Realgar
era riuscito a far capire agli altri phobosiani le proprie
necessità, ma soprattutto quelle di Samantha. I padroni di
casa, però, non gli avevano permesso di andare a recuperare
le scorte dal rover, per via del suo precario stato di
salute.
L’espoloratore,
costretto a una specie di prigionia, occupò il tempo,
pulendo le proprie pistole. Di tanto in tanto, sollevava gli
occhi su Samantha, diventata ormai una vera attrazione per i
bambini di quella piccola tribù. Osservando i giochi dei
giovani e le attività quotidiane degli adulti, Realgar si
rese conto che il suo talento per le armi da fuoco era
un’abilità ereditata da quella stirpe di cui ricordava molto
poco. I phobosiani avevano una coordinazione motoria
superiore, lui stesso ne ignorava le cause. Pierre, il padre
di Samantha, si era prodigato in spiegazioni dettagliate, ma
lui non era stato molto attento. Scarsa memoria a breve
termine, campo visivo più esteso, conoscenze impresse nei
geni che spiegavano come fosse possibile per un phobosiano,
rimasto solo in tenerissima età, ricordare vagamente la
propria lingua madre, ma che aveva impiegato quasi vent’anni
per imparare la lingua umana.
Realgar
aveva rimuginato parecchio sulla morte dello scienziato e
l’arresto mancato della figlia. Era ormai convinto che la
Fratellanza fosse coinvolta e, se Sam era veramente
intenzionata a inviare i dati recuperati sulla Terra, doveva
per forza andare a Olympus, ovvero nel cuore della
Fratellanza stessa. Non riusciva a vedere via d’uscita per
quella situazione, ma doveva riportare Samantha in una zona
civilizzata, non poteva vivere a lungo senza cibo.
Il
vociare crebbe quando i maschi della tribù ritornarono
dall’escursione, trasportando non senza difficoltà il rover
e tutto ciò che conteneva. I phobosiani avevano recuperato
tutto quello che Realgar e Samantha avevano lasciato nei
pressi della sonda e l’umana fu felice di poter finalmente
placare la propria fame, sgranocchiando una delle razioni.
Realgar le fece compagnia, sbocconcellando una delle
proprie.
«Quindi
le tue barrette di cosa sono fatte?» gli chiese Sam,
guardandolo da dietro le sottili lenti degli occhiali. La
stecca destra si era piegata e la montatura le cadeva
obliquamente sul viso.
Realgar
sollevò lo sguardo su di lei, per poi osservare la propria
tavoletta dall’improbabile colore giallognolo. «Fosfato,
potassio, acqua e sali minerali…» rispose dopo un attimo di
esitazione.
La
ragazzina annuì, rimanendo in silenzio.
Realgar
sospirò. «A che stai pensando?» le chiese atono.
«Che
se voglio sopravvivere devo raggiungere una città o un
avamposto. Le mie scorte si esauriranno...»
Lui
sbuffò. «Già...»
Lei
portò il pollice alle labbra e iniziò a tormentarsi
l’unghia, stringendola tra i denti. Lanciò fugaci occhiate a
Realgar e aprì un paio di volte le labbra per parlare, ma
non le uscì nemmeno una parola.
«Vuoi
inviare i dati sulla Terra...» disse Realgar. Non era una
domanda e non gliela pose con quel tono.
Lei
assunse un’espressione addolorata. «Lo so che non sei
d’accordo, ma le scoperte di mio padre potrebbero salvare il
pianeta! L’Umanità potrebbe tornare a passeggiare tra i
prati verdi e a godersi i tramonti in riva al mare!»
«L’Umanità
non si estinguerà se non potrà fare quelle cose» rispose
duramente lui, spostando lo sguardo sugli altri phobosiani.
Erano un popolo primitivo, ma nei loro cuori non c’era la
cattiveria che aveva visto in quello degli umani. «Ma sul
fatto che tu debba tornare in una città hai ragione. Il
problema è che sei ricercata, se cercherai di entrare in una
cupola i Custodi lo sapranno subito, mentre in un avamposto
irregolare rischieresti di finire a fare la prostituta per
il resto della tua vita...»
Lei
abbassò gli occhi, stringendosi le ginocchia al petto.
«Quindi… mi stai dicendo che sono fregata, che non c’è
niente da fare?»
«No»
rispose lui, tornando a guardarla. «Devi andare tu stessa
sulla Terra, là sarai al sicuro dalla Fratellanza.»
Sam
lo guardò interdetta. «Hai dimenticato che le navi per la
Terra partono dal Mons Olympus, che è la roccaforte della
Fratellanza?»
«Hai
dimenticato che ho più di un secolo di vita?» rispose lui.
«Olympus era ancora in costruzione quando io già bazzicavo
per il pianeta. So come entrare, evitando i controlli. Una
volta all’interno, cercherò di portarti all’ambasciata
terrestre. Una volta al suo interno i custodi non potranno
prenderti e tu potrai chiedere asilo e grazie a quei dati
avrai un bel biglietto di sola andata per la Terra.»
«Ma
se ci scoprono, ci uccideranno! E come faremo ad
attraversare il canyon? Non abbiamo abbastanza scorte per
aggirarlo e l’interno non è mappato» obiettò Samantha.
«Probabile.
Ma prima o poi capita a tutti di morire e non credo che tuo
padre abbia sognato per te una vita da ricercata. Pierre ti
voleva libera e felice, lo so bene. Per quanto riguarda le
Vallis Marineris, troverò una soluzione e riusciremo ad
attraversalo.»
«Ma...»
esordì la ragazza.
«Stai
tranquilla, farò del mio meglio affinché non ti accada
nulla. Prenderai quella navetta e sarai in salvo. Solo…
cerca di fare in modo che quei dati non vengano usati per
farci del male» mormorò Realgar.
«Non
potrai venire con me e difficilmente io potrò tornare su
Marte» rispose mestamente lei, dando per scontato che con
l’aiuto dell’esploratore la sua missione sarebbe stata un
successo.
«Sarai
libera» replicò il phobosiano, sorridendole.
Lei
strinse i pugni, si mise in ginocchio davanti a lui e si
sporse, posandogli un innocente bacio sulle labbra,
chiudendo gli occhi. Aveva sperato che Realgar ricambiasse,
che la cingesse a sé, tramutando quel bacio in qualcosa di
più intenso, ma lui rimase impassibile, non mosse nemmeno un
muscolo.
Sam
si scostò e lo guardò negli occhi. «Non sarei felice...»
disse, sperando di riuscire a smuoverlo.
«Biologicamente
non siamo compatibili e non nutro attrazione sessuale nei
tuoi confronti. Ti sono affezionato, ma come amico. Non
posso essere più di questo» spiegò lui pragmaticamente,
distruggendo qualsiasi speranza della giovane, che chinò il
capo e si ritrasse, cercando di trattenere le lacrime che
quella cocente delusione le avevano fatto salire agli occhi.
Realgar
si alzò in piedi e si allontanò, raggiungendo il rover e
cominciando a studiare le mappe della superficie marziana.
Un
ragazzo gli si avvicinò incuriosito, affascinato dai disegni
sui fogli plastificati. Cominciarono a parlottare tra di
loro. Realgar aveva preso un po’ di dimestichezza con il
loro idioma e spiegò al giovane che doveva raggiungere
Olympus.
«Kuth’è»
rispose il ragazzo, puntando l’indice sul Mons Olympus
segnato sulla mappa. Quella parola riportò molteplici
ricordi nella mente di Realgar, memorie non sue,
indelebilmente scritte nei suoi geni.
«I
tunnel...» mormorò preda di un lieve capogiro, mentre
l’altro lo fissò interrogativo, non comprendendo la lingua
umana. Realgar aveva ricordato che il suo popolo viveva
sottoterra e che si muoveva sotto la superficie sfruttando
gli antichissimi canaloni lasciati delle colate laviche
risalenti a milioni di anni prima. Una mappa impressa
all’interno del suo genoma, una dote che spiegava come mai
gli era così facile orientarsi anche quando la
strumentazione era inutilizzabile.
Realgar
cercò di spiegare all’interlocutore la sua necessità: aveva
bisogno di trovare l’accesso all’intrico di canali
sotterranei, per poter raggiungere la propria meta.
Il
giorno successivo i guardiani li accompagnarono all’ingresso
del dedalo che si estendeva sotto la superficie di Marte in
un’intricata ragnatela in cui nessuno essere umano aveva mai
messo piede. Forse qualche galleria era stata utilizzata, ma
di certo non quelle che correvano nel ventre delle Vallis
Marineris.
L’ossigeno
era così rarefatto che Samantha era costretta a tenere la
maschera.
«Credi
di poter trovare la strada giusta?» domandò la ragazza.
«Non
ne ho idea. È la prima volta che metto piede qua sotto...»
ammise Realgar.
Sam
deglutì. «Se dovessimo sbagliare strada…?»
Lui
si voltò a guardarla, mordendosi un labbro. «Moriremmo. I
viveri sono molto limitati quindi tu non potresti nutrirti,
mentre se non riesco a trovare una via per tornare in
superficie morirò per l’assenza di luce.»
«Se
tentassimo di attraversare i canyon sarebbe la stessa cosa,
solo che tu non moriresti» commentò Samantha, sistemandosi
gli occhiali sul naso.
«Ma
i phobosiani conoscono questa via...» rispose Realgar. «Se
quello che diceva tuo padre è vero, dovrei ricordare la
strada, anche se non l’ho mai percorsa in vita mia.»
«Allora
dobbiamo tentare» sentenziò la giovane.
«Sei
sicura?» le chiese Realgar, con una punta di preoccupazione.
Lei
gli sorrise. «Ho fiducia in te.»
Lui
sorrise ironico. «Che fortuna...»