III
Echoes
“Estranei attraversano la strada,
per caso due diversi sguardi si incontrano
Ed io sono te e ciò che vedo sono
io
Ed io ti prenderò per mano”
Il mio cervello si è inceppato, le immagini precipitano davanti agli occhi, sono
fotogrammi sfocati e non appartengono alla realtà contingente. Fisicamente so di
essere seduta in auto, so che lo sconosciuto mi sta portando chissà dove, ma io
non sono qui, sono nel ricordo fotografato delle mie ginocchia che si incastrano
nella terra gialla, nella sensazione del grilletto che fa resistenza, nei suoi
occhi, sono nei suoi occhi i suoi occhi i suoi occhi. Devo respirare. Devo
respirare. Il segreto dell’incamerare ossigeno mi sfugge, ora è troppo, mi gira
la testa. Respiro forte, non riesco più a fermarmi. Il petto mi fa male e ora ho
la certezza di stare per morire.
Sento una voce urlarmi contro un ordine ma è come se avessi la testa immersa
nell’acqua e recepisco nient’altro che suoni vibranti. La mia morte sembra
durare un’eternità ed è fatta tutta di vertigini, eppure non c’è verso che
lui sparisca, è davanti a me, mi guarda prima del peggio e sorride. So che
sto per urlare il suo nome, serro le palpebre e la bocca, mi sento cadere
indietro. Qualcosa mi colpisce forte al volto. Non so cosa sia ma è come
riemergere dall’acqua. Di nuovo un colpo forte, sullo zigomo. Il suo nome
scivola via dalla mia lingua, improvvisamente riesco a scioglierlo e
allontanarlo. Ancora una sferzata contro la guancia destra, ora fa davvero male.
Riapro gli occhi, mi rendo conto di riprendere solo ora a respirare e realizzo
che lo sconosciuto mi sta prendendo a schiaffi così forte che non mi sento più
la pelle addosso.
“Rieccoti” sbuffa, con una mano a mezz’aria.
Non ho la forza di ribattere, la faccia pulsa, mi sembra di essermi schiantata
contro un muro e non ho ancora capito che cosa sia successo. Mi rendo conto di
guardare tutto dalla prospettiva sbagliata, orizzontale. Invece che essere
seduta, sono distesa sul sedile dell’auto di papà, reclinato fino al margine
possibile, e il tizio mi guarda dall’alto, inginocchiato tra il suo sedile e il
mio, piegato in avanti per non sbattere la testa contro il tetto.
“Ci sei? Rispondimi” dice.
Annuisco e tento di sollevarmi. Lui mi pianta una mano sulla spalla, di nuovo, e
mi spinge giù senza fatica.
“Stai lì per cinque minuti, hai ancora le gambe in pappa” ordina.
Non so cosa intende, mi limito ad afflosciarmi come un sacco vuoto mentre lui
torna seduto e reclina il suo sedile fino a renderlo quasi parallelo al mio. Lo
guardo allungare le gambe sul cruscotto, di lato per evitare il volante, ed
estrarre qualcosa dalla tasca. Ha aperto le portiere da entrambi i lati ma non
riesco a capire dove ci troviamo, non conosco abbastanza bene Phoenix, vedo solo
i profili di qualche montagna, in fondo, oltre il suo braccio. Mi sento
improvvisamente tesa come una corda e tutto quello che vorrei è crollare nel
sonno. Le gambe tremano ancora. Ora capisco cosa intendeva dire con ‘pappa’.
“Hai avuto una bella crisi” dice, armeggiando con una bustina trasparente “ti è
già capitato altre volte?”.
Ripesco il ricordo del giorno in cui il caporale mi ha detto che mi avrebbero
rispedito al mittente con un calcio in culo. Avevo tentato di soffocare un
collega e poi c’era stato un episodio simile, solo che nessuno aveva pensato di
prendermi a schiaffi, perché ero armata.
“Dov’è la mia pistola?”.
Avrei voluto essere più minacciosa di così ma sembra che mi si siano strette le
corde vocali.
“Al sicuro” risponde lui, voltandosi.
Mi sorride, sembra che mi stia prendendo in giro e allo stesso tempo che sia
molto triste. Non riesco a decifrare il suo sguardo, è contraddittorio o forse
sono io a essere del tutto bruciata. In ogni caso, non mi piace. E la testa,
oddio, sembra che debba scoppiarmi da un momento all’altro.
“Com’è che ti chiami?” chiede lui.
Decifro vagamente la domanda ma la risposta mi sfugge, continuo a guardarlo
mentre passa la punta della lingua contro una cartina. Sigilla la sigaretta e mi
deride con gli occhi.
“Allora?” incalza, mentre un accendino gli compare tra le mani come per magia.
“Abigail” rispondo.
“Abigail” ripete lui, la fiamma che gli accende un riflesso rosso sul profilo.
Con tranquillità infila la sigaretta accesa tra le labbra. Riconosco l’aroma che
si diffonde solo dopo qualche secondo di quiete. L’odore dell’erba mi fa cadere
in un altro ricordo, un pomeriggio lontanissimo, le iridi slavate di Jenkins, il
ragazzo dei miei quattordici anni, che mi fissano mentre chiudo la bocca intorno
al mio primo spinello.
“Tieni” dice il tizio, porgendomi la sua sigaretta ritoccata.
Non ne ho voglia per niente. In effetti non riesco a trovare nulla, nella mia
testa, di cui abbia davvero desiderio in questo momento. Forse solo avere la
forza di scappare.
“Muoviti” insiste, premendo il filtro contro le mie labbra “Devi rilassarti un
po’, fidati”.
Obbedisco, faccio un tiro debole che non lo accontenta, poi un altro più
energico.
“Io credo che Dio ce l'abbia con me, Abigail” mi dice, mentre mi aiuta a fumare
“Ti sembra possibile?”.
Non aspetta la mia risposta, preme di nuovo lo spinello e io tiro, in questo
strano e delirante rituale. Lui se ne sta appoggiato su un gomito e non mi sta
guardando davvero, sembra perso in qualche pensiero terribile. Non sono sicura
di quello che dovrei fare e seguire l’ordine delle sue mani mi sembra l’unica
cosa sensata, al momento. Se papà sapesse che sto fumando nella sua macchina mi
ammazzerebbe – l’idea fuori luogo mi attraversa le sinapsi –.
“Fa di tutto per rovinare i miei piani” dice lui, scuotendo la testa.
Questa volta sono io a tirare a lungo, senza staccarmi. Lui mi spinge indietro
con una mano, facendomi tornare distesa sul sedile.
“Ehi, calma…”.
Se ci riuscissi, sul serio, potrei tirargli un pugno dritto in mezzo agli occhi.
Se solo fossi ancora l’Abigail di qualche anno fa e se avessi la forza di
ridergli in faccia…
“Sei troppo giovane” lo sento mormorare, sullo sfondo dei miei sensi appannati.
“Che puttanata” sfiato.
Lui sghignazza – dove sei, Abigail? Ti prego fallo smettere – poi accende
la radio. Justin Timberlake invade l’abitacolo con un acuto, seguito da bassi
incalzanti. Sento un palloncino gonfiarsi tra lo stomaco e il cuore, sollevarmi
con una presa leggera. La canzone recita l’unica verità plausibile dell’intero
testo: ‘tutto quel che fai, quel che fai, quel che fai, ti tornerà indietro’.
Fino all’ultimo centesimo, Mr Timberlake. Forse sto morendo ancora, o forse mi
sto solo addormentando.
Quando riapro gli occhi è buio. Non del tutto, certo, è un’oscurità lontana anni
luce dal nulla totale che c’era laggiù. Una notte artificiale in mezzo a una
città civilizzata. Ricostruisco il passato recente, guardo fuori dal parabrezza
e non trovo neppure una stella, solo riverberi aranciati e bianchi delle
illuminazioni urbane. Ho nostalgia. La sento, è come se qualcuno mi si fosse
seduto sul cuore. Sono sola in macchina, lui non c’è più e forse la sua assenza
è peggio della sua presenza. Lo so perché. È perché ho paura. Sono indifesa,
vulnerabile all’attacco. Il nemico sta arrivando, lo sento incedere nei meandri
della mia testa, avvicinarsi scalpitando. Fa tremare di nuovo tutto e cigola
come un carro armato. Mi tiro su a sedere mentre la gola mi si restringe e
l’aria riprende a mancare. L’angoscia mi fa rimpicciolire tutto attorno, così
spalanco la portiera, esco. L’aria della sera è fredda, rabbrividisco, inizio a
camminare. E se il nemico è dentro di te, Abigail? Se ti ha già sconfitto?
Non so dove sono. Sotto ai miei piedi una distesa di sassi, a due metri da me
qualcuno che saltella alla luce di un fuoco che non c’è. Faccio un passo avanti
e il terrore mi paralizza. Finalmente riconosco il bambino che gioca con un
aeroplano, perché il falò gli illumina la faccia allegra. Oh, Ahmed sorride
ancora come il giorno prima del disastro. Mi sorprendo a pensare che è giusto
che sia così, perché lui non è ancora morto. È vivo. È il responsabile del mio
pensiero debole di questa sera, mentre indosso ancora la divisa e ho una pistola
carica infilata nella cintura, in un posto dimenticato da dio. Vorrei un bambino
mio, penso. Ahmed mostra orgoglioso il regalo agli altri, sopra di noi il cielo
è una distesa immensa di stelle, il mondo è meraviglioso nonostante l’orrore che
contiene. Ahmed è vivo. Io gli voglio bene. Non come a qualcuno che ti
appartiene. So che ha una mamma, una povera donna sfasciata che comunica con noi
solo con gli occhi. Gli voglio bene come a qualcosa di bello che trovi nel mondo
e che ti sorprende. Ad anni luce da casa, insieme al sangue, io ho trovato un
bambino, qualcosa di bello che non mi appartiene.
Gli vado incontro. So che sto piangendo ma voglio solo abbracciarlo un’ultima
volta e invocare il suo perdono. Ti prego, perdonami, Ahmed. Non volevo
farlo. Ho avuto troppa paura di morire. Ho eseguito un ordine. Ti prego,
Ahmed, so che non è giusto. Ti prego dimmi che puoi portarmi con te e graziarmi
da questa vita. Lui continua a ridere e rido anche io, in mezzo alle
lacrime, come ho fatto quella notte. Chissà come fai a ridere, tu, dove trovi
il coraggio. Mi inginocchio davanti a lui, al suo sguardo vivace e scuro,
così vitale da fare male. Ti prego, abbracciami. Quella sera l’aveva
fatto per ringraziarmi del suo regalo e io avevo scoperto che in tutto
l’universo i bambini hanno lo stesso profumo. Quando allungo la mano, le lacrime
mi appannano la vista. Incontro un corpo caldo, già so che non è il suo braccio
ma ormai è tardi. Il nemico ha sferrato il suo primo colpo, mirato con
precisione. Mi aggrappo alla maglietta del soldato, il mondo ritorna al suo
posto.
Chiamo il suo nome. Così forte che forse, ovunque si trovi, potrà sentirlo. Il
dolore mi piega a metà, mi affonda nella polvere. Annego. Vomito. Non sono più
un essere umano da un pezzo e non riesco a provare pietà per me stessa. Mi vedo
come dall’alto: un verme che rantola nella terra. La notte diventa sempre più
densa, così densa che forse sono solo i miei occhi chiusi. Crollo.
Al secondo risveglio, è l’alba. Lo capisco dal colore ferroso dell’orizzonte,
macchiato al suo margine da una lama rosata.
Sono di nuovo distesa sul sedile dell’auto di papà, trovo ad accogliermi un mal
di testa e gli occhi del soldato, fissi su di me e pacifici come un mare in
bonaccia.
“Buongiorno”.
Non rispondo. Vorrei cancellare la memoria, eppure è ancora tutto qui.
“Forse, adesso, con calma, dovrai raccontarmi” dice lui.
Mi giro sul fianco che mi garantisce il riparo dal suo sguardo. Davanti a me ho
l’intelaiatura di plastica, ma al mio sguardo si sovrappone la vista della
mente, nitida su quello che ricordo di questa notte. Io che afferro il soldato e
gli piango addosso tutta la mia nauseante miseria. Qualche tempo fa mi sarei
presa a calci da sola per una stronzata simile.
“Se lo fai, io ti aiuto” insiste lui.
“Non mi serve a niente il tuo aiuto” dico.
Ho le corde vocali che bruciano e la voce ridotta a un roco gracchiare.
“Sì che ti serve, se non vuoi morire”.
“Ma io voglio morire”.
“Sei patetica”.
“Vaffanculo”.
Lui ride di nuovo.
“Ascoltami, lo so cosa stai facendo” ribatte “L’ho già visto molte altre volte.
Stai resistendo con le unghie e con i denti ma non sarà sufficiente. Se qualcuno
non ti aiuta, crollerai. Non sei da sola al mondo e trascinerai con te tutti
quelli che ti vogliono bene, li seppellirai. O magari farai loro del male. Lo
stai già facendo”.
Stringo i denti fino a sentir male alle tempie.
“Ho visto il peggio. Raccontami cos’è successo e sappi che ho vissuto anche io
quello che hai vissuto tu. La merda ci accomuna” aggiunge.
La merda ci accomuna.
Pura poesia.
“Non è possibile” replico.
“Fidati” dice “Ho ammazzato un po’ di tutto: uomini, donne. Bambini”.
Il gelo mi cala addosso come una secchiata. Lo sa.
“Chi è Ahmed?”.
Il suo nome deflagra nell’abitacolo come una bomba.
“È uno che hai ucciso? Sai che l’abbiamo dovuto fare, vero? Sai che è per questo
che siamo stati mandati lì?”.
“No” mormoro.
“No cosa?”.
Le parole mi si affollano nella mente, si accavallano, so che dovrò sputarle
fuori per non impazzire, anche se non voglio farlo.
“Io non ero lì per questo” rispondo “Ero lì per proteggere donne e bambini”.
“Stronzate. È quello che ti racconti? Sai che eri lì per proteggere i tuoi
compagni dalle donne e dai bambini”.
“Non aveva fatto niente di male!” esclamo rabbiosa.
Cala il silenzio. Poi la sua mano mi afferra per una spalla e mi invita a
voltarmi. Obbedisco solo perché ho bisogno di qualcosa di vivo da inquadrare
nello sguardo, o tornerò a vedere quello che non c’è. Lui ha l’aria disfatta e
le occhiaie. Forse questa mattina abbiamo entrambi la stessa faccia.
“Chi, Ahmed?” dice, con voce più gentile.
Abbasso lo sguardo.
“È stato un incidente” la mia voce rimbomba in un’oasi di silenzio “Credevamo
che gli avessero messo addosso una cintura esplosiva. Non si vedeva bene,
piangeva e camminava verso di noi. Faceva molto caldo. Tre giorni prima avevano
fatto lo stesso in un’altra base: un bambino imbottito di esplosivo saltato in
aria in mezzo al campo, tre di noi morti sul colpo, due senza più le braccia.
Avevamo paura. Avevamo sempre paura, laggiù, ma in quel momento avevamo iniziato
ad averne anche dei bambini. Lui aveva un cavo che gli usciva dalla schiena e si
avvicinava. Non potevamo correre il rischio. L’ho ucciso io. Il cavo era un
pezzo di filo elettrico che gli era rimasto impigliato addosso mentre giocava”.
Mi sorprendo. La storia è già finita. Ritrattata senza le urla, senza la
tensione, senza la pressione del tilt, del panico all’idea di finire in mille
pezzi. Senza gli occhi di Ahmed pieni di lacrime, che mi fissavano, senza i suoi
piccoli pensieri rivolti all’aeroplano che gli altri bambini avevano rotto.
Senza la fotografia che conservavo ancora, il mostro seduto sorridente in mezzo
ai bambini, con una pistola. E senza la stessa pistola carica che gli avevo
puntato contro, senza il buco perfetto che gli avevo aperto nel cuore.
Soprattutto senza le mie mani che frugano il suo corpo caldo e senza il sangue
viscido tra le dita, senza le cariche esplosive che non sono mai esistite.
Incontro di nuovo gli occhi del soldato e lo sfido a dirmi che ho fatto la cosa
giusta. Con mia sorpresa, lui non dice nulla. Mi guarda di rimando. Ora so che
capisce davvero, so che condivide il mio disgusto e che forse un po’ di quel
sangue innocente è stato anche sulle sue mani, di certo.
La merda ci accomuna.
Oh, sì.
Una vita per una vita, per una vita, per una vita…
*
Note al volo: Echoes, altra canzone dei Pink Floyd.
Nessuna revisione, o così o non si pubblica fino al prossimo secolo. So che
magari non interessa a nessuno, ma pazienza. Sto pensando alla tesi/voglio
morire/chi lo desidera è il benvenuto. Saluti deliranti.
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