Il primo capitolo di "Dashes", ad opera di Overlook è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Dashes
Di
Overlook, 2015©
____________________________
Capitolo
I - Tutti i
colori dell'evidenza
Per
quanto, sin dalla notte dei tempi,
vizi e virtù siano estremamente volubili, nei più
svariati
contesti e nelle più indefinite situazioni, niente rende gli
uomini
più vulnerabili, ed al contempo belligeranti, della pioggia.
Essa
scroscia, dilaga tra le fughe disegnate dalle strade sulla
maiolicatura cittadina, è più veloce e funesta di
un virus influenzale tra i
corridoi di una scuola dell'infanzia, frusta le spalle troppo scoperte
ed appesantisce gli indumenti troppo abbondanti. Irrompe dispettosa
soltanto nel momento in cui può star sicura di prendere alla
sprovvista se non tutto, almeno la maggior parte del creato,
sciogliendone la maschera di civile convivenza sullo stesso suolo;
svelando l'essere umano per null'altro di quel che è:
un'indecente
belva feroce, opportunista, irrimediabilmente intrappolata nella
propria stessa stupidità, alla stregua di un ratto che si
trovi a
fiutare una possibile via di scampo tra i muri invalicabili di un
labirinto creato da chimici e ricercatori scientifici. Esso non sa e
non potrà mai sapere che quella sua ricerca nient'altro
è che
l'obbiettivo di chi l'osserva dall'alto; allo stesso modo, l'uomo o
la donna che cerchino forsennatamente riparo per le proprie giacche
inamidate e chiome cotonate sotto a pensiline e tendoni di negozi,
eseguono il mero volere di un plumbeo cielo che sovrasta le loro
teste. Per riuscire nella propria fuga, essi si spintonano, se ne
fregano dell'altrui handicap o di posti già occupati,
diventano sguaiati e morbosi, bestiali e... Cattivi.
Bulma Brief,
ormai, di umano, probabilmente poteva vantare solo il proprio sangue,
giacchè dal momento in cui aveva rimesso piede, incredula,
nella propria camera da letto, aveva avuto l'opportunità di
tirar le somme su quella sua esistenza sino ad allora costellata di
peripezie al limite dell'immaginazione, tanto densamente quanto una
notte d'Agosto è intrisa di stelle e... zanzare.
Dopo
essersi sbarazzata dell'ultima, con un abilissimo colpo di pantofola
all'angolo del muro, gli occhi azzurri e ancora stanchi s'erano posati
sulla polaroid effettuata
a bordo della navicella spaziale, durante il viaggio verso il pianeta
Namecc. I capelli a caschetto, ancora in piega, impreziositi dal
cerchietto in raso rosso, lambivano il suo viso terso e raggiante,
trasudante l'allegria d'esser lì a compiere un memorabile
autoscatto in compagnia del piccolo Son Gohan, teneramente ridicolo con
il papillon
ben annodato e l'amico Crilin, spensieratamente abbigliato come un
turista intergalattico.
Certo che ne aveva visto
di stramberie, lei. Praticando la professione di
scienziata meccanica, s'era un tempo illusa che le stranezze le avrebbe
avute davanti agli occhi soltanto sottoforma di prodotti ultimati,
bizzarri e geniali, presso la sede della Capsule Corporation, la sua
stessa dimora. A quanto pareva, la sorte le aveva invece
riservato un posto in prima fila -ed altrettanti nel cast principale-
per il susseguirsi di vicende assurde che da quando aveva conosciuto
Son Goku riempivano e quasi soffocavano ogni anno, ogni giorno, ogni
momento della vita. "E
pensare che mi sarebbe bastato un bel fidanzato...!",
aveva pensato ad alta voce, mentre misurava con le dita di entrambe le
mani il perimetro di quella fotografia.
Yamcha stesso, non era affatto un uomo qualunque. Per la
verità, fin troppe volte aveva messo in discussione il fatto
che si potesse definire
uomo, tale
era stata da sempre la sua immaturità pur avendo superato da
un pezzo i canonici diciotto anni. Alzando gli occhi al cielo e
sbuffando indolente, ricacciava indietro quel flusso di pensieri.
Sconnessi di primo acchito, d'un tratto, senza avvisare, trovavano la
solidità del cemento totalmente asciutto su cui poggiarsi,
tra le aguzze guglie disegnate dai ciuffi della chioma folta e corvina
del tremendo alieno che d'impulso
s'era offerta d'ospitare sotto il suo stesso tetto.
Vegeta.
A Bulma era giunta molto prima la fama, che il nome, di quello
scellerato aguzzino che aveva decretato la prematura morte di Yamcha e
che aveva ridotto in fin di vita Son Goku. Su Namecc inaspettatamente e
con orrore ne aveva fatto diretta conoscenza, troppo avviluppata nel
timore egli potesse essere davvero tanto spietato da farle del male,
per accorgersi della perversa sicurezza che, quell'alieno, non le
avrebbe mai torto un capello.
Nessun problema, comunque, giacchè di questo -e di ben
altro, di lì a poco- aveva potuto accorgersi in tutta
calma tra le rassicuranti mura della propria dimora, sin dai primi
giorni di permanenza del principe del popolo Saiyan.
L'odore -avrebbe voluto parlare di profumo, ma la decenza ed il pudore
s'erano alleati contro di lei- che Vegeta lasciava nell'aere ad ogni
passo, muschiato, maschile, empio, vissuto e pungente, accarezzava le
sue minute narici con la stessa insistenza con cui la nube fuoriuscente
dalla sigaretta di suo padre la istigava a farlo entrare nei suoi
polmoni illibati.
Il fumo crea letale dipendenza, Bulma lo sapeva bene, non era certo una
sprovveduta. Quel che la allarmava era la conseguente analogia, del
tutto inconscia, con l'odore dell'alieno.
Ma cosa, la intimidiva?
Era forse impaurita dai ricordi di morte e sangue che quell'aroma
portava dentro di sè? Era per caso intimorita dal sentore
troppo differente dal resto della popolazione terrestre?
No, era spaventata a morte dall'evidenza che quel
profumo
-sì, per la
miseria, è profumo,
ciò che conturba ed aggrada all'olfatto- avesse iniziato a
piacerle da impazzire, a mancarle quasi fosse ossigeno vitale, quando
per più di qualche ora quell'assassino interspaziale non si
palesava nella stessa stanza ove era lei; a prendersi gioco dei suoi
più profondi sogni, quando al mattino si svegliava di
soprassalto avvolta da una vergognosa sensazione di dispiacere, nel
trovarsi tra le proprie lenzuola candide e non tra quelle insudiciate
di fango e sforzi sovrumani del letto di qualche stanza avanti.
Yamcha aveva impiegato davvero pochissimo tempo, a divenire null'altro
che una faticosa zavorra morale da trascinarsi dietro, un peso sulla
coscienza con cui dover fare i conti, quando all'imbrunire del giorno
il pensiero chiosante era "Fortunatamente
ha gli allenamenti con la squadra, questo fine settimana".
Era tornato alla vita da relativamente poco, ma la gioia di riaverlo
per sè era perdurata nel tempo di un abbraccio
più intimo, di un tentativo più adulto da parte
del giovane guerriero. Le aveva chiesto se quella sera avessero potuto
dormire insieme, per la primissima volta, in verità. Lo
sguardo scioccato e gli strepiti di indignazione avrebbero dovuto
suonare a tutti e due come un gran bel campanello d'allarme, ma
inevitabilmente s'era finito per sigillarsi adirati ognuno nelle
proprie stanze, chi a smaltire la carica sospesa davanti a certi
giornaletti, chi a ragionare su quale nugolo di polvere stesse
inceppando tanto decisamente l'ingranaggio del comune evolversi di una
relazione sentimentale.
Ed era proprio lì, l'inghippo su cui Bulma tutte le volte
scivolava malamente e per medicarsi utilizzava il lavoro, il cuscino e
le riviste di moda: Si trattava davvero, alla fine dei conti, di una relazione sentimentale?
O forse sarebbe stato meglio per tutti aprire definitivamente le porte
a quella che era una splendida e profonda amicizia fraterna? Bulma non
era certo una persona poco incline ai cambiamenti ed alle sorprese,
anzi, ella stessa fino a quel momento ne aveva fatto un carburante
esistenziale. Per cui non si poteva dire fosse reticente a dare quella
svolta decisiva alla sua vita. Si poteva invece urlare a gran voce che
ciò che la tratteneva era la sempre più fondata
consapevolezza che non avrebbe giulivamente galleggiato da una sponda
all'altra del torrente della sua gioventù, una volta
conclusa la loro... Storia. No,
si sarebbe arenata violentemente sullo scoglio impervio e tempestoso i
cui profili più alti ricordavano le fattezze di una fiamma
vivace, con la stessa naturalezza con cui la gazzella agguantata e
assediata dal branco di leoni si lascia andare alle loro fauci
fameliche.
Certo, che la gazzella sarebbe volentieri fuggita, ma ormai... E poi,
così è la legge di natura.
Allo stesso modo, Bulma distingueva sempre meno nettamente i contorni
della paura di un tale pensiero, non riusciva nemmeno più a
scorgere le ombre funeste del passato di quell'inquilino da cui
chiunque si teneva ben alla larga, da quando aveva deciso di accettare
l'invito della scienziata.
Ancor più infame era la spontaneità
con cui quei pensieri permanevano nei meandri della mente,
benchè ben viva fosse la riminescenza delle ultime parole a
lei rivolte dall'alieno durante il giorno.
"Levati di
mezzo".
"Non ho tempo da perdere
con una patetica Terrestre".
"Che hai, da fissare?
Pensa agli affari tuoi".
Dove diamine
stavano il cenno, il gesto, la parola che avessero ambiguità
tale da suggerirle simili elucubrazioni? Da nessuna parte!
Eppure, il prosieguo di quelle diapositive mentali in movimento,
picconava inesorabile alla base ogni tentativo razionale di rimettere ordine in testa.
"Principe dei miei
stivali, mi leverei volentieri di mezzo, se non avessi conciato il
lavello peggio di un porcile! Pulisci tu, forse?!".
"E io non ho certo tempo da perdere con un maniaco della guerra senza
un briciolo di civiltà! Perciò... Ti saluto!".
"Ti sarebbe piaciuto, che ti stessi fissando, caro mio! Per la
verità mi dava da pensare quel quadro lì, proprio
dietro di te. Non trovi che sia... Un po' storto...?".
Tutto quel sottile e malizioso sfidarsi, rincorrersi,
violentarsi e punirsi, per poi liberarsi ancora, si librava nell'aere
inarrestabile come la carica negativa d'un elettrone che incontri
quella positiva di un protone. Essi si scontrano, ma si cercherebbero,
in ogni caso. Sono agli antipodi, ma sono uno il complemento dell'altro.
Di nozioni e dogmi scientifici ne aveva a sufficienza da redigere un
trattato, Bulma, ma fegato e temerarietà per ammettere la
specularità con la sua situazione, quelli sorprendentemente
scarseggiavano da tempo. Eppure non ci aveva pensato su un minuto di
più, quando s'era trattato di raggiungere il luogo
d'atterraggio di Freezer.
Yamcha era diventato di nuovo un lontanissimo atomo immerso
nell'iperspazio della sua coscienza.
***
"Procurami indumenti che
non siano così vomitevolmente... Rosa, se vuoi che mi levi
di dosso la tuta da combattimento, è chiaro?",
le aveva sbraitato in faccia Vegeta, paonazzo di rabbia ed imbarazzo
per quel patetico teatrino di cui si ritrovava ad essere, suo malgrado,
marionetta principale.
A nulla erano valse risatine e tentativi vari di sdrammatizzare tanto
astio, Vegeta s'era rinchiuso tra le mura concave della Gravity Room
posta in un angolo remoto del giardino e da lì
non era
più uscito. Neppure per sfamarsi.
La finta, spensierata noncuranza di Bulma s'era spenta sotto i
riflettori ben più potenti di un alone di preoccupazione
reale, per le condizioni dell'alieno.
Conscia che bussare al portellone sarebbe servito solo a far
sì che da lì Vegeta non sarebbe davvero uscito
mai più o, ancor
peggio, avrebbe nuovamente azionato i motori della
navicella, pronto ad abbandonare un'altra volta quel pianeta, s'era
risolta a tuffarsi, letteralmente, tra i fradici marciapiedi della
città, quello stesso fine settimana, alla volta del centro
commerciale, dove avrebbe investito un bel po' del proprio
generosissimo capitale, tra must
have modaioli per lei e, finalmente, qualche sobrio abito
scuro per quel bell'alieno.
S'era finta scocciata dalla mansione, ma tant'è, quando sua
madre l'aveva avvisata dalla cucina che al telefono la stava cercando
insistentemente Yamcha, in palestra dal mattino, ella aveva calzato gli
stivaletti in gomma nera, lucida ed infilato alla svelta il cappottino
in velluto mélange,
verdone, sbraitando sguaiata dall'ingresso che lei sarebbe dovuta
uscire e che quello non era proprio il momento adatto per ricevere
telefonate.
L'insistente scrosciare della pioggia sul tessuto ben teso
dell'ombrellino tascabile appena scapsulato non le permetteva
d'avvertire in anticipo i passi delle persone che, ad onor del vero,
finivano per scontrare i propri ombrelli, uno ad uno, con il suo, quasi
fosse stata la sola ad andare nella direzione opposta a quella della
gente ammassata sotto ai vari tendoni e alle numerose pensiline.
"Accidenti, ma vuole
fare un po' più d'attenzione?!", aveva inveito
contro l'ennesimo signore grassoccio le si era parato davanti
intenzionato a non muoversi d'un millimetro, ora che quella precaria
decina di centimetri quadrati al riparo era stata conquistata. Che
fossero tutti squallidamente sordi al richiamo dell'educazione, in quel
frangente, era vero. Ma che Bulma, in meno di un chilometro percorso a
piedi verso il centro commerciale, avesse già le mani
occupate da almeno quattro grossi sacchetti recanti loghi di lusso, lo
era altrettanto.
"C'è chi
può e chi non può", si risolveva
sempre a pensare in casi come quello, quando le pacchiane signorine sue
coetanee, dai bordi inzaccherati del marciapiede su cui sostavano
inzuppate e furenti, la osservavano verdi d'invidia, più che
nere di rabbia per l'acquazzone improvviso, distruttore di messe in
piega. Lei faceva già parecchia beneficenza, insieme a suo
padre, la coscienza se la puliva di sovente. Non amava neppure la
disciplina dello shopping
più o meno compulsivo, perciò quando decideva di
farne, non avrebbe dovuto sentir volare neppure una mosca. Guai a chiunque,
altrimenti.
Con non poca fatica e con la gola arsa dagli insulti urlati a destra e
a manca, incapsulato l'ombrello, Bulma aveva fatto il suo ingresso
all'interno dell'enorme centro commerciale da poco aperto in pieno
centro nella Città dell'Ovest. Su più piani, esso
racchiudeva tutto il mondo modaiolo. Negozi di vestiti, di scarpe, di
borse, di gioielli e persino di animali, considerati alla stregua
d'accessori, dall'emisfero benestante.
Questo la indisponeva parecchio, proprio lei che, seppure non fosse a
questi troppo legata, ne aveva sempre ospitati a dozzine, presso gli
spazi esterni gestiti dal dottor Brief. Constatare però, una
volta giunta proprio di fronte all'insegna, che i clienti fossero
bambini e bambine desiderosi di prendersi cura di un amico a quattro -
o due o otto che fossero- zampe col beneplacito dei genitori, la fece
sorridere impercettibilmente, rincuorata e ricaricata dell'energia
necessaria per affrontare la calca accumulatasi di fronte alla nuova
filiale Charmante appena
inaugurata.
***
Nonostante lo zigomo continuasse a pulsare arrossato, Bulma aveva
definitivamente rifiutato la cortese offerta da parte del titolare
della rinomata gioielleria di porgerle quantomeno del ghiaccio con cui
tamponare la contusione. La screanzata che s'era malamente interposta,
puzzolente e malvestita, tra lei e la vetrina principale del negozio,
aveva agitato un po' troppo le mani, con quel suo fare provinciale,
nella speranza un commesso le venisse in aiuto prima che ad altre. Uno
di quei pugni chiusi e maldestri era finito contro il suo niveo viso,
facendola andare su tutte le furie e scatenando l'ira di tutta la
clientela, benestante e compita, sommessamente parlottante, in ordinata
coda per le vetrine d'esposizione.
Incapsulate
le numerose buste ormai d'impiccio, s'era decisa a
spostarsi nel settore d'abbigliamento, ove un graziosissimo giacchetto
corto e smanicato in jersey arancione faceva sfoggio di sè
su di un manichino a cui Bulma non aveva proprio
nulla da
invidiare , anzi, fosse stato animato, avrebbe avuto quello,
qualcuno su cui rodersi il fegato. Si presentava come sbarazzino
soprabito di una blusa lillà più lunga,
traforata, i cui bottoni riprendevano la forma di simpatici musi di
gatto stilizzati. Il pantalone che le commesse avevano abbinato era di
un verde militare piuttosto largo, informe, di quei modelli che erano
andati almeno due stagioni prima e che con tutta probabilità
rappresentavano un esubero di magazzino da rendere appetibile al
più presto, per evitare perdite economiche. Storcendo il
naso poco convinta, Bulma tornò ad osservare il taglio
estremamente comodo, ma pure attillato dello smanicato, immaginandolo
sopra a quel crop top color
sangue che sua madre le aveva comprato durante uno dei meticolosi raid presso le
boutiques della periferia cittadina. Le stava divinamente, non fosse
stato per il fastidioso dettaglio che a livello del seno, esso
risultava forse troppo morbido, non perfettamente fasciante, quasi a
volerle insinuare il dubbio fosse lei ad essere poco procace.
D'altronde però, quella piccolezza così
lievemente si
notava che ella non aveva fatto altro che sospirare noncurante davanti
alla specchiera, ponendo l'indumento ben piegato nell'armadio,
aspettando il periodo delle festività primaverili
tradizionali nella sua città, dove sistematicamente riusciva
a prendere quel paio di chili in più che, per una volta, le
avrebbero giovato.
Non
calcolò neppure la possibilità di adeguarsi
all'abbinamento proposto dal negozio, ne uscì soddisfatta
con il solo pezzo di suo interesse, l'ultimo disponibile peraltro,
lasciando che un impudente manichino con la testa mozzata
s'infreddolisse con la sola camiciola e i pantaloni desueti a coprirne
le plastiche nudità.
***
Non
aveva mai avvertito il bisogno di uniformarsi alle altre, coetanee o
meno che fossero. Bionde, more, brune, lei senz'altro spiccava per il
colore acceso e cristallino che la caratterizzava sin dalla nascita,
con quell'unico ciuffetto in fronte che Bunny Brief le aveva saputo
acconciare in milioni di modi differenti. Certo, quei suoi naturali
connotati tanto particolari necessitavano di una maggiore attenzione
nel corredo del vestiario, tant'è che, seppur grande
appassionata di stravaganze e appariscenze varie, Bulma aveva sempre
posto un occhio di riguardo agli abbinamenti in tinta all'interno del
proprio guardaroba. Il più delle volte sfoggiava armoniosi ton-sur-ton
riprendenti quelle marine movenze, altre volte le piaceva giocherellare
con contrasti azzardati, come quello che da qualche tempo usava
indossare: un morbido abitino a maniche lunghe, rosso, rigato da
sottili linee orizzontali parallele, di colore scuro. A proteggerle le
spalle freddolose v'era sempre un gilet in cotone color tramonto,
simile a quello appena acquistato, ma logoro e un poco sgualcito ai
fianchi. S'era concessa da qualche tempo una leonina permanente ai
lunghi capelli, giusto per dare un taglio netto alla traumatizzante
esperienza interplanetaria.
Di tante tinte con cui aveva da tutta la vita giocato abilmente, la blu era quella con
cui il suo sex appeal
giovanile si trasformava in un suadente fascino avvolto nel mistero, il
mistero da cui gli amici erano incuriositi, di come fosse, la vita,
alla Capsule Corporation, da quando l'alieno più
belligerante e spietato di sempre s'era stabilito sotto quello stesso
tetto...
"Già, Vegeta!",
aveva ricordato a voce bassa sgranando un poco gli occhi; era giunta
sin lì per acquistare abiti a lui, non chincaglierie e
capricci per lei. Fluido come l'acqua pura che stilli da una ferita tra
le rocce impervie, il pensiero di Bulma si sviluppò in
un indeciso e analitico scandagliare ogni sfumatura maschile
che avrebbe reso onore al fisico disumanamente bello del principe dei
Saiyan. Il colore nero le pareva quasi tedioso, abbinato allo stesso
tono di quegli occhi seducenti e di quella chioma ribelle e selvaggia.
Il bianco donava a quella pelle sempre incurantemente abbronzata, ma
cozzava violentemente con la sua stessa persona. Con una mano a
reggerle il mento dubbioso e l'altra a farsi strada tra le porte
girevoli dell'ennesima boutique, Bulma intercettò il proprio
sguardo assorto con quello inanimato di un mezzobusto nudo,
troneggiante su un grande scaffale, defilato dagli altri, su cui
poggiavano quiete e severe due pile di abiti: pantaloni comodi e
robusti color castagna e maglie a manica lunga con scollo tondo, color
della notte. Blu.
Non servì affatto che Bulma provasse ad immaginare Vegeta
con quei vestiti addosso, perché fu il suo stesso spettro
nell'immaginazione a palesarlesi davanti agli occhi in un austero
fascino ineguagliabile.
"Ecco, prendo questi! Mi
faccia la cortesia di togliere già i cartellini, grazie".
Non aveva intenzione di sentirlo sciorinare la solita trafila d'insulti
a denti stretti perchè quei... Cosi in plastica
gli davano fastidio addosso. Anzichè staccarli, aveva
disintegrato più volte la biancheria intima che gli aveva
fatto trovare sul letto.
"Ma, signorina... E se
poi non dovessero andar bene?", s'era azzardato il
gentile commesso alla cassa, preoccupato che visto il costo della
merce, non fosse poi più possibile il cambio in caso di
errore nella taglia.
"Mi creda, so
perfettamente, cosa va bene e cosa no". Ma Bulma,
l'immagine di quell'alieno, terribilmente magnetica ad ogni ora del
giorno... E della notte, l'aveva stampata in mente più
precisa di quella dei prototipi a cui stava lavorando.
Era andata ad occhio, con il pantalone color ocra e la camicia rosata e
non aveva sbagliato d'un millimetro.
Il peso di quel pacchetto poteva esser tranquillamente retto tra le
dita, perciò si risolse a non incapsularlo e a concludere il
suo ramingo girovagare con una sosta al bar in voga, al piano terra di
quell'enorme edificio, corroborandosi con un cappuccino sporcato
dall'eccessiva spolverata di cacao amaro.
***
Il fiato era corto non solo per la corsa, ma pure per il pungente
freddo che quel giorno insolitamente aveva investito la regione. Erano i primi giorni di autunno,
mica pieno inverno!, bofonchiava sin dal mattino.
Eppure, anche per un guerriero senz'altro fuori dal comune come lui, la
maglia lunga e candida in cotone, quel giorno pareva non bastare. Gli
mancava da percorrere qualche metro, al ciottolato antistante la grande
dimora emisferica presso la quale alloggiava spesso, più
come ospite che come colui ch'era convinto di essere da -e per- sempre.
Il gattino trasformista faticava a stare al suo passo spedito e
pesante, ma una volta raggiunto il pannello di controllo digitale per
l'ingresso gli si posò sulla spalla, ansimante.
"Adesso mi sente... Non
è sempre stata lei, a rimproverarmi di non ricordare mai
nulla?!".
Lì dentro, il tepore dei termosifoni accesi e del forno
sempre in funzione riusciva a coccolare anche l'animo più
adirato. Yamcha s'era subito disteso, il suo viso s'era fatto meno
rosso e contratto, sciolta la tensione accumulata con l'aroma
dolciastro proveniente dalla cucina.
"È...
È permesso, scusate?". S'era annunciato in tal
modo, all'ingresso dell'enorme stanza ospitante i coniugi Brief ed il
paffuto micio nero, acciambellato sopra il microonde.
"Oh, ciao, caro! Che
bella sorpresa, sei venuto a far visita a Bulma? Che tesoro. Purtroppo
però lei non c'è, ma se vuoi unirti a noi per un
buon caffè caldo accomodati, non fare complimenti!".
Bunny gli aveva cinguettato il sempre cordiale invito a trattenersi, ma
in quel momento a lui interessava sapere dove si fosse cacciata
quell'impertinente di Bulma.
"La ringrazio, ma a dire
la verità vorrei proprio sapere dov'è finita sua
figlia, sono ore che provo a contattarla... Ricorda? Ho telefonato
anche prima... È ancora fuori?".
"Beh, sì.
Almeno, io non l'ho ancora vista tornare, ma magari potrebbe esserti
d'aiuto Vegeta. È almeno un'ora che se ne sta lì
davanti alla finestra! Che caro, ci tiene molto alla salute di mia
figlia, con questo freddo, sarà preoccupato anche lui!".
Da quando la giuliva donna gli aveva nominato quel nome, il
resto del discorso s'era automaticamente eclissato in sordina,
lasciando posto solo ad uno stridulo fischio all'interno dei
padiglioni, mentre lento, basito, voltava il capo in direzione della
vetrata davanti al quale s'ergeva pacata e comodamente assisa la figura
di quell'alieno assassino, la cui schiena era tutt'uno col muro
portante e le cui gambe erano distese sul davanzale interno,
tranquillamente poggiate sul termosifone ardente. Tra le mani grandi,
ma lisce, stava una tazza in ceramica scura, fumante, dalla quale
doveva provenire senz'altro una parte di quel caffè
precedentemente offertogli dalla signora Brief, altrimenti non si
sarebbe spiegato il paio di ridicoli baffi disegnati appena attorno
alle labbra sottili del temuto principe.
"V-Vegeta... Cosa ci...
Cosa ci fai, qui...", era stata l'unica cosa gli era
venuto istintivo
chiedere, più timoroso della possibile risposta, che del
fatto stesso d'avergli rivolto parola.
"Correggimi se sbaglio,
ti prego, ma mi risulta che questi non siano affari tuoi",
gli aveva affettato sarcastico e maligno Vegeta, senza nemmeno
rivolgergli un'occhiata.
Notata la tensione nuovamente galoppante nelle viscere del fidato
amico, Pual si era parato innanzi a Yamcha suggerendogli di attendere
Bulma in salotto, ma soltanto la voce pacifica del dottor Brief
riuscì a catturare la sua attenzione.
"Andiamo, andiamo
Yamcha, sai bene che Vegeta non vuole essere disturbato. Bulma
sarà sicuramente andata al nuovo centro commerciale,
figuriamoci! Ti consiglio di cercarla lì, perchè
senz'altro non ha in programma di tornare a breve, visto il forfait che
mi ha dato in laboratorio". E spingendolo delicatamente
con entrambe le mani nuovamente verso il portone d'ingresso, l'aveva
finalmente convinto a desistere da quel duello impari che lui
senz'altro avrebbe voluto sostenere.
Non appena il rumore della porta gli assicurò l'assenza di
Yamcha da quella casa, Vegeta non potè fare a meno di
trattenere un'ombra di ghigno compiaciuto; il vecchio non era poi tanto
male, come tipo. Se non altro, pareva aver per primo capito come
comportarsi al suo cospetto.
***
"Amico mio, non fare così, dopotutto sai che provocare quel
Vegeta non è mai una buona idea...".
"Non mi interessa, Pual,
quello lì dovrebbe essere confinato in quella diamine di
navicella, non libero di gironzolare in quella casa... In casa m-".
Dovette arrestarsi, Yamcha. Se non per amor del vero, almeno per buon
senso. Quella non
era, casa sua e a voler ben vedere lui non era mai stato
così ospite,
lì dentro, come da quando Vegeta aveva fatto fortuito
ritorno sulla Terra schiantandosi con la navicella gravitazionale con
cui era tempo prima fuggito nell'iperspazio. Poco a poco, giorno dopo
giorno, l'importanza da sempre riservatagli dai genitori di lei e da
Bulma stessa, che teoricamente ancora ricopriva il ruolo di sua ragazza, era venuta
meno, sino a trasformarlo in un personaggio accessorio, da salutare
cortesemente quando lo si incrociava tra i corridoi dell'immenso
edificio, ma della cui assenza non farsi cruccio quando la notte
preferiva l'aria salmastra dell'Isola del Genio delle Tartarughe.
Bulma, che mai in ogni caso aveva voluto saperne di lasciarsi andare ad
atteggiamenti più intimi di un bacio, gli aveva
già da tempo messo in chiaro bruscamente che c'era un
motivo, per cui i letti delle loro stanze erano singoli, regalandogli
il sapore legnoso di una porta chiusa dritta in faccia. Quante volte
s'era immaginato di sorprenderla, entrambi eccitati e nudi, come mai
nella realtà s'erano osservati, con l'abilità
dimostratagli tra le dita, la lingua ed oltre. A che cosa sarebbe
servito, altrimenti, tutto quel ramingo transitare da un letto
all'altro, agli angoli più squallidi di quella frenetica
città?
Invece, questo tipo di pensieri periva senza eccezioni tra le urla
furenti di lei e le risatine nervose di lui, per minimizzare la gaffe assai poco
lusinghiera. Non gli pareva plausibile che una tipa come Bulma avesse
in programma di mantenersi una vergine per tutta la vita.
Il passo celere e iracondo aveva cominciato a rallentare non appena
giunto di fronte all'ingresso del centro commerciale. Vi si sarebbe
fiondato deciso, se non avesse intravisto, dietro alla vetrata
illuminata, la figura snella e procace di Bulma, prossima all'uscita,
con in mano soltanto una busta di medie dimensioni, in cartonato
leggero, lucido e scuro, recante la firma di un noto atelier d'alta
moda maschile. Lo sguardo tornò a distendersi, le mani
tornarono ad aprirsi dentro alle tasche dei pantaloni, le spalle
tornarono a sciogliersi e la bocca ritrovò una piega
sorridente. Era stato il solito impaziente, la sua ragazza
s'era prodigata tutto il giorno per trovare il regalo adatto per il suo compleanno e
lui in cambio era stato intenzionato a piantarle una scenata coi
fiocchi! Che stupido.
Bulma non s'avvide della presenza di Yamcha sino al momento in cui si
guardò attorno per capire se dover riaprire l'ombrello o
meno; la permanente andava salvaguardata anche dalla più
misera pioggerella residua.
"E tu che ci fai, qui?",
le era venuto naturale
domandare a quell'incosciente che inebetito se ne stava lì
davanti a fissarla sorridente, con addosso solo una maglia in cotone.
"Eh eh, ciao, Bulma!
Sapessi, le mie intenzioni erano quelle di cantartene quattro, ma poi
ho visto il pacchetto... Che sciocco, credevo ti fossi dimenticata del
mio compleanno!".
Senza neppure valutare un'opzione più ipocrita, ma
più cortese, Bulma per
istinto
riuscì solo ad esclamare, come caduta dalle nuvole: "Oh, dici questo? Sono i nuovi
abiti che ho comprato per Vegeta, me li ha... Chiesti... Lui stesso!",
sorridendo
mansueta e spensierata, con lo sguardo gentile rivolto ai manici in
corda di quella busta.
Non trascorse più d'una manciata di secondi, prima che il
suo sguardo si facesse sgomento e sbarrato, offrendo consona compagnia
a
quello dell'altro.
Eccolo di nuovo lì, il lontanissimo atomo immerso
nell'iperspazio della sua coscienza ormai logora.
-Fine-
*Mi
pare corretto, prima
ancora che assai piacevole, linkare qui
un altro racconto -per me IL racconto- in cui potersi beare di
simpatici baffi disegnati attorno alla bocca del principe dei Saiyan.
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