DOVE
ERAVAMO RIMASTI?
Kasday, dopo essere divenuto una
delle divinità Alte, cade
in uno stato di follia e depressione da cui pare non possa e non voglia
uscire.
Momoia, madre degli Alti, lo considera una sua proprietà e,
di conseguenza, lo
maltratta e lo deride, soprattutto in seguito alla relazione fra Kasday
e la sua
unica figlia nata per amore, poi portata al suicidio. La madre, resosi
conto
che il numero degli Alti sta calando, vorrebbe combinare
l’unione fra Kasday e
Raido, Signore del Cielo, ma Kasday, turbato dall’abbandono
per paura di
Vereheveil e disperato per la separazione da tutto ciò che
amava, rifiuta di
unirsi a Raido, provocando l’ira sempre più viva
di Momoia. Nel frattempo gli
Alti incominciano una guerra con i Celesti, creature viventi in un
universo
parallelo ed a loro corrispondenti. Entrambe le fazioni, rendendosi
conto di
non potersi sconfiggere a vicenda, decidono di chiedere aiuto ai loro
sottoposti, Dèi ed esseri magici. Questi, però,
spaventati da un conflitto
catastrofico, date le forze degli opponenti, si mostrano titubanti e
poco
propensi a collaborare. Momoia perciò decide di unire ai
suoi eserciti
Luciherus, facendolo divenire Dio della Forza e del Coraggio. Lo
incontrerà in
una spiaggia su cui il Principe tentava invano di scacciare i pensieri
che lo
rendevano infelice. Si era, infatti, reso conto solo ora, con la sua
lontananza, di quanto fosse legato a Kasday. Con la promessa che,
divenuto un
Dio, lo avrebbe rincontrato di nuovo, e con la prospettiva di nuovo
potere,
Luciherus accetta di divenire un Dio con grande sconcerto delle altre
divinità,
specie Vereheveil, che lo ritengono troppo impulsivo ed irascibile. I
due,
Vereheveil Dio delle Letterature e Luciherus, si odiano profondamente e
si
scontreranno spesso nel corso della storia, incolpandosi a vicenda per
l’accaduto passato e per il destino di Kasday. La guerra con
i Celesti non si
svolge come Momoia aveva previsto. Si rende subito conto, infatti, che
entrambe
le parti stanno perdendo membri senza rinascere, come invece accadeva
solitamente. Confusa da questa nuova situazione, sfoga la sua rabbia su
Kasday,
che si rifiuta di combattere, e sulle divinità minori, che
costringe ad andare
ad una guerra da cui sa che non potrebbero far ritorno. La Dea della
Guerra,
consapevole del fatto che il patto fra il figlio Kasday e gli Alti non
è più
valido perché i nuovi Kaos e Destino sono cresciuti, esprime
il desiderio di
rivederlo e chiede aiuto a Luciherus, che è ora una
divinità potente.
Vereheveil sconsiglia alla Dea di farsi accompagnare da un individuo
simile
perché pericoloso ma poi, vista la determinazione della Dea,
decide di aiutarla
ed affrontano tutti e tre le guardie che sorvegliano il palazzo di
Kasday,
blindato e proibito. Riescono nel loro intento solo grazie
all’aiuto di spiriti
non più in vita: l’antico Kaos, sposo della
Guerra; Kadmon, padre di Luciherus,
e la bellissima madre di Vereheveil. Kasday non vuole incontrarli ma,
grazie
all’aiuto del suo angelo vigilante Nosmagiés,
hanno modo di vedersi.
Vereheveil, ancora spaventato dal nuovo aspetto inquietante di Kasday,
non
nasconde i suoi timori, ma Luciherus, sempre più attratto
dall’impossibilità di
averlo, gli fa capire che non potrebbe mai spaventarlo o odiarlo e
capisce di
amarlo, non solo nel suo aspetto femminile. All’inizio della
guerra globale in
cui tutti si incontrano, Dèi ed altre creature, ecco che si
scopre che in
realtà la causa della morte di Alti e Celesti è
proprio Kasday, che li uccide e
li assimila a sé. Luciherus, a conoscenza della cosa dopo il
loro momento di
passione, non interviene e rispetta il suo desiderio di morire, pur non
comprendendolo. Kasday uccide Momoia, unica creatura in grado di farlo
rinascere, ma viene attaccato dal figlio Kavahel, che teme che gli
universi
possano finire una volta morti tutti gli Alti ed i Celesti. Sotto un
albero al
tramonto, Kasday muore abbracciando Luciherus, che piange
perché non vuole
perderlo. L’albero fiorisce, mentre il corpo del creatore di
quel mondo si
dissolve. Kavahel diviene una divinità molto più
potente, mentre Luciherus si
ritira su un’isola, lasciando la guida del pianeta dei Demoni
a Mihael, nel
frattempo caduto. Il Principe dei demoni, in isolamento, si ritrova a
guardare
l’orizzonte oltre il mare, udendo in lontananza la voce dei
suoi nipotini e
comprendendo il desiderio di morte di Kasday. Sentendone la mancanza,
è
convinto di avvertirne la presenza ovunque e, quando la vede, in forma
femminile, fra le onde del mare, la segue. Solo in seguito si accorge
che
solamente la sua anima l’ha seguita, mentre il suo corpo
è rimasto in terra,
senza vita, ignorando le visioni avute in precedenza in cui lui e
Kasday
dovranno avere un figlio che porterà alla fine del Mondo.
Ricordate?
I
IL FIGLIO DEI MORTI
Kevihang aprì gli occhi,
aranciati e luminosi, con le
pupille sottili come fogli di carta, e guardò fuori. Era
buio, ma fuori era
sempre buio. Si rigirò nell’alto letto in cui
stava sprofondando, a causa
dell’eccessivo numero di coperte e cuscini, e
sbadigliò, agitando lievemente le
piccole orecchie a punta. Una risata fanciullesca gli
comunicò che i suoi
compagni di stanza erano già svegli.
Sbirciò distrattamente
l’orologio e sospirò. Era prestissimo
ma, del resto, gli altri due bambini con cui divideva la stanza avevano
ottime
ragioni per essere felici, svegli e pimpanti. Era un giorno
importantissimo:
giorno d’adozioni. L’orfanotrofio, in cui Kevihang
viveva fin dalla nascita,
apriva le sue porte al pubblico una volta al mese per dare la
possibilità ai
suoi piccoli ospiti di trovare una casa ed una famiglia. Ma per quel
bambino
dagli occhi aranciati quello era un giorno come tanti. Erano ormai
diversi mesi
che aveva abbandonato la speranza di lasciare quel luogo in compagnia
di un papà
e di una mamma. Per anni era stato trascinato fuori dalla sua cameretta
dall’istitutrice per essere messo in fila, mano nella mano
con altri bambini,
ad essere ispezionato dalle coppie che desideravano avere un figlio.
Mano nella
mano, in quel rito così simile alla scelta
dell’animale da uccidere per la
festa di famiglia, con tutti quei commenti su quanto un bambino fosse
alto o
basso, magro o grasso, da fare disgusto all’abbandonato
Kevihang. Animali
pronti al macello, l’uno accanto all’altro, di
fronte all’occhio critico di
coppie esaminatrici.
Kevihang non aveva mai ricevuto un
solo sguardo d’approvazione
da parte di qualcuno, salvo dai due adulti che gestivano la struttura
che lo
ospitava. Lui era strano. Lui era diverso.
Sospirò di nuovo,
raccogliendo i capelli blu scuro in una
coda. Non erano lunghissimi, gli arrivavano fino alle spalle, ma
tendevano a
gonfiarsi ed a coprirgli gli occhi. Coloro che gli facevano da
insegnanti e
tutori, insistevano perché tenesse almeno un ciuffo sul viso
per coprire quel
disegno. Era quel disegno la causa principale della sua mancata
adozione. Il
lato sinistro del suo volto era coperto dall’immagine di un
teschio, di un
mezzo teschio, la cui orbita corrispondeva quasi perfettamente con la
cavità
oculare del bambino. Il tutto era fissato, ricamato, con un sottile
filo
spinato o gambo di rosa che si arricciava sul suo mento e sulla fronte.
Quella
specie di tatuaggio, che sapeva di avere fin da quando aveva memoria,
lo
rendeva inquietante. Nessun genitore lo voleva e nessuna coppia lo
avrebbe mai
voluto. Lui era il “figlio dei morti”, colui che
portava sul viso l’eterno
respiro della fine della vita. Ma non era solo quel teschio a renderlo
diverso.
I suoi capelli, ad esempio, non erano di un colore unico, o con lievi
riflessi,
ma venivano bruscamente disturbati da due enormi ciuffi rossi, simili
ad
antenne, che non ne volevano sapere di stare in ordine. Stavano sempre
in
piedi, dritti, oppure ripiegati in avanti creando un semicerchio
piuttosto
ampio e, a detta di Kevihang, fastidioso. Quella massa blu scuro che
portava in
testa, spesso celava le sue due piccole corna scure, quasi nere ma con
lievi
riflessi magenta, che apparentemente lo facevano rientrare nella
cerchia delle
creature demoniache. Ma quelle due corna erano l’unica cosa
“demoniaca” che il
piccolo possedeva. Non aveva ali, cosa che suscitava parecchia ironia
ed
ilarità fra i suoi “colleghi”
d’orfanotrofio. Di certo, però, non erano tanto le
sue ali mancate a far nascere le più crudeli derisioni
quanto la sua coda. A
Kevihang, dopotutto, piaceva, ma quella coda era morbida, affusolata,
lunga e
ricoperta da un soffice pelo rossiccio. Era la coda di un gatto, o di
una
scimmia, ma non quella di un demone!
Lui era “Kevihang: il
figlio dei morti”, “Kevihang: il coda
morbida” e “Kevihang: il
senz’ali”. Il bambino si vedeva semplicemente come
“Kevihang: il senza famiglia”.
La cosa lo rattristava e lo irritava,
ogni giorno di più.
Era convinto che perfino sua madre si fosse spaventata al momento della
sua
nascita, e che per questo fosse stato abbandonato. Frustrato, solo ed
abbattuto, faceva sempre più fatica a nascondere la sua
rabbia ed il suo
rancore, ma anche quella mattina scese dal letto con un mezzo sorriso,
cercando
di essere gioviale con i suoi compagni di stanza, che avrebbe potuto
non
rivedere più. Se, la fuori, fossero stati scelti da
qualcuno, non sarebbero più
tornati. Nessuno mai tornava in quel luogo, una volta che aveva la
possibilità
di lasciarlo. Non perché si stesse male, ma
perché era carico di solitudine e
ricordi che si cercava di cancellare per sempre.
E così Kevihang, bambino
infelice, sperava un giorno di
trovare comunque la sua via e di poter sostituire tutte quelle ore di
mancati
abbracci con tanti sorrisi ed amore. Se non l’amore di
qualcun altro, almeno
l’amore per se stesso. Lui si odiava. Odiava il suo viso,
quel disegno
raccapricciante, quella coda, quei piedi a punta ed esageratamente
grandi,
quelle due antenne rosse fatte di capelli ribelli e quelle due ali
mancate.
Odiava tutto di se stesso. E non capiva a che razza potesse
appartenere.
L’orfanotrofio si trovava
in uno dei pianeti ribattezzati
“neutri”, cioè quelli in cui risiedevano
Angeli, Demoni e Dèi, assieme ad altre
creature, senza particolari gerarchie o problemi. Ormai quasi tutti i
pianeti,
nei vari Universi e Multiversi, erano neutri o misti, tranne qualche
eccezione.
Questo perché, a seguito della grande guerra fra Alti e
Celesti, non c’erano
stati altri conflitti e non era più necessario che ogni
creatura avesse il suo
spazio e la sua posizione gerarchica. Kevihang non sapeva in che
categoria
inserirsi, a differenza di tutti gli altri bambini che conosceva e che
collocava benissimo chiunque in una di queste. Lui cos’era?
Non era un angelo,
aveva le corna! Non era un demone, aveva la coda morbida! E di sicuro
non era
un Dio. Sanguemisto? E fra che specie? Non lo capiva. Ma una cosa la
sapeva:
lui possedeva la magia. E non una magia debole ed a malapena
percepibile bensì
una forza che a volte faticava a controllare e che escludeva la sua
appartenenza alle creature senza forza magica che popolavano molti
pianeti.
Lui non era niente ed allo stesso
tempo era tutto.
La cosa lo faceva a volte sorridere
ed a volte piangere,
altra caratteristica che lo separava dai demoni, ma era più
che consapevole di
essere tremendamente testardo e che nulla gli avrebbe impedito di
raggiungere
il suo scopo: scoprire chi fossero i suoi veri genitori. Non sapeva
nulla di
loro, non era sicuro che fossero ancora in vita e da dove venissero, se
lo
avevano abbandonato di proposito oppure per scelta, se lo amavano anche
solo un
poco o se erano fuggiti da lui. Non sapeva nulla. Ciò che
sapeva era che era
stato trovato sotto l’albero delle lacrime, uno dei pochi che
ancora mostrava i
suoi fiori al cielo, avvolto proprio da uno di quegli enormi fiori
rosso sangue
a riflessi azzurri. Non aveva indizi su cui lavorare, ma aveva un
piano. In
quell’orfanotrofio si studiava ed in una delle lezioni si era
parlato della
biblioteca del Principe Mihael, in cui erano riposti, si diceva, tutti
i libri
dei Mondi. Era la biblioteca del Dio delle Letterature e delle Lingue,
Vereheveil, e si diceva che in quel luogo si potessero trovare tutte le
risposte. Kevihang, piuttosto ottimista oltre che testardo, aveva
congeniato un
complesso piano di “fuga” che poteva permettergli
di raggiungere il palazzo del
Principe e trovare la sua risposta.
In ogni caso, anche se tutto
ciò che aveva in mente si fosse
rivelato un fallimento totale, era più che intenzionato a
non tornare
all’orfanotrofio. I maestri erano gentili ed il posto era
carino, ma era stanco
di essere preso in giro e voleva guardare oltre, oltre quel piccolo
cancelletto, che dava su quello che una volta era un rigoglioso
giardino a
detta degli adulti, oltre quella sconfinata distesa di ghiaccio e neve
che
riusciva a scorgere dalla finestra e che era l’unica cosa che
aveva visto da
anni, oltre la sua condizione d’orfano e di figlio di
nessuno.
Convinto come non mai, si
coprì per bene con un pesante
mantello, approfittando del fatto che i suoi compagni di stanza ed i
tutori
erano tutti impegnati con le coppie in visita alla struttura, ed
uscì dalla
finestra, con in spalla un piccolo zaino. Un profondo respiro, caldo e
sicuro,
e poi si lanciò in quel mondo freddo, inospitale e
sconosciuto. Sfidando il
buio ed il pericolo, si allontanò a passi svelti mentre la
neve già ricopriva
le sue orme. Si avviò verso la piazza del paese, sicuro di
sapere dove trovare
un passaggio per il Mondo dei Demoni, il mondo del Principe, dove stava
la biblioteca
che conteneva le sue tanto desiderate risposte. Alzando il cappuccio,
per
nascondere il teschio sul suo volto, si fece guidare
dall’istinto e, senza
paura, chiese ad un grosso demone se sapeva come poter raggiungere il
regno del
suo popolo. Il demone gli sorrise e, porgendogli la mano, gli
offrì un
passaggio. Kevihang, di risposta, sfoggiò un sottile ghigno,
mostrando un
piccolo dentino a punta, e allungò la manina verso quella
dello sconosciuto,
pronto a partire.
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