Dominostein
Terza classificata
al contest "Assaporando
il mondo"
indetto da 9dolina0 sul forum di EFP.
Note
autore:
Nonostante il personaggio di Herbert Wendler sia veramente esistito, la
sua vita privata è totalmente frutto della mia immaginazione.
Questo
è il
mio primo racconto di genere storico; in precedenza ho scritto solo due
brevi poesie che farei rientrare sotto questo genere.
Gran
parte dei racconti che ho scritto sono fantascientifici, tuttavia,
poiché amo inserire elementi reali persino quando parlo di
viaggi interstellari e pianeti collocati all'altro capo
dell'universo,
non mi è affatto dispiaciuto compiere un lavoro di ricerca,
prima
e durante la creazione di questa storia.
Autunno 1936.
Dresda (Germania).
Mentre
accelerava il passo, lungo il ponte che attraversava il fiume Elba,
Herbert
Wendler sollevò il colletto del cappotto e si strinse nelle
spalle per
proteggersi dal freddo. Il vento che soffiava da nord era
esageratamente
gelido
per gli inizi di ottobre. Quando respirava, alla luce degli ultimi
vecchi
lampioni a gas, una nuvola di vapore si dissolveva nell’aria.
Teneva i pugni
chiusi immersi nelle tasche, ogni tanto sgranchiva le dita e pensava al
caldo appartamento
sopra la pasticceria di zia Agathe, o meglio la sua pasticceria.
Sì, perché
all’età di ventisei anni, mentre i suoi coetanei
erano già tutti maritati da un po' e impiegati come operai
in qualche industria post-bellica riconvertita,
lui invece
non aveva mai avuto nemmeno il tempo per pensare alle ragazze,
perché doveva
occuparsi della gestione del negozio. Agathe gli aveva affidato la
proprietà
della pasticceria da qualche anno; un'attività che
richiedeva tempo ed energie. Era
tutt’altro che semplice condurre un’impresa del
genere, ed era raro che, alla
sua età, un giovane avesse sulle spalle così
tante preoccupazioni gestionali.
Sua zia diceva che, in quegli anni, se si
voleva sopravvivere alle dure leggi della vita, si doveva prima di
tutto imparare a ridurre
al minimo le perdite e le rimanenze. Lui le voleva molto bene e
perciò
non protestava, ma in segreto sognava di scambiare il suo posto con uno
dei
cuochi che se ne stavano barricati in cucina, tra le spezie aromatiche,
i profumi degli ingredienti tradizionali e il rumore degli attrezzi del
mestiere.
Zia
Agathe era diventata la sua nuova famiglia da quando sua madre era
morta
prematuramente per malattia e il padre lo aveva abbandonato per darsi
alla
malavita. Herbert viveva a Meißen e,
all’età di
quindici anni, per qualche mese aveva vissuto di stenti facendo il
lustrascarpe per strada. Un periodo
infernale. Poi
era arrivata zia Agathe da Dresda e lo aveva portato a casa con lei.
Herbert
l’aveva incontrata una sola volta quando aveva appena tre
anni,
non ricordava
nemmeno di averla una zia, invece lei si ricordava benissimo di lui e,
ogni
volta che si presentava l'occasione, lo
dimostrava raccontando aneddoti sulle vicende di famiglia. Agathe aveva
appena
quarant’anni ed era già vedova: suo marito era
morto al
fronte durante la Grande Guerra. Non aveva avuto figli, per questo
tendeva a sommergere il
nipote con l’affetto della madre che avrebbe voluto essere.
Quel giorno Herbert, dopo aver fatto visita al
mugnaio
fuori città per ordinare una scorta di farina, stava tornando verso la
pasticceria. Il raccolto
quell’anno era stato
scarso e i sacchi di farina che aveva potuto permettersi erano meno
della metà
di quelli dell’anno precedente. Tolse le mani dalle tasche e
le sfregò
energicamente per cercare di scaldarsi un po’. Sopra
l’entrata del negozio
avevano fatto installare una lanterna alimentata a energia elettrica,
che per l’epoca
era una rarità di cui potersi vantare; la sua luce si vedeva
da lontano e come una
stella, anche durante le notti più meste, indicava la strada
di casa.
Quando
entrò nel negozio, un intenso profumo di cialde caramellate
gli allietò i
sensi. Zia Agathe stava servendo gli ultimi clienti della giornata,
mentre
questi si lamentavano per l’aumento dei prezzi e lei cercava,
per l’ennesima
volta, di spiegare la criticità della situazione.
Era
un periodo piuttosto difficile: certo, l’economia
della Germania era in rialzo
da quando Hitler era salito al governo nel ’33, ma i soldi da
soli non
sfamavano e le colture quell’anno erano andate a male a causa
delle troppe
piogge.
Herbert
si sentiva inquieto. Quando l’ultimo cliente uscì
dal negozio, serrò la porta e
si voltò verso sua zia.
«Dobbiamo
trovare il modo di ridurre le rimanenze e abbassare i prezzi, in modo
che anche
i meno abbienti possano permettersi di comprare da noi certi
prodotti.»
La
zia si tolse adagio il grembiule e lo ripiegò
meticolosamente su una sedia. «Sapessi
come vorrei che si potesse fare qualcosa. Purtroppo è un
periodo magro e se ci
mettessimo a regalare il cibo finiremo in strada.»
Herbert
sospirò. «Non sto parlando di
regalare…», si morse un labbro e non
riuscì a
trovare le parole per continuare a spiegare le sue ragioni.
«Che
cosa ha detto il mugnaio?», chiese Agathe.
«Che
ci può fornire solo quindici sacchi di farina.»
«Cosa?!
Ma sono…»
«Pochissimi,
lo so. Se li razioniamo, forse riusciremo ad arrivare fino ad
aprile»,
concluse amaramente il ragazzo. «Da aprile dovremo iniziare a
usare le farine peggiori. Le teniamo da parte appositamente, del
resto.»
La
donna sorrise, sinceramente ammirata dai progressi di gestione che
Herbert
stava facendo, poi il suo sguardo si rabbuiò improvvisamente.
«E
tu vorresti metterti ad aiutare i poveri? Aiutiamo prima noi
stessi!»
Il
ragazzo non disse nulla. Restò fermo a osservare la zia; con
quell’espressione
accigliata che aveva assunto, sembrava di colpo invecchiata di una
decina
d’anni. Forse era anche colpa
dell’intensità decrescente della luce del giorno.
Il sole ormai era calato, regolò
l’intensità della fiamma di una delle lampade
già
accese alle pareti e osservò sovrappensiero i pochi dolci
che erano rimasti invenduti,
adagiati in modo disordinato sui ripiani dietro al vetro
dell'espositore. I
biscotti ricoperti di glassa potevano essere conservati per qualche
giorno,
i Waffel anche per una settimana, ma altri dolcetti, per esempio quelli
alla
crema, erano un problema. Era impossibile prevedere le
quantità esatte da produrre:
alcune volte una tipologia di dolci veniva esaurita a metà
mattinata, altre
volte sembrava che nessuno volesse saperne di comprarli.
Nonostante
le rimanenze fossero sempre esigue, tra le varie opzioni non
c’era mai quella
di gettare via il cibo. Nemmeno una briciola doveva essere sprecata.
Tempo
fa, davanti alla pasticceria si sedeva una giovane senzatetto e
Herbert,
facendo
attenzione che la zia non lo vedesse, più di una volta le
aveva
portato un cestino
di dolciumi avanzati. Scendeva al piano terra di notte e la trovava
sempre lì, raggomitolata
sul marciapiede dall’altro lato della strada. Più
di una
volta era
stato tentato di condurla dentro al negozio per offrirle un riparo
dalle intemperie.
Non si erano mai scambiati una singola parola, non che Herbert non ci
avesse provato, ma lei restava muta e lo
ringraziava solamente con lo sguardo: aveva uno sguardo magico, capace
di trasmettere emozioni diverse variando appena l'espressione alla luce
della lanterna che il ragazzo
portava con sé. Ad un certo punto aveva sentito la
necessità di trovarle un
nome, così, in cuor suo, l’aveva soprannominata
Grete.
Forse se n’era
addirittura innamorato, ma non osava sbilanciarsi oltre le offerte di
cibo. Una
notte scese come di consueto, ma lei non c’era. Non seppe mai
che
cosa le fosse
successo e rimpianse non averla potuta aiutare di più.
Zia
Agathe per principio non regalava mai niente: diceva che bisognava
sapersi
guadagnare da vivere e che la carità era diventata una
parola estranea persino in chiesa. Diceva anche che per avere successo
in quel mestiere,
bisognava avere un segreto da
custodire. Il suo segreto era la ricetta personalizzata per creare la
pasta
perfetta per le cialde caramellate. Quando le sfornava, un profumo
squisito, di
un’intensità indescrivibile rendeva bellissima la
peggiore delle giornate. L’aroma
delle sue speciali Gaufre tedesche era quello del pane lievitato, del
latte
tiepido appena munto nei pressi di un vecchio casale ai margini del
bosco,
dello zucchero sciolto che assumeva un colore ambrato e imitava
un’essenza mistica. Un tripudio d’arte culinaria
che trasportava in
un’altra dimensione.
Per non parlare del momento dell’assaggio: se si aveva la
pazienza di masticare
delicatamente la cialda fragrante, quell’aroma magico
risvegliava antichi
ricordi sepolti nell’animo e conduceva a chilometri di
distanza,
in una dimensione ultraterrena. Ebbene sì, le leccornie
della pasticceria Wendler fornivano,
ai più predisposti, la possibilità di viaggiare
senza muovere un passo.
Herbert
Wendler sognava di riuscire, un giorno, a creare qualcosa di sublime
come le
cialde della zia, qualcosa che potesse emozionare oltre che sfamare. Ci
pensava
notte e giorno: quando usciva al mattino per comprare il giornale dallo
strillone in strada, immaginava il giorno in cui il suo nome sarebbe
finito in
prima pagina, elogiato come migliore pasticcere della Germania.
Talvolta, la
notte, prima di addormentarsi, provava mentalmente varie combinazioni
di
ingredienti e giudicava se la loro unione fosse cosa buona e giusta o
un
abominio.
Fu
proprio durante una di quelle notti costellate di pensieri che gli
venne l’idea.
Era quasi mezzanotte e, con lo sguardo
perso nel buio, gli tornò in mente un flash di vita passata:
sua madre che lo
accarezzava scompigliandogli i capelli davanti la Frauenkirche. La
Chiesa di Nostra Signora a Meißen, con le sue
pietre scure a faccia vista, sembrava una costruzione di mattoncini
giocattolo.
Quando nevicava, invece, assomigliava a un dolce ricoperto di zucchero
a velo e veniva voglia di assaggiarla.
Accese
una candela e scese in cucina con passo felpato, poi raccolse su un
panno tutti
i dolci invenduti e valutò compiaciuto la situazione. Un
istante dopo si mise a
sbriciolare i biscotti, amalgamare le creme e fondere il cioccolato.
Adoperò
varie pentole: su una mise a sciogliere del burro che poi
mescolò con dello
zucchero, su un’altra mise del latte a bollire.
In
che modo Herbert pensasse, con tutto quello sbatacchiare, di non svegliare sua zia che
dormiva al piano di
sopra, era un bel mistero. Agathe infatti si
svegliò nel cuore della
notte disturbata dai rumori sospetti provenienti dabbasso. Credette che
fossero
entrati dei ladri, ma si tranquillizzò quando,
sbriciando dalla porta
socchiusa della cucina, vide il volto di suo nipote; tornò a
dormire senza
chiedere spiegazioni, poiché aveva già intuito
tutto.
Lavorare
alla luce di una candela richiedeva grande concentrazione per non
combinare
pasticci, ma il risultato fu eccellente sotto ogni punto di vista: la
nuova creazione
di Herbert aveva un profumo invitante e un aspetto allettante. Si
trattava di
cubetti composti di tre strati e ricoperti esternamente da un velo di
cioccolato. Uno strato centrale di marzapane era
intervallato da uno di pan di zenzero - ottenuto
miscelando miele, zucchero di canna e zenzero - e da un ultimo strato
ottenuto dalla lavorazione dei dolci invenduti. Il tutto veniva poi
ricoperto
di
cioccolato. Tagliati a metà e sistemati in file precise su
di un vassoio,
assomigliavano un po’ alle tessere del domino. Decise, per
questo, di chiamarli
Dominostein.
Quando
la mattina seguente, alle prime luci dell’alba, zia Agathe,
ancora in vestaglia da notte, scese le scale che portavano
al negozio, per aprire la porta
sul retro
ai cuochi, venne attratta da un buonissimo profumo proveniente dalla
cucina. Trovò il nipote addormentato su una sedia con la
testa
abbondonata sulla tavola.
Poco più in là, un vassoio coperto da uno
strofinaccio: Agathe lo tirò verso di sé
incuriosita. Herbert
si svegliò di soprassalto con il volto tutto infarinato e,
non
riconoscendo l’atmosfera della sua camera, fu
colto da un breve attimo di spaesamento… poi
ricordò.
«Che
cosa hai preparato di buono?» chiese la zia sorridendo con
naturalezza. Senza aspettare una risposta da parte del ragazzo,
sollevò un lembo dello strofinaccio.
«Cioccolatini?»
Ne prese uno e lo assaggiò. «Sono deliziosi. Spero
tu
abbia memorizzato bene
gli ingredienti… perché dai prossimi giorni
saranno
esposti in prima fila in
vetrina» disse.
Dominostein.
La pasticceria Wendler, da allora, fece di quei cioccolatini il proprio
punto
di forza. Turisti di passaggio si fermavano nel vicolo, un tempo
sconosciuto,
in cui sorgeva il negozio, per acquistare la leggendaria prelibatezza
di
Herbert,
che intanto era stato proclamato miglior cioccolatiere della Germania
orientale.
Quelli
non erano semplici cioccolatini, erano uno scrigno di ricordi: nel loro
soffice
ripieno c’era la vita del giovane che li aveva creati, le
carezze
di sua madre e
i sorrisi di suo padre, gli atti di gentilezza che aveva compiuto verso
Grete,
il dispiacere di averla perduta e la speranza che forse, una mattina,
riaprendo
la serranda lei sarebbe stata di nuovo lì, seduta
sul
marciapiede di fronte alla
pasticceria. Perché al di là delle sue vesti
stracce e di quel suo volto
sporco, aveva intravisto la bellezza. I Dominostein li aveva creati
anche per lei.
Zia
Agathe gli aveva insegnato che per avere successo bisognava avere un
segreto da
custodire. Il suo ingrediente segreto non era qualcosa di materiale,
era formato da
una
sostanza volubile, dal sapore variabile a seconda dell'umore: il
ricordo. Mentre
mescolava gli ingredienti per dare vita ai Dominostein, lui viveva come
in una
parentesi temporale: ricchezza
sotto forma di emozioni, ecco come si poteva
definire il componente segreto di quei dolci.
Durante
la Seconda Guerra Mondiale, il Dominostein venne soprannominato
"Notpraline".
Quando
la società del cioccolatiere Herbert Wendler
fallì a causa delle difficoltà economiche indotte
dal conflitto, la ricetta originale e la tradizione vennero ceduti alla
"Dr. Quendt".
Da allora, i pasticceri, non
conoscendo la natura dell'ingrediente segreto originario,
lo sostituirono con un ripieno al 30% di punch al rum.
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