpreti in modo ambiguo. L’ultima
cosa che voglio in questo momento è portarmela a letto.
- No, grazie.
Come temevo, l’ha intesa male. Tento di patteggiare: non me
la sento di mollarla, sono comunque una persona per bene. I miei mi
hanno educato come si deve.
- Lascia almeno che ti chiami un taxi. – Propongo.
- Sei così squisitamente gentile con tutti?
Sorrido e scuoto la testa, colpito da quella punta di sarcasmo.
– Non coi paparazzi.
Lei ride. Un suono cristallino, come fosse un pulcino che canta dopo
una lunga battaglia per uscire dall’uovo.
- Chiama il taxi, se vuoi – mi strizza l’occhio.
Tiro fuori il cellulare, mi giro dall’altra parte e chiamo il
servizio taxi. Poi torno da lei.
- Grazie, Kit.
Un’altra pausa, che riempirei piacevolmente di cavolate se il
suo silenzio non mi facesse desistere. Se ne sta ancora lì,
appoggiata al muro e con lo sguardo fisso, e io finisco la sigaretta e
la getto a terra.
Passa qualche minuto e un taxi arriva strombazzando. Lei sobbalza di
nuovo e guarda sgomenta la macchina, strizzando gli occhi per la luce
dei fari. Poi mi guarda.
- Grazie per la giacca – mi dice togliendosela per le
braccia. La fermo con una mano.
- Ti prego, tienila.
Mi rivolge uno sguardo scettico, dritto negli occhi, dritto
nell’anima.
- E poi come te la restituisco?
Pratica, la ragazza. Elaboro velocemente un paio di ipotesi tra cui
quella di darle il biglietto da visita del mio agente, ma le scarto
tutte quanto. Poi la risposta più semplice sbuca da un
angolino del mio cervello e fa: “Cucù!”.
Mi avvicino a Sara, le prendo una mano e tiro fuori il pennarello che
mi porto in tasca, pronto per i fan. Le scrivo sul palmo il mio numero
di telefono.
- Chiamami.
Continua a fissarmi, con la bocca aperta come un merluzzo.
Il taxi suona di nuovo il clacson. Lei sporge un pochino la testa per
guardare il guidatore, che continua a spararci addosso la luce dei
fanali. Poi qualche porta nella mia testa si apre, e una serie di
pensieri illogici e mai contemplati fino a quel momento cominciano ad
affollarmi la mente. Mi rendo conto di desiderare
quell’anonima ragazza, di voler stringerla tra le braccia, di
restare con lei.
Prima che riesca a rendermi conto di star facendo una cazzata colossale
mi sono avvicinato a lei e l’ho stretta a me. Sento le mie
mani sulla sua schiena coperta dalla mia giacca, sento il calore che
emana, sento il suo odore, ma soprattutto sento le mie labbra contro
l’angolo della sua bocca.
In una frazione di secondo dentro di me c’è un
esplosione, e quella cosa che prima stentava a muoversi dentro di me
adesso scoppia in tante piccole farfalle nello stomaco. Sento
il sangue scorrere nelle vene, il cuore pompare, il terreno sotto la
suola dei mocassini.
- Ehi, ehi, EHI! - Sara mi spinge via con una forza che non le avrei
mai attribuito. Mi guarda furibonda, e si chiude la giacca sul petto in
un estremo tentativo di mettere una barriera decisa tra noi due.
– Devo andare.
Corre verso il taxi senza dirmi altro, sale e la macchina parte. Io
resto immobile.
Quella sensazione di benessere se n’è andata con
lei.
Credevo nell’amore a prima vista. Ci credo ancora.
Soprattutto dopo stasera.
Per la prima volta dopo Rose torna una sensazione magnifica.
Respiro di nuovo.
N.d.A.: Rose e Richard di cui parla Kit sono Rose Leslie e Richard
Madden. Rose interpreta Ygritte nel telefilm, ed è stata
realmente fidanzata con Kit nella vita reale. Richard interpreta Robb
Stark.
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