Distesa nel letto d’ospedale che occupava ormai da una
settimana, Sofia osservava i suoi amici rumoreggiare con un pallido
sorriso dipinto sul volto.
Da quando Claire, Aleja e Martina
l’avevano portata a Roma, Laurence, André e Blaze
andavano a turno a trovarla. Di solito le raccontavano degli
addestramenti e di tutte le piccole banalità quotidiane, ben
sapendo quanto ne sentisse la mancanza. Quel giorno, invece, erano
tutti e tre lì.
«Ieri sera Marcos ha sciolto il palazzo
di ghiaccio che alcuni miei Apprendisti avevano realizzato in ore di
duro lavoro» la informò André. Sofia
scoppiò a ridere.
«E ne è uscito
vivo?» chiese divertita.
«Per un pelo» disse Blaze.
«È scappato veloce come il vento e si è
nascosto».
Laurence sedette su un angolo del letto.
«Quando pensi di tornare a casa,
Sofi?»
«Tra un paio di giorni, credo. Ormai sto
meglio» rispose lei con un sorriso. Qualcuno bussò
alla porta e la testa di Gregory fece capolino.
«Generi di conforto in
arrivo!» annunciò, estraendo un paio di tavolette
di cioccolata dalla tasca della giacca. Gli occhi di Sofia brillarono.
«Fantastico, stavo morendo di
fame!».
Gli altri scossero la testa. Mentre la ragazza
iniziava a scartare la prima tavoletta, Gregory scambiò
un’occhiata con gli altri tre uomini. La cosa non
sfuggì a Sofia.
«Greg, conosco quello sguardo. Cosa devi
dirmi?» lo incalzò.
L’uomo si accomodò su di una
sedia e si fissò la punta delle scarpe.
«Sai, poco fa Giovanni è
venuto alla Valle…».
Un ringhio sordo lo interruppe; Aleja soffiava
come una gatta infuriata, manifestando così tutta la sua
rabbia. Martina e Claire non sembravano meno arrabbiate. Sofia, al
contrario, era estremamente divertita.
«Sono curiosa di sentire cosa
voleva» esclamò; una volta tanto, non aveva idea
del motivo che aveva spinto Giovanni ad agire in un certo modo.
«Voleva sapere se ti avevamo
rimpiazzata». A rispondere non fu Gregory ma
André. Una smorfia d’irritazione stravolse il viso
della giovane.
«Quello che voleva sapere davvero era se
mi ero salvata o no. Immagino abbia manifestato un certo disappunto,
quando lo avete informato del fatto che sto bene»
replicò.
«In effetti sembrava piuttosto
deluso» ammise Gregory. «È stato
difficile fermare Blaze: credevamo l’avrebbe murato vivo in
un blocco d’acciaio, quando l’ha visto
arrivare».
Chiamato in causa, il ragazzo si limitò
a sbuffare.
Appollaiata sul davanzale della finestra, Martina
fece dondolare i piedi con aria assorta prima di parlare.
«Perché era tanto arrabbiato
con te da lasciarti da sola nel deserto, a morire?»
domandò a Sofia. L’altra la guardò con
indifferenza.
«Credo faccia parte della sua natura,
cercare di uccidermi. Forse spera che così il richiamo del
Canto del Fuoco cesserà» rispose.
Prima che qualcuno potesse farle qualche altra
domanda, un’infermiera si affacciò alla porta.
«Ma quanti siete? Non potete stare tutti
qui!» strillò.
«È meglio che non la facciate
arrabbiare… andate, ci vediamo a casa tra un paio di
giorni» li congedò Sofia.
I suoi amici la salutarono rumorosamente ignorando
le occhiatacce dell’infermiera, che si richiuse la porta alle
spalle lasciando sola Sofia.
Nella penombra lei si voltò verso la
finestra, fissando lo sguardo nel cielo buio e freddo di Dicembre. Si
addormentò così, sognando le vie di Roma
illuminate a festa che si trovavano appena oltre quel vetro.
*
Un grido altissimo, acuto e disumano fece vibrare tutti i vetri.
I Portatori del Centro, confusi e allarmati, si
sparpagliarono all’esterno tentando di capire da dove
provenisse il suono e soprattutto da chi o cosa fosse scaturito. Alcuni
secondi e l’urlo si ripeté, più alto,
intenso e prolungato.
Sgomitando tra la folla Jackson, Tsukiko e Xavier
arrivarono a poche decine di metri dal bosco.
Mentre l’urlo stridulo si ripeteva per
la terza volta, costringendo molti Portatori a proteggersi le orecchie
con le mani, Tsukiko si guardò attorno.
«L’urlo viene da
laggiù» disse, indicando il bosco. Sembrava
spaventata.
«Ma chi può emettere un suono
del genere?» domandò Jackson. Aveva i peli della
nuca dritti come aghi.
«Questo è il grido di un
Elementale» li informò Xavier con voce piatta. Gli
altri due si voltarono a guardarlo, accigliati.
«E perché mai un Elementale
dovrebbe gridare così?» gli chiese Jackson.
«Per lo stesso motivo per cui lo farebbe
un essere umano: perché qualcuno gli sta facendo del male o
lo ha fatto infuriare» fu la risposta.
«Non so perché ma ho la
brutta sensazione che c’entri Giovanni»
borbottò l’americano, dirigendosi verso gli
alberi. Non si sbagliava: arrivato al grande ippocastano vide che
Giovanni era là, furioso come non mai. Un paio di accette
erano state abbandonate a terra, ai piedi dell’uomo: le lame
erano smussate e, in molti punti, scheggiate. Impugnando una scure di
argentea Energia, l’italiano stava vibrando dei colpi potenti
e decisi al tronco dell’albero; a ogni colpo, il grido che
aveva allarmato tutti saliva al cielo, irato e dolente: proveniva
dall’albero stesso.
Jackson si scagliò in avanti e
afferrò Giovanni per le braccia, tirandolo indietro.
«Giovanni, che stai facendo?
Fermati!» gli intimò; senza degnarlo della minima
attenzione l’altro si divincolò e
sferrò un altro violento colpo contro l’albero.
Assieme al grido, stavolta
dall’ippocastano scaturì anche una figura: una
fanciulla bellissima, dai lunghi capelli biondo scuro e aggrovigliati e
coperta da quelle che sembravano foglie e scaglie di corteccia si
librava nello spazio tra l’albero e i due uomini. Furiosa,
spalancò la bocca ed emise un grido ancor più
penetrante dei precedenti: allargò le braccia e
un’onda invisibile si propagò nell’aria,
scagliando indietro i due uomini.
«Una Driade!»
esclamò Jackson atterrito. Non aveva mai visto uno Spirito
degli Elementi; raramente si manifestavano ai Portatori, preferendo la
calma e l’isolamento.
Giovanni si rimise in piedi, inciampando nelle
radici degli alberi. La comparsa dell’Elementale che viveva
nell’ippocastano che aveva cercato di abbattere con tanta
decisione sembrava averlo riportato alla ragione. Mentre pensava a cosa
fare, la Driade urlò ancora.
«Come possiamo placarla?»
gridò l’italiano tappandosi le orecchie.
«Non potete. L’unico modo
è tentare di riparare all’offesa, al danno che gli
è stato arrecato» disse Xavier alle sue spalle non
appena la Driade smise di gridare. Gli occhi dei tre uomini furono
catturati dalla profonda ferita che si apriva sul tronco massiccio
dell’albero. Xavier riscosse gli altri due dalle loro
riflessioni.
«Non urlerà ancora a lungo:
tra poco si vendicherà» disse a Giovanni in tono
impaziente. L’italiano lo guardò corrucciato.
«Come lo sai?»
«Non è importante»
lo liquidò l’altro con un gesto sbrigativo della
mano. «Risana quell’albero, e in fretta».
Giovanni obbedì immediatamente. Lo
sguardo indecifrabile di Xavier lo metteva stranamente a disagio;
continuava ad avere l’impressione che nascondesse qualcosa.
Mentre si inginocchiava lentamente, vide con la coda
dell’occhio Xavier che trascinava via Jackson. Intuendo solo
in quell’istante la furia che aveva scatenato e il pericolo
che correva, l’uomo sedé sui propri calcagni e
poggiò i palmi delle mani a terra. Inizialmente
lasciò fluire solamente un piccolissimo flusso di Fuoco per
non mettere in allarme la Driade; quando il tronco
dell’albero iniziò a ricomporsi, dato che
l’Elementale sembrava essersi calmato almeno in parte,
Giovanni aumentò la densità del Fuoco che stava
evocando. Dopo parecchi minuti di duro lavoro, a ricordo della furia
devastatrice che aveva scatenato sull’incolpevole albero non
restava che una seconda cicatrice.
Sempre in ginocchio, l’uomo
alzò cautamente lo sguardo sulla Driade che, dopo averlo
osservato intensamente per alcuni istanti, si tuffò
nell’ippocastano sparendo alla vista.
Tirando un profondo sospiro di sollievo Giovanni
si alzò, raccolse le accette rovinate e spezzate che aveva
abbandonato al suolo e uscì rapidamente dal bosco. Ad
attenderlo trovò i Portatori del Centro – tutti,
fino all’ultimo – schierati in una massa compatta.
Con un gesto di stizza si fece largo tra la folla che al suo passaggio
si aprì, quasi avessero paura della sua vicinanza.
Mentre Tsukiko congedava gli allievi, sospendendo
le lezioni per quel giorno, Xavier si apprestò a seguire
l’italiano. Fatti solo pochi passi, però, fu
bloccato da Elizabeth.
«Perché state sospendendo gli
addestramenti?» gli domandò furiosa.
«Perché nessuno riuscirebbe a
concentrarsi, dopo quello che è successo. Neanche
tu» rispose tranquillamente Xavier. La sua risposta ebbe
l’effetto di benzina gettata sul fuoco: strepitando,
Elizabeth iniziò a protestare. Lo sguardo che
l’uomo le rivolse non era quello di un normale trentenne; ero
lo sguardo di un uomo di almeno cent’anni. Lo sguardo di chi
ha visto troppo.
«Sei sempre così arrabbiata,
così smaniosa di controllare il tuo potere. Non provi alcun
piacere nell’apprendere. Cos’è che ti
manca, per essere felice?» le chiese. Senza attendere la
risposta, se ne andò.
Pensierosa, Elizabeth si fermò a
riflettere. Le parole di Xavier l’avevano colpita: cosa le mancava, per essere
felice?
La sua mente le diede la risposta prima che la
ragione vi si potesse opporre: e il volto di André
affiorò dai ricordi. Elizabeth scosse la testa. Sentiva
nostalgia di André. Si era chiesta più volte se
fosse sopravvissuto alla gravissima ferita che aveva subìto
il giorno della battaglia, ma la parte della sua mente che la spingeva
a voler acquisire un potere sempre maggiore le aveva impedito di
soffermarsi sul pensiero di lui. Scosse di nuovo la testa, chiedendosi
cosa dovesse fare. Poi, incapace di prendere una decisione, si
allontanò per andare a esercitarsi.
*
Xavier osservò Elizabeth perdere l’ennesima
battaglia con se stessa e soccombere una volta di più
all’ossessiva smania di potere che la divorava. Scuotendo la
testa si voltò, chiedendosi se fosse l’aria
dell’Irlanda a rendere quei Portatori così
maledettamente ostinati e incapaci di prendersi ciò che
realmente desideravano.
*
Dei colpi leggeri alla porta prepararono Sofia all’ingresso
del dottore. Nel buio, non scorse che il camice bianco.
L’uomo si accostò al letto e
dopo un istante la sua voce spezzò il silenzio.
«Allora signorina, come va questa
sera?» domandò con voce bassa e allegra. Sofia si
tirò a sedere mentre un sorriso pieno di gioia le danzava
sul volto.
«Michele!»
«Sì, mia cara, sono proprio
io» rispose lui accomodandosi sul bordo del letto. Le
passò una mano sui capelli. «Come ti
senti?»
«Oh, io sto molto meglio»
disse Sofia, stiracchiandosi come una gatta. «Non ti
chiederò come hai scoperto che ero qui: non so come tu ci
riesca, ma quando sono a Roma conosci ogni mio spostamento».
Michele sorrise.
«Stavolta è stato
più facile di quanto pensi: ho incontrato Aleja, questa
mattina, e mi ha detto che eri qui. Così ho pensato di
passare a trovarti».
L’unica risposta che ricevette fu un
sorriso ancora più ampio. Le batté un dito sul
naso.
«Dato che stai meglio, cosa ne dici di
una passeggiata?» la tentò.
«A quest’ora? Ma fuori fa
freddo!» si lagnò Sofia.
«È vero ma Roma, di notte,
è ancora più bella… illuminata a festa
poi!» insisté Michele.
Sofia sbuffò, lanciandogli
un’occhiata di traverso mentre si alzava, recuperava i propri
vestiti e andava a cambiarsi. Dieci minuti dopo si allontanavano
indisturbati nell’oscurità.
*
La luna scintillava sulla neve compatta, dando un aspetto irreale a
chiunque si fosse avventurato all’esterno. Facendo strada a
fatica, Gregory giunse a uno dei varchi che portavano alla Valle degli
Elementi.
«Questo è uno dei tanti
passaggi che ci collegano all’esterno»
spiegò alle persone che lo seguivano. «Non li
usiamo spesso; le rare volte in cui ci avventuriamo
all’esterno dobbiamo farlo in modo rapido, e così
utilizziamo le Fenici. Per voi che venite alla Valle per la prima
volta, però, è utile capire
dov’è situata. Per questo abbiamo preso la strada
più lunga» proseguì.
Martina, Claire e Aleja annuirono mentre Gregory
apriva il passaggio e faceva loro cenno di precederlo.
«C’è ancora molta
strada da fare?» chiese Martina, il respiro ansante, mentre
s’inerpicavano su una collinetta; Sofia la prendeva
continuamente in giro per la sua pigrizia.
«Siamo quasi arrivati» la
rincuorò Gregory.
«L’avevi detto anche
mezz’ora fa!».
Claire soffocò una risatina. Un attimo
dopo André sbucò da nulla, andando loro incontro.
«Ce ne avete messo di tempo!»
esclamò. «Andiamo dentro, così potrete
scaldarvi» aggiunse, conducendole nel salottino in cui mesi
prima aveva salutato i suoi amici, pronto a partire.
Le tre ragazze, tremanti, sedettero di fronte a un
bel fuoco scoppiettante mentre Gregory procedeva alle presentazioni.
«André, Blaze e Laurence li
conoscete già» disse, guardandosi attorno.
«Gli altri quattro Maestri: Costa, Gloria, Viola e
Friedrich» proseguì, indicandoli a mano a mano che
li nominava. «Claudio e Cornelia, il padrino e la zia di
Sofi», i due le salutarono con un sorriso e un cenno del capo
«e alcuni dei nostri allievi: Ailie, Fernando,
Emma… oh, ci sono anche Serj e Pietro» concluse,
indicando il gruppetto che, riunito attorno a un tavolo, chiacchierava
animatamente.
«Loro sono Claire, Aleja e Martina.
Amiche di Sofi» disse Gregory a mo’ di spiegazione.
«A proposito di Sofia»
intervenne Pietro «sappiamo quando
tornerà?».
«Tra un paio di giorni»
rispose Cornelia prima di intavolare una conversazione con le nuove
arrivate. Intanto Serj fissava Aleja come ipnotizzato. Blaze gli
assestò una violenta gomitata nelle costole.
«Se ti piace, va’ a
parlarle» gli bisbigliò. Senza farselo ripetere,
il ventisettenne si avvicinò ad Aleja con aria spavalda e
sedette accanto a lei. Le bisbigliò qualcosa
all’orecchio con aria sicura; la risposta della ragazza fu
tale da far scivolare via dalla faccia di Serj l’espressione
baldanzosa e sostituirla con una confusa e mortificata. Blaze
ridacchiò.
«Non so cosa Aleja gli abbia
detto» confidò ad André e Laurence
«ma se è riuscita a farlo stare zitto, ha tutta la
mia stima».
Proprio in quel momento qualcuno aprì
la porta con violenza, mandandola a sbattere contro il muro.
«Giovanni!» esclamò
Greg, un po’ spaventato e un po’ sorpreso mentre
nella stanza l’atmosfera si raggelava. «Che ci fai
qui?».
Blaze e Claudio si alzarono minacciosi.
«Come
è arrivato qui, semmai» lo corresse il
più anziano in un ringhio.
Giovanni rivolse loro un’occhiata
altrettanto gelida.
«So bene come si arriva. Ho insegnato a
Sofia quasi tutto quello che sa: riconosco il suo stile»
disse astioso. «E non crediate che mi faccia piacere essere
qui. Ci sono venuto solo perché non sapevo come
contattarvi».
«Be’, cosa vuoi?» lo
incalzò Serj. Giovanni lo guardò minaccioso, ma
il ragazzo non si fece intimorire.
«Visto che una zelante amministratrice
di un ospedale di Roma ha ritenuto opportuno svegliarmi alle cinque del
mattino per dirmi che mia figlia era sparita – cosa che non
suscita in me il minimo interesse – ho pensato di dirlo a
voi. Non ho intenzione di ricevere altre chiamate di questo
genere» spiegò sprezzante l’uomo.
«E perché la cosa dovrebbe
riguardare noi?» domandò Blaze.
«Da quando in qua tu hai una
figlia?» chiese invece André.
Giovanni sbuffò.
«Quando l’ho rapita, ho creato
documenti e un passato a Sofia. Le ho dato il mio cognome: risulta
essere mia figlia a tutti gli effetti» rivelò
controvoglia.
Le espressioni di chi aveva di fronte variavano
dallo sgomento alla rabbia. Claudio, che vedeva la cosa come
l’ennesimo affronto a Tamara e Thobias, era senza parole per
l’indignazione; Aleja, al contrario, sembrava tranquillissima.
«Probabilmente era solo stanca di stare
rinchiusa. E poi non è la prima volta che
sparisce… di sicuro sarà di ritorno tra
poco» disse.
Gregory la guardò, convinto solo in
parte.
«Eppure non riesco a scrollarmi di dosso
questa brutta sensazione. Se solo non avesse rubato quei libri, se non
l’avesse fatto… forse sarei più
tranquillo. Prospero se ne accorgerà, è solo
questione di tempo» replicò sconsolato.
«Prospero? Prospero Limardi?»
chiese Martina. «Ma che c’entra lui con
Sofi?».
«Sofi ha rubato dei libri dalla sua
biblioteca privata, quasi tre mesi fa» spiegò Greg.
Un flebile «Oh» si
levò dalle tre ragazze. Giovanni spalancò gli
occhi per lo stupore.
«Che significa, che ha rubato dei libri
dalla biblioteca di Limardi? È una follia!»
esplose l’italiano, perdendo la propria freddezza.
«Non è la prima volta che
Sofia fa qualcosa di stupido e pericoloso» disse Blaze.
«Si vede che ha preso da te, paparino»
lo schernì subito dopo.
Giovanni, troppo preso dai propri pensieri,
neanche lo guardò.
«Questo è diverso!»
gridò, camminando agitato davanti al fuoco. «Voi
non capite… Prospero Limardi è pericoloso, e per
Sofia lo è più che per chiunque altro! Deve
stargli lontana!».
Gregory e Laurence assottigliarono lo sguardo.
«Giovanni, se sai qualcosa che noi non sappiamo, questo
è il momento giusto per parlare» disse il secondo,
freddo come raramente lo si era visto.
Giovanni lo guardò arcigno, recuperando
di botto tutto il proprio autocontrollo, e non rispose.
«E se Prospero avesse scoperto del
furto? Potrebbe aver mandato qualcuno a rapirla!»
esclamò Claudio, terrorizzato.
«Impossibile. Non l’avrebbero
mai presa alla sprovvista, soprattutto adesso che sta bene»
decretò André.
«Non possiamo esserne sicuri»
ribatté Cornelia. «E se mandassimo Nabeela a
cercarla?» propose.
Gli altri accolsero favorevolmente il
suggerimento. André si mosse per chiamare la Fenice, mentre
Laurence scriveva frettolosamente su un foglietto di carta. Quando il
giovane francese tornò con la Fenice appollaiata sulla
spalla, Laurence legò il cartiglio a una zampa del
bell’animale.
«Va’ a cercare Sofi»
le disse piano, accarezzandole la testa. Nabeela lo guardò
per un istante con i suoi piccoli occhi lucenti e poi svanì.
*
Profondamente addormentata, Sofia contrasse i muscoli del volto.
Agitò una mano e si girò, tentando di scacciare
qualcosa che la pungeva. Senza darsi per vinta, Nabeela le
beccò il lobo dell’orecchio con un po’
più d’energia.
«Ma che
accidenti…?» bofonchiò la ragazza,
stropicciandosi gli occhi e tirandosi a sedere.
Nabeela le diede il buongiorno scuotendo
gioiosamente la coda.
«Ciao bellezza!»
bisbigliò Sofia, accarezzando le piume morbide come la seta.
La Fenice protese una zampa verso di lei.
«Che cos’hai qui?»
chiese la giovane, slegando il biglietto e leggendolo. Lo
accartocciò, gettandolo sul letto. «Accidenti
bellezza, è meglio sbrigarsi» disse Sofia,
schizzando fuori dal letto e iniziando a correre in giro cercando i
propri vestiti. Nabeela le svolazzò dietro, un calzino
stretto nel becco.
«Grazie» ansimò la
ragazza, saltellando su un piede solo mentre s’infilava il
calzino, alla disperata ricerca dei pantaloni. Nabeela le
lasciò cadere il maglione sulla testa.
«Trovami anche l’altro
calzino, per favore» la pregò Sofia, riemergendo
dal maglione con i capelli irrimediabilmente arruffati. «Ah,
eccovi!» sbottò, trovando i pantaloni
appallottolati sotto il tavolo. Se li infilò e
agguantò le scarpe mentre la Fenice tornava con il bottino
stretto nel becco.
«Direi che siamo pronte ad
andare» esclamò Sofia dopo essersi infilata il
calzino mancante e le scarpe, il giaccone sottobraccio e la sacca
stretta in pugno. Lei e Nabeela erano appena sparite quando una
serratura scattò e Michele emerse dal bagno, pettinato,
sbarbato e avvolto in un accappatoio.
«Sofi?» chiamò,
guardandosi intorno e controllando ogni stanza. Quando
arrivò in camera da letto trovò il letto vuoto e
il foglietto spiegazzato sulle lenzuola. Lo lesse e scosse la testa,
chiedendosi cosa impedisse a Sofia, ogni volta, di salutarlo prima di
sparire.
*
Sofia e Nabeela si materializzarono nella grande biblioteca buia e
deserta.
«Andiamo» disse la ragazza.
Nabeela le si appollaiò sulla spalla mentre uscivano dalla
biblioteca.
Appena messo piede nel corridoio, Sofia
sentì delle voci provenire da una stanza poco lontana.
«Cos’è tutto questo
caos?» chiese, infilando la testa nella stanza. Alla sua
apparizione tutti le corsero incontro, sollevati.
«Si può sapere dove accidenti
ti eri cacciata?» le domandò Blaze, furioso.
«Davvero hai rubato dei libri nella
biblioteca di Prospero Limardi?» chiese invece Martina.
«Come hai potuto accettare di spacciarti
per la figlia di Giovanni?» sbottò Claudio.
Sofia alzò una mano, ignorando tutte le
loro domande concitate.
«Cosa ci fa lui qui?»
domandò con voce gelida; aveva infatti scorto Giovanni
mollemente abbandonato in una poltrona.
«Prenditela con i dirigenti
dell’ospedale in cui ti trovavi: sono stati loro a chiamarmi
per informarmi che eri sparita» rispose annoiato. Lei strinse
i pugni.
«Be’, ora puoi
andartene» sibilò tra i denti.
«Sono dovuto arrivare fin qui a piedi, a
causa della neve. Non vorrai farmi tornare indietro allo stesso
modo!». Il sorrisetto che le rivolse era ironico: era certo
che la ragazza gli avrebbe offerto di farsi ricondurre al Centro da una
Fenice. Ma la risposta di Sofia lo spiazzò.
«È esattamente quello che
desidero» rispose lei. «Ah, e spero tanto che lungo
la strada tu cada in un crepaccio o che una frana si abbatta su di te,
seppellendoti» aggiunse con aria cattiva.
«Sofi!» la riprese Cornelia,
scioccata.
«Un tempo avresti fatto qualunque cosa
per me» ricordò amaro Giovanni.
«Un tempo non mi avresti picchiata,
né avresti provato a uccidermi» replicò
Sofia. «Sono cambiate parecchie cose, da quando avevo
diciannove anni»
«Me ne sono accorto. Io so
dov’eri, ma non credere che durerà; tornerai sui
tuoi passi, prima o poi» disse inacidito, muovendosi verso la
porta ancora aperta.
«FUORI!» gridò
Sofia.
Giovanni se ne andò, il naso per aria e
l’espressione orgogliosa.
«Pensavi davvero quello che hai
detto?» le chiese Laurence rivolgendole un’occhiata
significativa.
«Se desidero vederlo ridotto in pezzi?
Sì, lo penso davvero» rispose lei con una smorfia.
Dopo alcuni istanti di doloroso silenzio si rivolse a Emma.
«Oggi lavori con me» annunciò, facendo
strada verso la porta. Poi si voltò. «Ehi, mi
servite anche voi!» disse a Pietro, Ailie, Serj e Fernando.
«Noi?». Pietro sembrava
confuso quanto gli altri. Sofia annuì.
«Sono curioso di sapere cosa ci
insegnerà» disse Serj a Ailie mentre seguivano
Sofia fuori dalla stanza.
*
«Michele, finalmente sei arrivato!».
Leggermente perplesso, l’uomo
guardò il suo collega: sembrava fuori di sé. In
lontananza si sentivano passi frettolosi risuonare sui pavimenti e voci
concitate.
«Cosa c’è, Luigi?
Perché tutto questo trambusto?».
Controllò l’orologio. «Non sono neanche
le otto!»
«È successa una cosa
tremenda, inspiegabile… Prospero è fuori di
sé…». Come se l’uomo
l’avesse sentito, un terribile urlo carico di rabbia si fece
strada fino a loro insieme a dei passi, sempre più vicini:
un istante dopo un altro loro collega voltò
l’angolo, trafelato.
«Michele, per fortuna sei
qui!» ansimò.
Sempre più perplesso, l’uomo
puntò i grandi occhi nocciola sul nuovo arrivato.
«Non siete mai stati così
felici di vedermi, prima d’ora. Si può sapere cosa
vi è preso?»
«Prospero ti vuole vedere. Subito»
annunciò il terzo uomo.
Un brutto presentimento si fece strada in Michele.
Mascherando l’agitazione si allontanò a grandi
passi, lasciando gli altri due uomini imbambolati lì dove si
trovavano.
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