C’era una volta un bambino
che viveva in un posto lontano.
Bambino solo fuori, perché
dentro di lui non c’erano i sogni
di un vero bambino.
Era già un adulto, quel
bambino, perché nel posto lontano
nel quale viveva non gli era permesso restare bambino.
Perciò il bambino del
posto lontano, a causa di leggi a
noi forse un po’ strane, diventò
ben presto un bambino soldato, e al posto di un bastone o di un
semplice gioco
imparò a maneggiare un fucile e ad uccider persone.
Il bambino soldato non viveva con la
sua famiglia, come
tutti i bambini normali.
Viveva da solo, assieme ad altri
bambini soldato, in grandi
capannoni di legno, sorvegliati da uomini armati, con grandi fucili e
medaglie
scintillanti, e il bambino soldato a volte si chiedeva se anche lui, da
grande, avrebbe avuto una medaglia
brillante
come quella da appuntare al petto con orgoglio.
Il bambino soldato viveva con gli altri, ma dentro era solo.
Viveva con altri bambini, tutti
pronti con i loro fucili, ma
era raro che uno di loro parlasse, perciò il bambino soldato
stava sempre zitto
e si convinse perfino di non saper parlare. Ma ogni occasione era buona
per
lucidare il fucile, in caso venisse il nemico, perciò per il
bambino soldato,
parlare o meno non era importante.
Il bambino soldato dormiva in un
giaciglio di paglia e
fango, stringendo il fucile così come gli avevano insegnato;
lo svegliavano all’alba
(o forse anche prima) ed era costretto a svegliarsi di scatto,
dimenticando il
sonno e gli incubi in un angolo, con il fucile in spalla e una magra
colazione
sullo stomaco gonfio d’aria.
Non esisteva il tempo per il bambino
soldato.
I giorni si somigliavano
l’uno con l’altro e il bambino
soldato non sapeva nemmeno che giorno fosse il suo compleanno. Sapeva
solo di
essere nato. Si vedeva sempre uguale il bambino soldato: stessi
capelli, stessi
occhi stesso viso. Era cresciuto il bambino soldato, solo questo aveva
notato.
Non aveva mai
fatto caso allo sguardo triste che rivolgeva al mondo nel quale era
rinchiuso.
Il bambino soldato, tuttavia,
osservava gli altri bambini
soldato e si chiedeva se un tempo anche loro fossero stati solo bambini.
Si chiedeva se anche loro, come lui,
avessero avuto una
famiglia, e se anche loro piangessero di notte, quando non
c’erano gli adulti
dallo sguardo severo pronti a punirli.
Il bambino soldato non sapeva nemmeno
cosa fosse la speranza.
Era una parola, certo, ma del suo
significato non sapeva
nulla.
Anche se ricorda che suo padre gliene
aveva parlato, e dai
suoi ricordi di bambino, si rende
conto che forse la speranza non è poi una brutta cosa, a
giudicare dall’immenso
sorriso che suo padre gli aveva rivolto dopo avergliene parlato.
Il bambino soldato ogni tanto veniva
mandato a fare la
ronda, di notte, quando il mondo diventava nero e le sue peggiori paure
arrivavano a tormentarlo.
Era in quei momenti che il bambino
soldato desiderava essere
solo un bambino, ma questi pensieri preferiva tenerli al sicuro nella
sua
testa, piuttosto che dire agli adulti di avere paura, perché
come ricorda bene,
una volta un altro bambino soldato aveva provato a dire che aveva
paura, e gli
adulti con le medaglie l’avevano frustato così
forte che lui e gli altri
bambini soldato stentavano a riconoscere le grida dai colpi della
frusta.
Quel bambino soldato non era mai
ritornato all’accampamento.
Non sapeva scrivere il bambino
soldato, anche se avrebbe
desiderato tanto saperlo fare, anche solo per scrivere una lettera alla
mamma
per sapere se stava bene. Aveva pianto tanto la mamma al momento della
sua
partenza e non gli sembrava giusto non farle nemmeno un saluto.
Avrebbe voluto saper scrivere bene
come gli adulti dalle
medaglie dorate, che ogni giorno dovevano scrivere su quei bei fogli
bianchi
con la loro elegante grafia.
Ma non sembravano allegri gli adulti,
e molto spesso lui si
domandava perché, dato che scrivere gli sembra una cosa
assai bella.
Un giorno il bambino soldato venne
mandato a combattere
assieme agli adulti.
Della battaglia ricorda solo il
frastuono delle bombe che
cadevano a terra, e nuovamente si chiede come facciano gli adulti ad
odiarsi
così tanto.
Eppure anche i soldati nemici sono
essere umani.
Parlano, ridono e piangono.
Ma forse non l’hanno capito
perciò gli sparano. Credono che
siano diversi solo per il colore della divisa, quando invece, il
bambino
soldato, è convinto che anche loro abbiano un cuore.
Cadono a terra uno dopo
l’altro i soldati nemici.
Cadono sul terreno polveroso come le
foglie in autunno e non
si rialzano più, e il quel momento il bambino soldato sente
di essere un
cattivo bambino.
Perciò abbandona il fucile
e corre verso il nemico per
chiedergli scusa.
Ma per gli adulti non fa differenza
che lui abbia queste
buone intenzioni, e il bambino soldato e solo uno dei tanti nemici da
uccidere
per ottenere la pace.
Solo un secondo, o forse un
po’ più, e al bambino soldato
manca il respiro.
Inciampa, rotola e il viso si sporca
di terra, mentre gli
occhi si riempiono di lacrime, guardando di fronte a se la pistola
fumante che
ha appena colpito.
Sente dolore il bambino soldato.
Dolore dappertutto, ma gli occhi si
chiudono e non riesce
nemmeno a piangere.
Ogni respiro assomiglia ad una
coltellata e non sente più
nemmeno il tremendo rumore della battaglia, disteso malamente su un
campo
polveroso consapevole che quella sia veramente la fine.
Chiudi gli occhi bambino soldato.
Li chiudi sperando
di riaprirli in un mondo migliore, un mondo dove poter vivere come un bambino assieme alla tua famiglia.
Ma ormai sei qui, piccolo bambino
soldato.
Sei soltanto uno dei tanti corpi
sconosciuti citati ai
telegiornali.
Questa è la tua storia
bambino soldato.
Una fine senza lieto fine.
La triste storia del bambino soldato.
E ora dimmi bambino
soldato, quanti morti conti da lassù?
Quante vite strappate
al mondo ora ballano con te in un allegro girotondo?
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