cap
Extra
-
Walking
on sunshine
-
Here
I stand, staring at the sun
You're
not there, but we share the same one
One
thing's true just like you
There's
only one
(Mika)
Eric
Sono
le sedici in punto e lei è in ritardo.
Inarco
le sopracciglia, scrutando corrucciato la facciata dell'ospedale come
se la ritenessi direttamente responsabile della mancanza di
puntualità della mia ragazza – e del mio consequente nervosismo.
Sbuffo
e incrocio le braccia, spostando lo sguardo verso l'alto. Il chiarore
del sole mi abbaglia per un istante, finché non mi affretto ad
indietreggiare per nascondermi nell'ombra dell'albero più vicino.
Una volta al riparo tra le fronde, mi lascio andare ad un breve
sospiro sconsolato. L'unica debolezza che sono disposto a concedermi,
nonostante l'ansia che mi paralizza i muscoli e il sudore che mi
imperla il viso. E, curiosamente, non per via del caldo che, sebbene
sia soltanto metà giugno, è calato come una cappa sulla città,
trasformando ogni singolo edificio privo di impianto di
condizionamento in una serra.
No,
il mio non è altro che patetico, inutile e fastidioso sudore freddo.
Se non mi fossi esercitato in tutti questi anni a mantenere un gelido
autocontrollo anche nelle situazioni più rischiose e insidiose,
probabilmente in questo momento starei sfogando la mia agitazione
tirando pugni alla cieca contro il tronco di quest'indifesa betulla,
sola testimone del mio conflitto interiore, nonché unico bersaglio
disponibile ed innocente destinatario delle mie occhiate truci.
Perché
sono le sedici e ventidue e lei non è ancora uscita da quel dannato
ospedale.
Digrigno
i denti e mi sforzo di scrollare i muscoli irrigiditi di gambe e
spalle. Muovo qualche passo attorno ai cespugli, calpestando con
ferocia le erbacce e strappando con maligna soddisfazione alcuni
tralci di edera dai rametti sporgenti di un giovane acero. Il tutto
pare smorzare, anche se di poco, la mia irritazione. Ma l'ennesima
occhiata al quadrante dell'orologio che tengo perennemente al polso
mi fa imprecare a mezza voce.
Giuro
che se tra un minuto non la vedo varcare quella porta, io …
Mi
blocco a metà del pensiero, perché all'entrata dell'edificio è
effettivamente
comparso un piccolo gruppo di Eruditi.
Scendono
composti la scalinata di pietra, i camici bianchi in spalla. Alcuni
tengono dei libri sottobraccio, altri un blocco per appunti sopra la
testa per riparare il viso dai micidiali raggi solari. Passo in
rassegna ogni persona fino a trovare la ragione della mia scampagnata
nel quartiere dei cervelloni.
Una
sensazione di dejà-vu mi provoca una fitta alla nuca. Un paio di
anni fa, in questo identico luogo, ho persuaso la mia recalcitrante
ragazza a non opporsi al mio desiderio di conoscere il mio futuro
suocero. E i miei quattro simpatici e amorevoli cognati, non
dimentichiamoli. Ripenso alla fatidica cena e mi sfugge una smorfia
tra l'ironico e l'esasperato.
C'è
qualcosa che non farei per assicurarmi la felicità di Zelda?
La
guardo avanzare con sicurezza lungo il viale, voltarsi appena per
rivolgere un ultimo saluto ai colleghi e riportare quasi all'istante
l'attenzione su di me. Il suo sorriso mi abbaglia più del sole;
sento nitidamente una goccia di sudore scorrere lungo la spina
dorsale e reprimo un brivido quando un refolo di vento fresco mi
frustra la schiena.
Mi
passo nervosamente una mano tra i capelli, leggermente più lunghi
rispetto al solito. Il fatto che sia diventato riluttante a farli
accorciare in questi ultimi anni testimonia quanto profonda sia
diventata l'influenza di Zelda nella mia vita. Che
ci posso fare?
Sentire le sue dita intrecciarsi alle ciocche appena sopra la nuca mi
piace da impazzire.
La
mia ragazza percorre gli ultimi metri quasi correndo e infine mi
getta le braccia al collo, baciandomi con impeto tale da provocarmi
un livido. Dopo essermi ripreso dalla sorpresa, la stringo a me,
rispondendo con ardore al suo assalto, incurante degli sguardi
curiosi dei medici che ci passano accanto diretti al chiosco poco
distante.
Quando
mi decido ad allentare l'abbraccio, per permettere ad entrambi di
riprendere fiato, noto che lei non ha la minima intenzione di
lasciarmi andare. Strofina la guancia contro la mia come un gattino
alla ricerca di coccole.
Sposto
le mani alla base della sua schiena, facendo scorrere i pollici sul
pezzetto di pelle tra il bordo della gonna e l'orlo inferiore della
camicetta azzurra. «Tutto
questo entusiasmo mi fa dedurre che tu abbia avuto una bella
giornata» mormoro soavemente contro il suo orecchio.
Zelda
si tira indietro e mi sorride, raggiante. «Oh,
sì. Una delle più belle dell'ultimo periodo. Specialmente perché
sapevo che ti avrei trovato qui ad aspettarmi». Mi dà un altro
bacio a fior di labbra, che accetto più che volentieri.
«Adulatrice»
borbotto a mezza voce.
Lei
risponde battendo le ciglia con fare civettuolo. «Ma
è la verità. Non vedevo l'ora di vederti. Da quando hai deciso di
lasciarti crescere barba e capelli, sei diventato semplicemente
irresistibile».
Un
ghigno compiaciuto mi solca le labbra nell'udire quest'affermazione.
«Questa
valanga di complimenti mi sta facendo insospettire. Non stai per
comunicarmi qualche brutta notizia, vero piccola?».
Invece
di ridere come mi aspettavo facesse, Zelda arrossisce. «Ma
no. Che vai a pensare!» esclama, liberandosi gentilmente dal mio
abbraccio e sistemandosi i vestiti spiegazzati. Dopo aver fatto un
respiro profondo, torna a guardarmi. «Allora,
dove si va? Sbaglio, o avevi detto che avevi una sorpresa per me?».
La
sua reazione alla mia domanda e la leggera nota di nervosismo nel suo
tono mi fanno inarcare un sopracciglio. Inizio a nutrire dei
sospetti, ma li accantono quasi subito: ho altro a cui pensare al
momento. In cima alla lista il contenuto della tasca destra dei miei
pantaloni, che sembra scottare a contatto con la pelle della coscia.
Mi
schiarisco la voce, tentando senza successo di apparire disinvolto.
«Lo
vedrai. Andiamo».
Prendo
Zelda per mano e inizio a fare strada lungo il sentiero che costeggia
il parco. Sono troppo nervoso per portare avanti una conversazione:
mi limito ad annuire, mentre lei si lancia nel racconto di come il
team di chirurghi del suo reparto sia riuscito a ridare la vista ad
un bambino rimasto gravemente ferito durante un incendio.
Anche
se questa notizia non è nuova per me, la ascolto con attenzione.
Durante una delle nostre ultime chiacchierate, il dottor Blackburn
non la smetteva di tessere le lodi di sua figlia, di come la diagnosi
di Zelda si fosse dimostrata azzeccata e avesse contribuito in modo
rilevante alla buona riuscita dell'intervento. Il caso non era di sua
competenza, ma lei ha talmente insistito per visitare il bambino che
nessuno ha avuto il coraggio di opporsi. La cosa divertente è che
lei non fa accenno alla propria partecipazione mentre mi descrive i
vari passaggi dell'operazione. Troppo
modesta, come sempre.
Le
si illuminano gli occhi quando parla del bambino. «Dovevi
vederlo, Eric. Era così carino. In parte è colpa sua se ho
ritardato tanto. Non voleva lasciarmi andare, continuava a chiedere
di me. Ho dovuto aspettare che il sedativo facesse effetto, prima di
sgattaiolare fuori dalla sua stanza».
Inclino
il capo e le rivolgo un sorrisetto. «Se
stai cercando di farmi ingelosire … beh, sappi che sta funzionando
alla grande».
«Eric,
non essere ridicolo» mi rimprovera lei, mordendosi le labbra per non
ridere.
Scuoto
la testa, fingendomi indispettito. «Come
se non dovessi già preoccuparmi dei tuoi colleghi uomini. Ora ci si
mette pure un bambino». Mollo la sua mano e le passo un braccio
attorno la vita. «Basta
che mi distragga un attimo e subito qualcuno cerca di provarci con
te. E' parecchio seccante».
Zelda
mi passa una mano sulla schiena, come per tranquillizzarmi. «Non
ricominciare. Quante volte abbiamo discusso di questa cosa?».
Ci
penso su per un paio di secondi. «Nell'ultimo
mese, almeno una quindicina».
«Hai
tenuto il conto?».
Alzo
le spalle con noncuranza. «Non proprio. Diciamo che ho la mia
personale lista nera su cui appunto i nomi dei tuoi ammiratori …».
«Eric
...» mi ammonisce lei, in tono contrariato.
«Tranquilla.
Sto scherzando» mi affretto a ribattere, prima che prenda sul serio
le mie parole.
Sarebbe
tragico se scoprisse che sto dicendo la verità e che ho minacciato
almeno cinque dei suoi colleghi di morte violenta. A mia discolpa va
aggiunto che i medici in questione stavano parlando di lei - e, più
precisamente di quello che avrebbero voluto fare
con lei - in modo non propriamente rispettoso. Pensare alle loro
battute volgari mi fa ancora fremere dalla rabbia.
Zelda
apre bocca, sicuramente per ribattere a tono, ma io prevengo
qualsiasi rimprovero abbia in mente indicando il cartello davanti a
noi. «Eccoci arrivati. Questa è la prima tappa».
Lei
osserva per alcuni istanti il segnale di pericolo e la recinzione
arrugginita che costeggia i binari. La sua espressione inquieta mi fa
ghignare. «Pronta per un piccolo tour nella tua futura fazione?».
*
* *
Zelda
«Oh
no. No, no, no», ripeto come un disco rotto, muovendo qualche passo
indietro nell'erba secca. «Sei pazzo? Io lì
sopra
non ci salgo!».
Eric
mi osserva con cipiglio condiscendente, tipico dell'insegnate che ha
a che fare con un alunno particolarmente indisciplinato.
Incrocia
le braccia muscolose, piazzandosi tra me e la ferrovia decadente.
«Andiamo, Zelda, non fare la bambina. Prima o poi dovrai superare la
tua fobia dei treni. Vuoi diventare un'Intrepida, me l'hai detto tu
stessa. Mi sbaglio?». I suoi occhi diventano scuri come nubi che
preannunciano tempesta, la sua mascella si irrigidisce. «Hai forse
cambiato idea?».
Mi
stringo le braccia attorno al busto e abbasso lo sguardo a terra.
Dentro di me è in atto una disputa tra la metà che mi incita a
scappare e quella che mi spinge tra le braccia di Eric. Come
d'abitudine, vince il lato che tifa per il Capofazione.
Mi
sfugge un sospiro rassegnato. «Non è così, lo sai. Sai cosa provo
per te. I miei sentimenti non sono cambiati, ma …». Mi interrompo
e riporto gli occhi nei suoi. «Devi anche capire che non è facile
per me. Abbandonare la mia famiglia, la mia casa, lasciare tutto per
ricominciare una nuova vita in una fazione che conosco a malapena».
Inspiro brevemente e do un calcio ad una lattina scheggiata,
mandandola a cozzare contro il cartello che invita a non attraversare
i binari. «Per te è facile. Tu hai scelto di diventare un Intrepido
perché era la tua natura, la tua ambizione. Io, invece, diventerò
un'Intrepida solamente per non perderti, per rimanerti accanto».
Sulle
labbra mi compare un sorriso di scherno. «Sembra che in tutta questa
situazione l'unica a perdere qualcosa sia io, mentre tu non ti smuovi
di un millimetro. Come reagiresti se ti chiedessi di rinunciare alla
tua posizione di Capofazione per me? Di ritornare nella tua vecchia
fazione, di toglierti tutti i tuoi adorati piercing e di coprire i
tatuaggi?». Il mio tono si abbassa verso la fine della domanda,
diventando cupo.
Ed
io, cosa ci guadagno?
Questa richiesta non pronunciata ad alta voce pare galleggiare sopra
di noi come un cattivo presagio.
Eric
non ha mosso un muscolo dall'inizio del mio monologo. Se ne sta
immobile come uno dei pali che sostengono i tralicci dell'alta
tensione, scuro in volto e con gli occhi socchiusi puntati verso il
cielo. Quando li riporta su di me, scorgo una fiammata di
determinazione divampare nelle sue iridi color mercurio liquido.
Copre
la breve distanza che ci separa con un solo passo e prende le mie
mani tra le sue. «Guardami» scandisce lentamente, come se non lo
stessi già fissando imbambolata. Porta le mie mani ai lati del suo
viso e intreccia le dita alle mie. «Permettimi di ricordarti i lati
positivi della scelta che ti accingi a compiere. E a cosa
rinunceresti se decidessi di lasciarmi».
Senza
perdere il contatto visivo, struscia la guancia contro il palmo della
mia mano. L'accenno di barba mi pizzica la pelle, trasmettendomi una
piacevole scossa che si propaga fino alla piega del gomito. Eric
inclina il capo e posa un bacio prima sulle mie dita, per poi far
scorrere le labbra sul mio polso, dove mi lascia un leggero morso.
Non
vale. Non è leale,
vorrei protestare, ma riesco solo a boccheggiare. Lui conosce ogni
mio punto debole, sa quali mezzi usare per persuadermi. Dopo tutti
questi anni, ha un metodo più che collaudato. Il suo fascino da
bello e dannato è un'arma che non esita a usare per farmi cedere e,
detto tra noi, gli riesce anche troppo facile.
Eppure
il modo in cui mi sta baciando adesso mi lascia lievemente
interdetta. È come se stesse davvero cercando di convincermi a non
abbandonarlo, come se temesse che potrei veramente tirarmi indietro.
Come se avesse preso davvero sul serio la mia provocazione e fosse
disposto a farmi cambiare idea a qualsiasi costo.
In
realtà, l'idea di lasciarlo non mi è mai neanche passata per la
mente: gli ho detto quelle cose spinta dall'incertezza e dalla paura
dell'ignoto. Come una bambina in vena di capricci.
Eric
mi tiene stretta a sé in modo convulso.
Rispondo con altrettanta passione ai suoi baci, muovendo il corpo al
ritmo del suo e rabbrividendo di piacere al tocco delle sue mani.
Non
finirò mai di stupirmi del potere che questo ragazzo esercita su di
me, di come la mia intera persona finisca per gravitare attorno a lui
come un satellite. Come un suo semplice abbraccio mi faccia sentire a
casa, al sicuro.
Oh,
Eric.
Le
sue mani si contraggono sui miei fianchi e un sussurro spezzato
accompagna la discesa delle sue labbra sul mio collo. «Non
lasciarmi, Zelda. Per favore, resta con me».
L'incertezza
che avverto nella sua voce fa sciogliere quel minimo di reticenza che
ancora albergava dentro di me. Se qualcuno ci vedesse in questo
momento, probabilmente penserebbe di avere le allucinazioni:
l'impavido Capofazione intento a supplicare, forse per la prima volta
nella propria vita, e la fredda ed inflessibile dottoressa Blackburn
commossa fino alle lacrime, quando nessuno è mai riuscito a farla
piangere.
Beh,
con l'ovvia eccezione dell'Intrepido sopracitato. E dire che
aspettavo con trepidazione questo pomeriggio per rivelargli che ...
Tirando
su col naso in maniera davvero poco femminile, sciolgo la stretta di
Eric e mi passo freneticamente le mani sul viso, per cancellare le
prove della mia momentanea debolezza. Lui sgrana gli occhi alla vista
delle lacrime che mi scorrono sulle guance. «Io … cosa …».
Lo
blocco con un gesto. «Non è niente, non è niente. Accidenti,
adesso mi sarà colato tutto il trucco. Così imparo ad
impiastricciami con l'eyeliner solo perché tu dici sempre che mette
in risalto i miei occhi …».
Eric
mi guarda tra lo stupito e il divertito. Passa un pollice sul mio
zigomo per togliere uno sbuffo di nero e fa per dire qualcosa, ma
viene fermato dall'indice che gli premo sulle labbra.
Gli
sorrido con tutta la dolcezza di cui sono capace e lui si
irrigidisce. «Credo che tu mi abbia fraintesa. Non ho intenzione di
mollarti, nemmeno per sogno. Sono solo … terrorizzata da ciò che
mi aspetta. Tutto qui». Mi stringo nelle spalle con aria contrita.
«Forse volevo solo essere rassicurata. E magari coccolata un po'».
Dopo
un lungo sospiro di sollievo, Eric mi sfiora la fronte con le labbra.
«Per un attimo ho creduto che ci avessi ripensato. Che fosse troppo
per te. E non avrei potuto biasimarti». Rimane un attimo in
silenzio, come se stesse riflettendo tra sé. «Sono contento che non
sia così, anche se tutto questo parlare ci ha fatto perdere uno dei
pochi treni che percorrono questa tratta». Si passa una mano tra i
capelli e poi la infila in tasca. «Volevo che fosse tutto perfetto,
avevo pianificato tutto nei minimi dettagli, ma … al diavolo, ora o
mai più».
Detto
ciò, estrae un piccolo sacchetto di raso dalla suddetta tasca e,
sotto il mio sguardo sconvolto, appoggia un ginocchio a terra.
«Oh,
accidenti» esclamo, portandomi una mano alla bocca. «Ti prego,
dimmi che non lo stai facendo veramente!».
Il
mio ragazzo alza gli occhi al cielo con aria afflitta. «Per una
volta,
una sola,
puoi far finta di comportarti come una fidanzata normale? Ti prometto
che dopo oggi non tenterò più un approccio romantico con te, ma
voglio che questo momento sia speciale. Perciò, per quanto mi senta
un perfetto cretino in questa posizione, farò le cose come da
tradizione e tu mi reggerai il gioco. Vedilo come un risarcimento per
aver buttato nella spazzatura tutti i miei mazzi di fiori per un mese
intero».
Senza
volerlo, scoppio a ridere. «Ancora con quella storia? Sono passati
più di quattro anni, Eric!». Lo sguardo di fuoco che mi lancia vale
più di mille risposte, quindi mi affretto ad alzare le mani per
stabilire una tregua. «Oh, va bene. D'accordo. Fa quello che devi».
Lui
mi scocca un'altra occhiataccia, prima di schiarirsi la voce. Apre
con delicatezza il cordoncino del sacchetto ed estrae un anello. Lo
tiene tra pollice e indice, alzandolo davanti agli occhi e
osservandolo come se si trattasse di una preziosa reliquia. «Sai da
quanto tempo lo porto con me?». La sua è una domanda retorica, ma
mi lascia ugualmente di stucco. «Quasi tre anni. Me l'ha donato mia
madre la prima volta che le ho parlato di te». Un velo di rosa si
espande sui suoi zigomi mentre me lo confessa. Per tutta risposta, il
mio cuore comincia a martellare contro la gabbia toracica come se
stesse cercando di sfondarla. «Credo avesse capito cosa tu
rappresentassi per me, già allora. E poi l'ho portato con me quando
i tuoi fratelli mi hanno invitato a cena. E quando ho chiesto la tua
mano a tuo padre. A quanto pare mi ha portato fortuna, perciò non
l'ho più tolto dalla tasca».
Lo
interrompo, sforzandomi di mascherare lo shock. «Tu … hai
chiesto la mia mano?
E quando l'avresti fatto?».
Eric
fa spallucce. Anche lui si finge più calmo di quanto in realtà non
sia. «Il giorno dopo aver conosciuto la tua famiglia» afferma con
sicurezza, senza battere ciglio.
Sbarro
gli occhi. Vorrei chiedergli perché ha atteso tutti questi anni a
farmi la proposta, ma il groppo che ho in gola mi permette a malapena
di respirare.
Lui
però intuisce i miei pensieri. «Ho aspettato che terminassi
l'università, che realizzassi il tuo sogno di diventare pediatra. E
volevo che mi conoscessi bene, ogni lato del mio carattere. Ti ho
dato il tempo di mandarmi al diavolo, ma non l'hai fatto. Certo,
abbiamo discusso, litigato furiosamente …».
«Adesso
non tirare fuori la storia del vaso. Se avessi davvero voluto
colpirti, l'avrei fatto. E te lo saresti meritato. Mi hai ...».
Eric
mi fa segno di tacere. «Abbiamo avuto i nostri alti e bassi, come
ogni coppia che si rispetti. E nonostante tutto, siamo ancora
insieme. Perciò …». Si schiarisce la voce con un colpo di tosse e
mi porge l'anello. Osservo affascinata il luccichio della pietra al
centro della fascetta d'oro, un piccolo zaffiro circondato da
minuscoli brillanti. «Zelda Blackburn. Sei l'unica persona al mondo
che può permettersi di insultarmi rimanendo impunita, l'unica
davanti alla quale sia disposto ad inchinarmi. L'unica per me».
Eric
ha un'espressione talmente vulnerabile da farmi salire di nuovo le
lacrime agli occhi. Maledetti
ormoni.
Lui
mi prende la mano e con uno strattone non proprio gentile mi trascina
accanto a sé. Il mio sguardo saetta dall'anello alle iridi grigie
del Capofazione. «Sposami, Zelda».
Anche
se quelle due parole suonano più come un ordine che come una normale
domanda, mi provocano comunque un tuffo al cuore. Stringo con forza
la sua mano, esortandolo ad alzarsi in piedi. Sebbene abbia le guance
rigate di lacrime, il sorriso che mi spunta sulle labbra è talmente
ampio da causarmi una fitta agli zigomi. «E' stato il discorso più
romantico che tu mi abbia mai fatto. Eppure hai dimenticato un
piccolo particolare».
Mi
godo per un breve istante l'espressione raggelata del mio fidanzato,
prima di continuare. «Hai chiesto la mia mano a mio padre, ma ti sei
dimenticato di chiederla alla persona più importante di tutte».
Dopo un profondo respiro, intreccio le dita alle sue e appoggio
entrambe le nostre mani sul mio ventre.
Nelle
iridi di Eric la confusione viene sostituita da un lampo di
comprensione. Socchiude le labbra in una muta domanda e io annuisco,
arrossendo leggermente.
«Da
… da quanto lo sai?». La sua voce è roca per l'emozione mentre le
sue dita si muovono sulla mia pancia con delicatezza, quasi
reverenza.
Mi
asciugo una lacrima con il dorso della mano libera. «Qualche
settimana. Ne ho avuto la conferma stamattina». Il sorriso incredulo
di Eric riflette il mio. Abbasso gli occhi sulle nostre mani unite,
poi li riporto sull'anello adagiato nel palmo del Capofazione. «Beh,
non credo che lui, o lei, si offenderà se risponderò io per tutti e
due». Mi alzo in punta di piedi per avvicinare le nostre labbra. «Ti
amo, Eric. E ti sposerò».
«Il
prima possibile» aggiunge prontamente lui, circondandomi con le
braccia e alzandomi da terra in una mezza piroetta. Il suo sorriso è
anche più aperto del mio, gli illumina l'intero viso. Se non fosse
altamente improbabile, sarei pronta ad affermare di aver intravisto
un luccichio sospetto nei suoi occhi. Eppure quando mi infila
l'anello all'anulare, la sua presa è sicura e forte come sempre.
Neanche una vaga traccia di tremore.
Il
bacio che segue è infinitamente dolce, lento, traboccante di
sentimenti che non si possono esprimere a parole. Mi sembra di avere
i muscoli molli come burro, mi sciolgo letteralmente tra le braccia
del mio futuro marito.
Marito.
Oddio.
Forse
un giorno riuscirò ad associare questo epiteto ad Eric. Forse,
ma ne dubito.
Un
fischio mi giunge alle orecchie. Un rumore che non ha nulla a che
fare col rimbombo del mio cuore e col sibilo dei nostri respiri
accelerati.
Interrompo
il bacio e mi volto giusto in tempo per vedere un capannello di
persone farsi largo tra i cespugli alle nostre spalle.
Mio
padre e Alicia sono i primi della fila: hanno entrambi gli occhi
rossi e un fazzoletto appallottolato in mano. I miei fratelli, a
qualche passo di distanza, sembrano un gruppo di tifosi intenti ad
assistere alla vittoria della squadra del cuore: Damien e Clark
applaudono animatamente, fischiando e lanciandosi in acclamazioni che
mi fanno avvampare come un bel peperone maturo. Alfred e Jarod
mantengono una posa più composta, ma hanno stampato in faccia lo
stesso identico sorriso allusivo.
Eric
ed io ci scambiamo un'occhiata terrificata. «Dici che hanno sentito
tutto?» sbotto, a mezza voce. «Come hanno fatto a sapere dove
trovarci? E' opera tua?».
Lui
digrigna i denti, assomigliando in modo impressionante ad una tigre
pronta ad azzannare chiunque sia stato tanto idiota da stuzzicarla.
«Certo che no. Devono averci seguiti. Anche perché l'unico a
conoscenza dei miei piani per oggi era James ...». Socchiude gli
occhi e sibila un'imprecazione. «Brutto bastardo. Gli avevo intimato
di non lasciarsi sfuggire una sillaba, invece deve averlo detto a
William, che a sua volta …».
«…
l'ha riferito ad Alicia» completo io, con un sospiro sconfitto. «In
questa città nessuno è capace di pensare agli affari propri».
Incurante
della presenza dei miei famigliari, Eric fa scorrere le mani lungo la
curva dei miei fianchi e poi più giù, verso le cosce. «Sono sicuro
che non hanno sentito quel che ci siamo detti. Altrimenti tuo padre
avrebbe già cercato di farmi fuori».
Il
suo ragionamento non fa una piega. «Meglio così. Voglio tenere la
notizia per noi almeno fino al matrimonio». Inclino la testa,
gettandogli un'occhiata maliziosa. «Se non ti dispiace, vorrei
continuare quello che stavamo facendo quando quegli inopportuni
impiccioni ci hanno interrotti. Tu che dici?».
Eric
mi prende alla lettera. Un attimo prima di incollare le labbra alle
mie, per darmi un bacio che di sicuro scandalizzerà
irrimediabilmente i miei consanguinei, le incurva in un ghigno
perfido. «Dico che hai assolutamente ragione, piccola».
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Ciao
a tutti! No, non sono defunta. Ho solo avuto un brutto periodo e zero
voglia di scrivere.
Aggiornerò anche l'altra storia quanto prima,
non preoccupatevi. Grazie a chi continua a recensire/seguire le mie
storie, ho davvero bisogno del vostro sostegno.
Per
quanto riguarda questa, è ufficialmente terminata. Inizialmente
avevo pensato di scrivere anche del matrimonio, ma poi mi sembrava
troppo e ho lasciato perdere. Spero che il capitolo vi sia piaciuto,
attendo speranzosa i vostri commenti!
Un
bacio, a presto
Lizz
p.s.
risponderò alle recensioni non appena potrò. Un grazie enorme a chi
ha trovato il tempo per lasciarmi anche poche righe. Apprezzo
ugualmente, vi adoro!
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