Erano mesi che
lavoravo su questa ff, tentando di modificarla, da quando
l’ho scritta 3 anni fa non ne sono mai stata troppo contenta.
Troppo scarna, a tratti sterile...insomma, non ne ero proprio
soddisfatta! Modifica qui, modifica lì, alla fine
l’ho quasi praticamente
riscritta^^””” Devo ringraziare
le ff di Melanto, Maki-chan e Eos che mi hanno riavvicinato a Capitan
Tsubasa di questi tempi e mi hanno spinta a riprendere in mano questa
ff. Poi CT comunque è stempre il mio primo amore yaoi
*_* ci sono affezionata^^ . Ringrazio anche Erika la
webmistress, che mi ha permesso di ripubblicare la storia ...grazie di
cuore!!
E grazie a
ichigo per averla letta in anteprima!!Grazie oneechan!!
Questa
è quindi una versione più matura,
l’idea originale che avevo della ff...spero che questa
soluzione vi piaccia, a poco a poco riproporrò anche gli
altri capitoli riveduti e riscritti!
A voi...buona
lettura^_____^
Releuse
Il cuore e il pallone
Di
Releuse
Era l’imbrunire.
L’orizzonte si tingeva dei colori del fuoco. Il sole, ormai
con i contorni definiti e ben visibili, stava per tuffarsi
nel mare e sparire lentamente, lasciando spazio alle dense nubi della
notte. Avevo gli occhi stanchi e leggermente arrossati. Certo,
osservare il sole che tramonta non è una cosa ottima per la
vista, ma ero incantato da quella visione, talmente rapito che non
percepivo altro. Mi rendevo conto che quelle immagini di nuvole
incandescenti rispecchiavano alla perfezione il mio stato
d’animo, l’inquietudine, l’ essere
divorato da quei dubbi che da tempo perseguitavano la mia mente.
Dalla fine dell’ultimo campionato.
Quei
tiri...perchè non li ho parati? Tre
tiri...dannazione!
Ero ancora sconvolto dall’accaduto e non riuscivo a
farmene una ragione. Mi sembrava di essere ancora lì, sul
campo, sotto lo sguardo attonito e sgomento dei miei compagni di
squadra e del capitano. Inerme, immobile al centro della porta, mi
sentivo come se fossi stato legato a solide e ben ancorate catene che
mi impedivano qualsiasi movimento; come se la forza di
gravità si concentrasse tutta sulle caviglie, schiacciando
il corpo verso il terreno. Incatenato nelle braccia e nelle gambe,
avevo l’impressione di essere uno schiavo privo di qualsiasi
facoltà di decisione, ormai rassegnato alla sconfitta e
annichilito nell’animo, dominato da un potere troppo sacro
per essere abbattuto.
Atterrito dai suoi occhi
decisi.
Quell'anno la finale del campionato la disputammo contro la
Musashi, la squadra del campione di vetro Jun Misugi. Nel ripensare a
quell’ultima partita sentivo il sangue turbinare nelle mie
vene con rabbia per la mia incapacità. Per essere stato
dilaniato da quello sguardo placido eppure bramoso di vittoria.
Lo sguardo di Jun Misugi, lo sguardo del principe che mi aveva
inchiodato a terra, sancendo la sua vittoria, come se disponesse della
mia vita e della mia morte, perchè sicuro di se stesso.
Quegli occhi non tradivano, non mostravano alcuna situazione.
Io, invece, avevo
esitato, lasciandomi così travolgere dalla sua potenza che
era riuscita ad abbattere la mia resistenza. Alla fine sono capitolato
sotto la sua determinazione.
Rabbia.
Risentimento.
Vergogna di me stesso. Questo era ciò che provavo.
Non ero riuscito a parare due dei suoi tiri e aveva giocato solo gli
ultimi venti minuti a causa della malattia cardiaca, ma li seppe
dominare tutti, senza lasciarsi sfuggire neppure un singolo secondo.
Misugi era capace di fondere insieme la perfezione e la potenza,
facendole coesistere così armoniosamente. Accecato dal
nervoso e dal senso di frustrazione, non fui in grado di parare neanche
il tiro di un altro semplice giocatore e così subii un
ulteriore goal. Ken Wakashimazu con alle spalle tre goal...ero al
limite e non riconoscevo più me stesso in campo. Leggevo lo
stupore dei miei compagni, il loro sconcerto. Se non fosse stato per la
rabbia e la determinazione di Kojiro, che riuscì a ribaltare
il risultato, a quest'ora avremmo perso il campionato.
Possibile che fossi
davvero al limite?
Alla fine della partita, al fischio dell’arbitro, mi
mancò il fiato, perchè lui mi stava ancora
guardando. Il Principe mi osservava. Era affaticato dal gioco che aveva
messo a dura prova il suo cuore malato, ma lui sembrava non darci alcun
peso.
Perchè si
ostina a giocare a calcio se rischia di morire?
E nonostante si allontanasse, svanendo oltre il campo, verso gli
spogliatoi, io avevo ancora l’impressione che mi guardasse,
sfidasse con i suoi occhi decisi. Occhi colmi di qualcosa che io
riconoscevo di non avere, occhi che mi fecero sentire completamente
vuoto.
Quando, durante la partita, si stava preparando a tirare quel maledetto
pallone, ho avuto come l’impressione che il suo sguardo fosse
lo stesso di Hyuga... la stessa bramosia di vincere? No, non era quella
la scintilla che illuminava il suo sguardo.
Era... qualcos’altro.
Mi stai sfidando, Jun
Misugi?
Dalla fine di quella partita non dissi più una parola. E mi
estraniai da tutto il resto. Non udivo né i rimproveri di
Kojiro, né sentivo la sua stretta sul mio braccio che mi
costringeva a guardarlo negli occhi. Lo avevo retto il suo sguardo,
senza parlare. Non sentivo neanche Takeshi, le sue parole di conforto
sempre gentili, che però in quel momento mi scivolavano
addosso come l’acqua su una lastra di vetro. E da quel giorno
non mi presentai più agli allenamenti. Era da un mese
ormai... nulla più mi stimolava né mi faceva
avere alcuna reazione.
Solo un dubbio riusciva a scuotermi: cosa aveva il suo sguardo da farmi
sentire così carente e debole? Continuavo a domandarmelo da
quel giorno, in maniera ossessiva, senza trovare una risposta che
soddisfacesse il mio orgoglio, il mio ruolo di portiere e
così lasciavo che i pensieri mi assorbissero in un turbine
sconquassante.
Tornai alla realtà non appena udii i cigolii dei freni del
pulmino sul quale stavo viaggiando.
Mi guardai intorno pronto ad osservare quel posto a me sconosciuto ma
dalla rinomata fama: si trattava di una piccola pensione a conduzione
familiare, famosa per la tranquillità in cui è
immersa e per la sorgente termale che la completa. Avevo trovato
biglietti e prenotazioni sul tavolo della cucina, di fianco alla
colazione... “Sono da parte di tuo padre... vuole che ti
rilassi per qualche giorno” Queste erano state le parole di
mia madre, mentre mi rivolgeva un sorriso.
“Forse avrei dovuto ascoltarti...” Dissi a mio
padre una sera, mentre l’aiutavo a pulire la palestra di
casa. Sapevo che lui aveva seguito l’ultima partita, ma non
mi aveva ancora detto nulla a riguardo. Non so, era come se quel
silenzio simboleggiasse la sua vittoria su di me. “Avrei
dovuto continuare con le arti marziali, invece del calcio...”
Continuai, non sicuro delle mie parole, eppure desideroso di trovare
conferma anche dalle sue. Credevo fossero quelli i suoi reali pensieri.
Invece, mio padre tacque ancora per qualche minuto.
“La tua scelta l’hai già fatta,
Ken...” Disse infine, guardandomi deciso negli occhi, per poi
voltarsi e continuare il suo lavoro senza esitazione.
****
Intorno alla pensione c’era un immenso bosco verde, alberi
maestosi che davano l’impressione di essere molto antichi,
probabilmente millenari. Ero un po’ perplesso, decisamente
non era il mio tipo d’ambiente ideale nella vita di tutti i
giorni. Però, forse, era realmente quello che mi ci voleva.
Dovevo riflettere sul perchè.
Perchè non
volevo più giocare a calcio?
Un istante dopo notai la costruzione alla mia destra: era una pensione
in legno, in perfetto stile giapponese, con grandi finestre e una
vegetazione estremamente curata intorno. Dal primo sguardo mi trasmise
una sensazione di calore, forse dovuta alla luce rossastra e arancione
che l’abbracciava, riflettendosi sul legno lucido. Era il
sole che ormai svaniva all’orizzonte.
Improvvisamente mi sentii più leggero e forse per un attimo
un poco più sereno.
Quando il pulmino si fermò, tirai un sospiro di sollievo.
Ero abbastanza nauseato dal viaggio: tutte quelle curve per salire mi
avevano dato il voltastomaco e la mia testa aveva cominciato a pulsare.
Ringraziai l’autista e, preso il mio zaino, mi diressi
all’entrata ancora un po’ stordito.
Non appena varcai la soglia, mi venne incontro un signore anziano,
minuto e in abiti tradizionali.
“Il signor Ken Wakashimazu?” Mi domandò
con sincera gentilezza, rivolgendomi un sorriso accogliente e disteso.
“Si, sono io” Risposi un poco imbarazzato, non ero
abituato a quel genere di cose. Di solito le vacanze le passavo al mare
o in montagna, in mezzo al caos turistico, per cui la
tranquillità di quel luogo mi metteva un poco a disagio.
“Sono il signor Matsumoto, la stavo aspettando. Prego, le
mostro la sua stanza, così potrà rilassarsi e
cominciare a familiarizzare con la nostra struttura." Sorrise ancora
l’uomo, forse comprendendo il mio stato d’animo.
Mentre salivo le scale continuavo a guardarmi intorno. C’era
un profumo di cera d’api, di quella usata per lucidare il
legno, che ad un certo punto mi sembrò eccessivamente
pungente, mentre il corridoio era ornato da piccoli bonsai ben
curati. Ogni cosa era posta in perfetto ordine, come se fosse
stata lì da decenni, senza mai mutare. I brusii leggeri,
provenienti da un paio di donne in kimono che scendevano le scale,
venivano inglobati nel silenzio che sembrava essersi fissato
nell’aria
Poco dopo arrivammo davanti alla porta della camera.
“Questa è la sua stanza, prego si rilassi pure. La
cena sarà servita dalle 20 fino alle 22” Mi
informò il signor Matsumoto, sempre con grande gentilezza.
“E se desidera può scendere alla sorgente termale
dietro la struttura per farsi un bel bagno e alleviare la stanchezza
del viaggio, vedrà le farà bene... per qualsiasi
cosa io sono al piano di sotto” Con un inchino
l’uomo si allontanò verso le scale.
Diversamente dal primo impatto avuto nell’ingresso, quando
entrai nella stanza una sensazione di benessere mi pervase
improvvisamente, trasmettendomi subito un senso di calore e
accoglienza. Non troppo grande e anch’essa tipicamente in
legno, alle pareti della camera erano appesi dei disegni tradizionali
giapponesi che raffiguravano donne in kimono fra alberi di ciliegio e
pavoni di mille colori. Sorrisi fra me, pensando che sembrava una
camera viva, profumata di vissuto.
Notai che il futon era già stato preparato e quindi mi ci
sdraiai sopra immediatamente desideroso di rilassarmi, il viaggio mi
aveva davvero stancato. Inoltre ribadii fra me che avevo
fatto bene ad andare in un posto come quello. Avevo bisogno di evadere,
di riflettere con calma su quello che mi stava succedendo.
Pensai a Hyuga, che la sera prima di partire era passato a casa mia per
convincermi ancora una volta a riprendere gli allenamenti e che, quando
gli avevo detto del viaggio, aveva fatto una sfuriata accusandomi di
perdere tempo e di trascurare l’allenamento. Ma sapevo che
non era esattamente quello ciò che pensava realmente, ero
conscio di quel personale modo di dimostrare la sua preoccupazione e la
sua presenza. Ma quella volta non avrei mai potuto appoggiarmi a lui,
non potevo più promettergli niente. Non avrei più
potuto sopportare gli sguardi delusi dei miei compagni, né
soprattutto il suo.
Avevo bisogno di
capire... se valeva ancora la pena giocare a calcio....
Mi addormentai così, assorto in quei mille pensieri, con lo
zaino ancora su una spalla e la maglietta appiccicosa di sudore.
....vedo solo il pallone
e la rete, intorno è tutto buio. Io proteggo la mia porta e
sono in attesa di qualcosa. Continuo a guardarmi intorno, ma
è sempre l’oscurità a regnare. Poi,
all’improvviso, un sibilo cattura la mia attenzione... un
pallone calciato con potenza si materializza a poca distanza da me.
Perché rimango immobile senza tentare di pararlo? Sembro
pietrificato, non riesco a muovere un muscolo. Intanto il pallone entra
in porta e svanisce alle mie spalle... è goal? Sono smarrito
e non capisco cosa sia successo, intanto avverto dei passi avanzare...
non è nessuno, non è nulla... sono ancora una
volta i suoi occhi...
Aprii gli occhi di colpo, sollevandomi di scatto. Ebbi il capogiro per
quel movimento brusco e per un attimo provai un senso di smarrimento
non riconoscendo la stanza. Lentamente mi guardai intorno e a poco a
poco misi a fuoco, realizzando dove mi trovassi. Inspirando
profondamente, mi gettai ancora una volta sul futon, fissando
il soffitto; ero particolarmente turbato da quel sogno, un incubo ormai
diventato routine nelle notti dell’ultimo mese. Sospirai un
po’ rassegnato, rivolgendo lo sguardo all’orologio
da polso: erano quasi le nove e avevo dormito per soli dieci minuti...
eppure mi erano sembrate ore interminabili.
Raccolsi le forze e alla fine riuscii ad alzarmi. Accidenti, avevo le
gambe davvero pesanti! Con movimenti quasi meccanici frugai nel mio
borsone con l’intenzione di andare a fare un bagno rilassante
alla sorgente termale; forse così avrei riacquistato un
po’ di forze e tempra. Presi un asciugamano e uscii dalla
stanza per dirigermi nel retro della pensione.
In mezzo al più completo silenzio e ad una rigogliosa
vegetazione c’era una bella struttura in legno con
il tetto sferico coperto da vetrate smerigliate, un vero spettacolo per
la vista. L’aria fresca cominciava a farsi sentire, quindi mi
decisi ad entrare. Appena varcai la soglia, notai subito la
differenza di temperatura data dal calore e
dall’umidità della fonte e i brividi di freddo che
poco prima mi avevano colto sparirono dopo pochi istanti. Mi spogliai e
raggiunsi l’acqua termale. Il tepore che emanava
abbracciò graduale il mio corpo, mentre lentamente entravo
in acqua, quasi a voler assaporare quella sensazione su ogni centimetro
della mia pelle. Mi guardai intorno incuriosito: la sorgente era molto
accogliente, le piante e le rocce che emergevano in diversi punti la
rendevano particolarmente naturale e il silenzio che albergava
contribuiva alla sensazione di pace che mi stava rasserenando. Ero
contento di avere la sorgente termale tutta per me... almeno per quella
sera volevo stare da solo e non mi solleticava l’idea di
dover scambiare parole formali con altri visitatori.
M’immersi così fino al collo, abbandonandomi
totalmente fra quelle acque, scacciando qualsiasi pensiero, cercando di
svuotare la mia mente. Le acque mi cullavano, dolci e materne,
aiutandomi a rilassare i muscoli ed il respiro. Eppure ancora una volta
le immagini riuscirono a dominare la mia testa.
Questa volta un vecchio ricordo, il tiro di Hyuga e la sua sfida. A
quei tempi volevo dimostrare di poterlo parare, volevo superare Genzo
Wakabayashi...
Io ero un portiere,
avevo tanto desiderato esserlo, avevo combattuto contro mio padre
per inseguire questo sogno. Eppure.. .era quello che volevo
ancora?
Mi resi conto che erano troppi i pensieri che mi perseguitavano e per
colpa loro stavo perdendo di vista molte cose. Per un po’
dovevo cercare di non pensare al calcio, a Kojiro, a Takeshi... solo
così forse sarei riuscito a metter ordine nella mia testa.
Cercai nuovamente di rilassarmi, nuotando all’indietro,
lasciandomi accarezzare dall'acqua tiepida.
Sussultai, quando qualcosa sfiorò la mia spalla, facendomi
rabbrividire. Pensai di essere finito sopra una pietra, quindi mi
voltai tranquillo.
“Ah!” Un doppio grido di spavento
sibilò nell’aria, avevo urtato le spalle di
un’altra persona che ora mi guardava sorpresa. Non lo
riconobbi subito.
Ricordo solo il torso nudo, le spalle rilassate, i capelli bagnati che
morbidi cadevano sul viso e il collo dai quali le gocce
d’acqua scivolavano, andando a disperdersi su tutto il suo
corpo vigoroso...
“Wa…Wakashimazu?”
Ci misi qualche istante per capire che qualcuno aveva pronunciato il
mio nome con stupore e sgranai gli occhi non appena riconobbi la figura
davanti a me.
“Misugi? Jun Misugi?” Sicuramente nel trovarmi di
fronte il capitano della Musashi non nascosi la sorpresa nelle parole e
nell’espressione, , la stessa sorpresa che aleggiava allora
nelle sue iridi scure.
Quegli stessi occhi che
sul campo mi avevano messo in difficoltà e che erano
diventati il tormento delle mie giornate. E delle mie notti.
Che cosa ci faceva Jun Misugi in quel posto? Non riuscivo a
crederci… mi sembrava qualcosa di veramente assurdo. Ero
andato lì con l’intenzione di distrarmi e non
pensare al calcio ed invece avevo sotto i miei occhi la causa
scatenante di quella situazione. Il principe di vetro era davvero
davanti a me.
Il destino mi aveva
proprio preso di mira.
Dovevo avere un’espressione eccessivamente sconvolta dato che
il capitano della Musashi aggrottò la fronte, come per
interrogarsi della mia reazione.
“Hey, Wakashimazu! Non sono un fantasma, non fare quella
faccia…” Scherzò, sfoggiando un sorriso
gentile. “Incredibile trovarti in un posto simile, non
è da te!”
La sua battuta non mi piacque per niente, anche perchè,
probabilmente sbagliando, ci lessi dell’ironia.
“Ah, certo, invece questi posti sono degni di te!”
Risposi seccato. Misugi mi guardò un attimo come perplesso,
finché scoppiò a ridere di gusto.
“Hai ragione, è vero! Ah, ah, ah! Questo
è un po’ un posto ‘da
nonni’!”
Non riuscivo a comprendere il mio stato d’animo. Qualcosa
comprimeva il mio stomaco, era come se un chiodo continuasse ad
avvitarsi dentro di esso. Ero irritato, sì, ero irritato
dalla sua presenza. Dal sorriso dietro al quale si trincerava il
baronetto del calcio. La tranquillità e fermezza con cui
affrontava ogni situazione, senza mai scomporsi. Odiavo quella sua
calma interiore che associava sempre ad una buona dose di
razionalità.
Misugi si stropicciò un poco gli occhi e sorrise di nuovo.
“Io vengo qua dall’infanzia. Prima ci venivo con i
miei genitori, ora ci torno da solo, quando ho bisogno di rilassarmi.
Per riposarmi dopo il campionato… e lei, signor Wakashimazu,
perché si trova in questo posto da nonni?”
Cominciava a seccarmi la sua ironia. Ma cosa voleva da me? Lui e la sua
faccia di bronzo! Lo odiai in quel momento, perchè mi
sembrava tutto così falso, la sua gentilezza, i suoi
sorrisi, la sua stessa presenza. Come poteva una persona con tale
sguardo di sfida sul campo, con quel sorriso da principe trionfante,
mostrarsi così tranquillo? Credevo che Misugi mi stesse in
verità deridendo, nascondendosi dietro il suo sorriso
gentile. Avevo il sangue che ribolliva nelle vene, strinsi i pugni e
sbuffai, scocciato.
“Anche a me hanno consigliato questo posto per
rilassarmi…” Sibilai fra i denti, tentando di
mantenere la calma. Mi rendevo conto di stare esagerando, ma la sua
presenza mi aveva mandato in confusione.
Misugi sbattè le ciglia, sorpreso.
“Dai, anche tu hai il permesso di rilassarti di tanto in
tanto? Pensavo che Hyuga vi mettesse più in riga”
Continuava a scherzare, forse avvertendo la tensione che
nell’aria albergava. Per questo credo che
pronunciò quelle parole, pochi secondi dopo, probabilmente
nel tentativo di alleggerire la situazione.
“Bè, dai... allora vedi di non rilassarti troppo,
portiere! Fra un paio di mesi abbiamo l’amichevole con la
Francia e dovrai essere
in forma... ”
...perchè non
lo sei... da ciò che hai dimostrato nell’ultima
partita...
Non l’ascoltavo più. Avevo come
l’impressione di riuscire a sentire i suoi veri pensieri,
udivo i suoi giudizi, le sue sentenze, sapevo che mi stava giudicando,
sapevo che stava cercando di umiliarmi.
In quel momento ne ero davvero convinto.
La vista si annebbiò rendendo tutto buio, la mia pelle
s’irrigidiva, le parole cercavano di uscire, mentre i nervi
si sgretolavano dentro le cellule del mio corpo.
“Senti, adesso mi hai scocciato, principino...”
Sputai con astio, alzando la voce “ ...l’avermi
fatto due goal non ti da l’autorizzazione a dirmi cosa devo o
non devo fare, decido da solo se e quando allenarmi. Forse qui quello
che deve tenersi in forma, invece di stare qui a cazzeggiare,
è qualcun'altro che può solo giocare venti minuti
a partita, dato che non se ne può permettere
altri!”
Volevo aggiungere altro, vomitare tutta la mia rabbia, ma
bastò lo sguardo di Misugi a tagliare le ulteriori parole
dalla mia gola. Non c’erano né risentimento
né rabbia nei suoi occhi, eppure quello sguardo duro e
severo bastò a farmi tacere, atterrendomi. Non avevo mai
visto quell’espressione sul volto di Jun Misugi.
Mi sentii mortificato, stavo davvero cadendo in basso. Strinsi i pugni
nell’acqua, sentendola scivolare fra le mie dita. Me ne resi
conto solo in quel momento. Ero geloso, invidioso della determinazione
che Misugi dimostrava in ogni partita, eppure allo stesso tempo ne ero
attratto e incuriosito. Odiavo e ammiravo la sua dedizione, la
motivazione con cui ogni volta si metteva in gioco, lottando contro la
sua malattia. Eppure non mi era chiaro il perchè, ancora una
volta.
“Maledizione, scusami Misugi…non so cosa
mi sia preso, mi dispiace” Non ebbi neppure il coraggio di
guardarlo negli occhi, stavo diventando così vigliacco?
Misugi fece un respiro profondo e un attimo dopo la sua mano si
poggiava sulla mia spalla, facendomi rabbrividire per la scossa che si
era propagata in tutto il mio corpo, spingendomi a credere che le sue
dita mi stessero accarezzando.
“Hey, Wakashimazu… io non mi riferivo alla
partita.”
“Lo so. Scusa”
“Senti” Misugi assunse un tono serio ma comprensivo
“lo so che non ho alcun diritto di intromettermi negli affari
tuoi, però... non eri tu durante quella partita...”
Mi venne da sorridere nel sentire simili parole e in quel momento mi
resi conto di quanto fossero sincere.
“Lo so, Misugi...” Sospirai, rilassando le braccia
ed alzando finalmente lo sguardo verso di lui. “Infatti non
so ancora se giocherò la partita con la
Francia...” Ammisi mesto, liberandomi, con quella
confessione, del peso che riempiva il mio stomaco.
“Che? Che cosa stai dicendo?” Misugi aveva uno
sguardo sconvolto, incredulo.
Non seppi davvero cosa rispondere.
D’improvviso mi afferrò violentemente per le
spalle e, mentre mi costringeva a guardarlo negli occhi,
l’acqua che aveva agitato col suo movimento brusco
schizzò sopra il mio corpo, come per scuotermi insieme a
lui.
“Hey, Wakashimazu! Che diavolo succede, me lo vuoi
dire?”
Calò il silenzio, non ci fu risposta per lunghi attimi. Nel
mio campo visivo vi erano solo la vena pulsante sul collo di Misugi e i
tendini delle sue braccia in tensione. La mia mente, invece, vagava
altrove.
“E tu, invece...” Cominciai sussurrando
“Mi vuoi dire perchè ti ostini a giocare a calcio,
nonostante rischi di morire?”
“Co... come?” Il capitano della Musashi si
sorprese, sicuramente non si aspettava una domanda del genere. La sua
espressione divenne indecifrabile.
Improvvisamente Misugi allentò la presa sulle mie spalle,
facendo scivolare le mani sulle mie braccia bagnate.
“Senti...” Cominciò con sorriso
“A te diverte giocare a calcio?” Il tono era quello
di qualcuno che stava facendo la domanda più banale
possibile, eppure riuscì ugualmente a spiazzarmi.
Improvvisamente la mia testa cominciò a vagare nel passato,
riesumando i ricordi delle mie prime esperienze con un pallone da
calcio, i giochi con i bambini del vicinato, le partite a scuola,
l’entusiasmo dei compagni che mi sapeva coinvolgere.
“Io...una volta, credo, mi divertiva...” Ammisi,
amareggiato. Ci riflettevo solo allora, negli ultimi tempi giocare a
calcio era diventato quasi un obbligo, mentre prima era vero... mi
divertiva. Stavo per dire qualcos’altro, non so bene cosa,
forse volevo solo trovare una giustificazione, ma Jun Misugi mi
precedette con un tono di voce squillante che mi stupii non poco.
“Vabbè, senti, non pensarci ora!”
Esclamò risoluto. “Sei venuto qui per distrarti ed
è quello che faremo!”
Lo guardai un po’ confuso.
“Fa...faremo?” Cominciavo a preoccuparmi.
“Esatto, Wakashimazu! Stasera andremo alla festa del paese
che c’è qui vicino, una di quelle feste
tradizionali con tanto di bancarelle e giochi!” Misugi
sembrava davvero entusiasta e poi da come stringeva i pugni e mi
guardava... ne era veramente convinto!
Io continuavo a non capirlo, decisamente. Un attimo prima eravamo seri,
parlando di cose serie e ora non capivo come avesse fatto a
cambiare argomento e atteggiamento in una frazione di secondo,
né che diavolo gli passasse per la testa.
“Ma, io... non mi piacciono le feste
tradizionali...” Provai a dire, ma il ragazzo non volle
sentire ragioni!
“Non fare il difficile, ci sarà da
divertirsi!” Misugi mi diede le spalle e cominciò
ad avviarsi verso la riva, seguito meccanicamente dal sottoscritto che
se era completamente ammutolito.
Eravamo vicini al bordo della sorgente termale, quando Jun si
voltò all’indietro, verso di me, domandandomi:
“Non volevi distrarti?”
“Uh? Sì... certo...” Risposi, ancora una
volta non comprendendo le sue intenzioni.
Lui intanto abbandonò l’acqua. Il suo corpo
piegato sulle ginocchia si alzò in piedi, di fronte a me,
dandomi ancora le spalle. In un attimo persi le parole. Fui ammaliato
dal suo corpo nudo su cui il mio sguardo, inconsciamente, si
posò avido, pronto ad afferrare la visione di quelle spalle
muscolose, della schiena longilinea, dei fianchi sodi ed
incredibilmente seducenti. Mentre Jun si portava le mani ai capelli,
afferrandoli per strizzarli, io mi persi a contemplare la tensione dei
muscoli, finché nella mia testa si materializzò
un pensiero fugace.
Jun era l’icona di una bellezza assoluta. Era perfetto. E bellissimo.
.
Misugi si legò l’asciugamano alla vita, voltandosi
ancora verso di me. Mi guardò intensamente negli occhi,
prima di tendermi la mano. Nell’istante in cui pregavo che
non si fosse accorto del mio turbamento, la sua voce
echeggiò nell’aria.
“Forza, campione! Ci aspetta una serata piena!”
Non so se fu la stretta decisa e sicura, o il suo sorriso accattivante,
o le sensazioni provate nell’esaminare il suo corpo... so
solo che alla fine, in quella manciata di istanti, tendendogli a mia
volta la mano, decisi di affidarmi a lui.
Fine I capitolo
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