Pavlov’d
I’m
the invisible man who can’t stop staring at the mirror
Nella
cabina di Ace non c’erano specchi. La prima volta che ci
aveva messo piede, ne era poi uscito con le mani insanguinate e dei
pezzi di vetro tra le dita: aveva buttato i vetri nel mare, dicendo che
solo Davy Jones avrebbe potuto sopportarli per
l’eternità. Poi aveva sollevato la cornice dello
specchio e, con una rincorsa, l’aveva letteralmente
scaraventata fuori bordo con furia.
Dopo
essere salito sulla Moby Dick, per molto tempo a seguire, aveva evitato
gli specchi come un elefante evita i topi. Se anche qualcuno si fosse
accorto della sua repulsione nei confronti del proprio riflesso (Izo,
ad esempio, lo aveva fatto notare a Marco e Thatch), nessuno ne aveva
mai parlato apertamente con Ace. Nessuno gli aveva mai chiesto nulla,
nessuno lo aveva mai forzato a specchiarsi, neanche per tenere a bada
quell’ammasso di capelli stregati, al mattino.
Ace
aveva molte riserve su molte cose: quando avesse voluto spiegarsi,
l’avrebbero ascoltato.
Poi
Ace aveva svelato di essere figlio biologico di Roger – ma il
suo vero padre era solo Barbabianca. Il suo sangue lo aveva turbato per
molto tempo, pensarono tutti. Eppure Ace continuava a odiare gli
specchi. Aveva fatto i conti con i propri genitori e nonostante questo
non tollerava la vista di uno specchio né di una pentola
lucida.
Ecco.
Non riusciva a sopportare il proprio riflesso. Cosa poteva turbare Ace
più della propria ascendenza? Dopo la morte di Thatch, Ace
non riusciva più neanche a mangiare le zuppe,
perché odiava i cucchiai in cui, per sbaglio, poteva vedere
i propri occhi. (Non che le zuppe gli fossero mai piaciute, in ogni
caso.)
Improvvisamente,
dopo aver rivisto Rufy ad Alabasta, Ace aveva ricominciato, piano
piano, a guardare il proprio riflesso: prima nell’acqua, poi
nel cucchiaio, poi in uno specchio vero e proprio. Alcuni giorni
rimaneva nella propria stanza davanti a uno specchio nuovo, a fissarsi
dall’alto in basso, dai piedi ai capelli, senza un motivo
apparente. Passava dei minuti infiniti a guardarsi, poi stringeva le
mani sulle braccia, sbuffava forte e sbatteva la porta della cabina,
acchiappando il cappello. Quando Marco gli chiese che diavolo stesse
combinando, Ace gli rispose che «Non riesco ancora a vedere
il mio riflesso.»
Sulla
nave scoppiò, allora, la diceria per cui Ace sarebbe stato
un vampiro. Teorie di complotti idioti si sparsero per tutta la flotta:
un vampiro che diventa fuoco era una storiella molto divertente, per
alcuni. In verità pensavano solo di prendere un
po’ in giro quel marmocchio, ma Ace reagì
piuttosto violentemente quando qualcuno cercò di
sdrammatizzare. Tornandosene nella propria stanzetta, Ace
pensò che si sarebbe dovuto disfare di quello stupido
specchio.
Quando
aveva anche solo pensato di essere riuscito a superare la morte di
Sabo...?!
Non
riusciva a guardarsi in faccia. O meglio, per qualche tempo ci era
riuscito di nuovo, ma solo perché aveva rivisto Rufy: il suo
fratellino adorato doveva avergli spalmato così tanta gioia
sulla faccia che Ace potè specchiarsi per qualche settimana
senza odiarsi a morte. Quando il benefico effetto di Rufy era
scomparso, Ace si era trovato di nuovo disarmato davanti a se stesso.
C’era
una cura definitiva per il male che sentiva? Perché
continuava a sentire la voglia di guardarsi allo specchio, eppure
provava uno smarrimento e un disgusto terribili nel proprio riflesso? A
volte riusciva a vedersi, a volte il vetro non gli restituiva nessuna
immagine – o meglio, a volte il cervello di Ace non
registrava il colore dei suoi capelli, le sue lentiggini, il suo
tatuaggio: Ace pensava che non ci fosse nulla sulla superficie di quel
dannato aggeggio di tortura.
Stava
regredendo allo stato in cui si era trovato subito dopo la morte di
Sabo. C’era solo un continuo sciabordio delle onde, nella sua
testa, uno sciabordio irritante, che si ripeteva nelle sue orecchie da
quando si svegliava a quando andava a dormire – di nuovo come
un tempo odiò dormire da solo, come quando dormiva con Rufy (Sabo non
c’era più) e poteva permettersi il lusso di
calciarlo lontano da sè, perché tanto Rufy gli
sarebbe stato vicino comunque.
Izo
fu molto sorpreso quando Ace, un giorno, gli chiese di prestargli a
tempo indeterminato uno specchio da borsetta. Ace disse soltanto che
«Nel mio viaggio alla ricerca di Barbanera voglio imparare a
guardarmi bene», con una specie di sorriso triste sotto alle
lentiggini.
Era
la tristezza di chi avrebbe voluto prendere tutto il dolore dei propri
amici e fratelli su di sè, per espiare le proprie colpe,
reali o no. Per sentirsi meglio, in una strana soddisfazione di chi
pensa di essere quello da condannare. Era la tristezza (che porta alla
contorta soddisfazione) tipica di chi è troppo triste per
sentire altro nel proprio cuore.
Rat-tat-tat-ta, sssh, sssh, sssh,
lo sciabordio delle onde della tristezza che lo soverchiava e di cui
non poteva fare a meno.
Non
Roger, ma Sabo. Per Sabo non riusciva a guardarsi allo specchio. Per
l’esser figlio di Roger non avrebbe potuto far nulla
– era così e basta. Per Sabo—per lui
avrebbe potuto fare tutto, avrebbe potuto salvarlo, avrebbe potuto
essere più forte, avrebbe potuto dirgli un milione di cose
per—
E
ancora si guardava nello specchietto, tentando di vedersi, e non
riusciva a sopportare la vista di quello che il metallo restituiva
– quando glielo restituiva. In un misto di odio, tristezza,
rimorso, pensò che avrebbe continuato ad aprire quello
specchietto per cercare di capire se quella fosse la volta buona: forse
sarebbe riuscito a guardarsi e a vederci Portuguese D. Ace, forse,
forse, quella era la volta buona, no, non lo era, non ci sarebbero
state volte buone, le aveva perse tutte quando Sabo era annegato ed era
finito insieme ai pezzi dello specchio che aveva lanciato a Davy Jones.
I’m
not ready for a handshake with death, no
Al
sesto livello di Impel Down Ace avrebbe tanto desiderato lo specchietto
di Izo. Nel suo cuore c’erano sempre stati sia la voglia di
vivere (liberi, come veri pirati) sia l’odio nei confronti di
se stesso: questi due sentimenti avevano sempre condiviso uno spazio
minuscolo nel suo cuore schivo. La supremazia di uno seguiva alla
supremazia dell’altra, scandivano il tempo della sua vita
come delle ere geologiche. La vita con Rufy e Sabo, l’odio
per la morte di Sabo, la vita di nuovo da quando aveva capito che la
propria esistenza non era stata solo un susseguirsi di sbagli a partire
dal suo stesso concepimento.
Incatenato
là sotto, dopo aver sentito da Hancock che Rufy stava
arrivando a salvarlo, Ace pensò che quella seconda fase di
voglia di vivere stava raggiungendo il picco massimo: presto,
pensò, la parabola sarebbe discesa verso lo zero, e sarebbe
arrivato l’odio, più prepotente che mai.
I
want to make you as lonely as me, so you can get addicted to this
«Sabo.
Ehi, Sabo.» Disse Rufy, con un sorriso accennato. Quando non
erano grandi sorrisoni c’era da stare attenti, con quel
marmocchio.
Sabo
si rivolse al suo fratellino. «Che cosa
c’è, Rufy?»
«Tu
sei l’unico che può capire quanto sono felice di
rivederti!»
Quanto
c’era di sottinteso, in quelle parole. Sabo era
l’unico perché era l’unico ad aver perso
Ace come era successo a Rufy – ma no, neanche Sabo poteva
capirlo, perché Rufy aveva visto il loro fratellone morire
davanti ai propri occhi, e Sabo non poteva immaginare il dolore e il rat-tat-tat-ta sssh sssh sssh
che gli pompava nelle orecchie.
«Non
lo so.» Rispose il suo fratellone biondo appena ritrovato.
«Non so che cosa ho provato quando mi sono ricordato di
tutto. Non so che cosa sto provando adesso.»
«Vedi
che allora lo sai?» Esclamò Rufy. Poi
saltò addosso al suo fratellone e lo strinse forte,
fortissimo. «Neanch’io lo so. Non è la
solita tristezza, vero? È come se... come se non potessi
fare a meno di pensarci.»
«Sì.»
«E
pensarci non mi fa stare meglio, però ho la sensazione che
mi faccia stare meglio lo stesso. Non lo senti anche tu?»
Non
c’era definizione migliore di quella.
«Sì,
Rufy. È davvero così. Continua a
parlarmene.»
«Ho
paura di non riuscire a superare la morte di Ace, però ho
anche paura che il tempo me lo faccia dimenticare. E se non
ricorderò più la sua faccia, o la sua voce?
Voglio andare avanti, ma non voglio lasciare nessuno
indietro.»
Oh,
Rufy, Rufy, il suo fratellino. Era diventato così forte.
Erano
soli insieme. Capite? Da soli, ma insieme. Non riuscivano a stare soli
da soli, quella sera. Dovevano raccontarsi dieci anni di storia e
c’era il tempo di mezza giornata.
«Però,
anche se vado avanti, non gli voglio meno bene. Riesci a
capire?»
«In
qualche modo, sì.»
«Tu
riuscirai ad andare avanti, Sabo?»
«Non
lo so,» rispose, cominciando a piangere senza singhiozzi,
«non lo so. Dovrò imparare.»
Il
giorno successivo, sulla nave dei rivoluzionari, Koala
sgridò Sabo per tutto il viaggio, perché il
giovane aveva trovato un lungo specchio e, preso da chissà
cosa, lo aveva buttato in acqua.
In
quello specchio Sabo aveva visto il viso di Ace sulla propria faccia, i
suoi occhi sui propri occhi, le sue braccia sulle proprie e
c’era quel tatuaggio che lo perseguitava come un fantasma.
Doveva imparare ad andare avanti, e
quell’allucinazione—quell’immagine—quella
proiezione del suo inconscio—qualunque cosa fosse stata
quella, non importava definirla, l’aveva stravolto. Doveva
cominciare piano piano, passo passo. Ora che non c’era
più Rufy con lui, doveva muoversi con calma. Uno specchio
così grande lo aveva sconvolto. Magari avrebbe potuto
provare con un vetro più piccolo, di quelli che riflette
soltanto il viso.
Note
Autrice:
Bene,
mi dicono. È una piccola cosa che gli inglesi chiamerebbero
Hurt & Comfort. Datemi solo il sigillo di marchio DOP e
l’affare è concluso.
La
canzone dei FOB, stavolta, è Pavlove, che è uno
scemissimo gioco di parole su Pavlov e su love. Cioè, in
realtà è un gioco di parole geniale, solo che mi
va di sminuire l’intelligenza di quei quattro perché mi
va.
Pavlov
è lo scienziato che studiò e
ipotizzò il riflesso condizionato: in breve, spiegazione di
Jo in maniera random: Pavlov dà da mangiare al proprio cane
solo dopo aver suonato una campanella. Dopo diverse volte, al suono
della campanella il cane comincerà a salivare di brutto
perché sa che dopo la campanella c’è il
pranzo. Jo ha fatto la stessa cosa coi propri gatti e quindi, quando
lei fischia, i suoi gatti accorrono, che siano sotto il tavolo o in
Nuova Zelanda.
Nella
canzone si parla di tutto e anche di più – i FOB
alle volte sono piuttosto random, perlomeno per me, forse sono io che
sono stupida –, quindi vi posso solo consigliare di
ascoltarla. Quel “I’m the invisible man who
can’t stop staring at the mirror” secondo me
è praticamente la definizione per Ace. Qui, Ace si comporta
in maniera contraddittoria: si avvicina e si allontana dagli specchi
nel tentativo di superare il trauma della morte di Sabo. Quando si
specchia o vede se stesso e si sente inadeguato, o vede Sabo e non
riesce a sopportarlo. Sabo proverà gli stessi sentimenti,
diventerà anche lui schiavo di quella tristezza malsana che
ogni tanto le persone provano: anche lui si guarderà allo
specchio e proverà quelle sensazioni.
Rufy
che parla in questo modo mi piace un mondo. Parla come un bambino, con
le parole di un bambino, ma esprime dei concetti che lasciano
spiazzati. Mi è piaciuto scoprire che Oda, fin
dall’inizio, ha voluto un protagonista per cui non
c’è bisogno dei balloon dei pensieri, ma solo di
quelli del parlato, ecco. È una scelta bellissima e
affascinante. Credo che ci proverò anch’io,
perlomeno per lui.
Poi
questi tre marmocchi saranno la mia fine, ma va bene comunque, eh.
Ancora
mi chiedo se per storie di questo genere vada aggiunto l'avvertimento
spoiler. Credo che ce lo metterò, ma è talmente
vago... Non saprei. Melius abundare quam deficere o comunque si dica.
Ora
che ho finito con le mie spiegazioni incomprensibili e/o contorte, vi
ringrazio per aver letto. Grazie!
Giuro
che non lo faccio apposta a pubblicare cose tristissime al sabato sera (o forse
sì?).
Alla
prossima!
claws_Jo
Questi
personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di
Eiichiro Oda; questa storia è stata scritta senza alcuno
scopo di lucro.
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