Clair de Lune
Clair de Lune si guardò intorno. Quel paese non prometteva nulla
di buono, con tutte le ante chiuse e poca gente per strada.
Le persone che aveva incontrato la guardavano male. Ma c’era abituata
Sarà stato forse per la blusa azzurra e i pantaloni stretti
color pistacchio. Ma forse era per l’improbabile cilindro fucsia
che portava in testa.
Pochi dubbi, girovaga, zingara, lazzarona.
-Vieni Carcassonne-
L’enorme cane nero la seguì docilmente.
Lo aveva trovato sotto la rocca della cittadina omonima, un batuffolo
peloso e solitario con gli occhi languidi e umidi. Senza razza e senza
padrone.
Un incrocio, aveva pensato, fra un Labrador e un Terranova, visto che ogni pozzanghera era buona per buttarsi dentro.
- Op Op Chabal, non ci fermiamo, proseguiamo.-
Il cavallo diede uno strattone e aumentò il passo.
Violetta, la gatta, si stiracchiò dentro il carro, voluttuosa,
piantando le unghie affilate sul quilit del letto di Clair.
Da quanto tempo sei in giro Clair?
Non se lo ricordava più, ricordava di aver deciso di scappare
dal circo poco più grande di una bambina, ma non ancora una
donna, quando il padrone era entrato nel suo carro e le aveva tappato
la bocca con un bacio che sapeva di sigarette e frittata.
Le aveva infilato una mano sotto la camicia, saggiando la consistenza del seno e facendole un viscida carezza.
Aveva biascicato un –Ti piace eh?-
Farandóle, la sua compagna di carro e acrobazie si era mossa
rumorosamente nel sonno, facendo scappare una bestemmia al padrone che
se ne era andato, ratto come era venuto.
Clair si era seduta sul letto spaventata e confusa.
-Non ti illudere Clair, tornerà.-
Le aveva sussurrato Farà.
-Scappiamo!-
- E dove, siamo due ragazzine e poi fatto la prima volta è come
bere la minestra di Madame Cici, chiudi gli occhi, mandi giù ed
è tutto finito.-
Clair spalancò la bocca, ma non le uscì un fiato, Farandóle c’era già passata.
Era scappata la notte seguente, nello zaino due costumi di scena, un
po’ di biancheria e, in un borsone, la sua attrezzatura: le palle
da giocoliere, le clavette e la corda da equilibrista.
Chabal l’aveva guardata con i suoi grandissimi occhi, quando
aveva slegato la cavezza ed era montata in groppa, sparendo dal circo
per sempre.
Aveva cercato di mettere più strada possibile fra sé e il
padrone. Aveva cavalcato tutta la notte, nascondendosi sotto i ponti
durante il giorno.
La fame, poi, una fame terribile le aveva preso lo stomaco. Doveva mangiare qualcosa, doveva guadagnare qualcosa.
Si era fermata in un paesello, aveva legato Chabal ad un albero e aperto il borsone.
Era venuto fuori il costume di scena nero, con i lustrini argento. Si
era tinta il viso con il cerone bianco, passato il kajal attorno agli
occhi e disegnata una lacrima sulla guancia.
Aveva sistemato il capello e così cominciato il suo primo
spettacolo da sola, senza Farandóle. Era stato difficile tenere
la scena, ma aveva ricavato il pranzo e mezzo filone di pane per il
giorno dopo.
Violetta l’aveva trovata sotto uno dei tanti ponti, sotto i quali si rifugiava, quando pioveva.
Chiusa dentro una busta di plastica, bagnata ed infreddolita. Le aveva lanciato un miao triste e sconsolato, come a dire: –Non siete tutti così, vero?-.
Se l’era messa sotto il maglione per riscaldarla, e Violetta
aveva ricambiato con delle timide e poi sonore fusa. Era grigia,
con delle strane sfumature che a Clair erano sembrate viola, da cui il
nome.
Chabal aveva guardato la nuova arrivata, strofinando le grandi narici sul musino della gattina.
- Tranquillo vecchio mio, questa mangia latte e carne, e non fieno come te-.
Violetta aveva dato una leccatina al muso del cavallo ed erano diventati amici.
Quanti spettacoli hai fatto da allora Clair?
Ogni paesino, uno spettacolo e qualche soldo.
A Saint Gilles si era fermata, nella vecchia piazzetta, sotto un
platano. Le era piaciuta quella cittadina sonnacchiosa, con il fiume
poco distante dal mare.
Aveva fatto due spettacoli, uno a pranzo e uno di sera, rimediando da dormire e mangiare e anche un’amica.
La vecchia Benoit si era intenerita a guardarla, secca come un chiodo,
mentre lanciando clavette si esibiva in incredibili spaccate e piroette
funamboliche. Sarà stato il costume di lamé violaceo, o
il pesante trucco da bambola giapponese, fatto sta che se l’era
tirata in osteria, e davanti ad un piatto di minestra di legumi e un
faux fillet con le patate al forno, Clair in due bocconi e in un sorso
di vino, aveva raccontato alla vecchia tutta la sua storia. La donna
l’aveva guardata e aveva commentato.
-Piccola, gli uomini sono tutti uguali, ma ce n’è uno
sulla terra, quello con le stelle negli occhi. Se sarà destino
lo incontrerai, sennò, schivali come la grandine, e te lo dico
io che ne ho seppelliti due e nessuno aveva stelle negli occhi-.
Clair aveva sgranato gli occhi e l’anziana le aveva versato un
altro quartino di rosso. Era lei che le aveva regalato il carro, che
sarebbe diventata la sua casa e la coperta multicolore, tante
piastrelle di tessuto diverso, legate fra loro, in un disegno
geometrico.
-È un quilit, viene dall’America, me l’ha mandato uno dei miei figli che è emigrato laggiù-.
A Clair la vecchia aveva regalato un tesoro, aveva rovistato per bene
in soffitta e aveva riempito il carretto di cose utili. Pentolame, un
lume a petrolio, candele e molti abiti smessi.
Le aveva detto anche:
-Vai a Tarascona, alla fiera di Santa Marta c’è sempre da
fare e vedrai, troverai da lavorare e da mangiare sotto il castello di
Roi Renè…-.
E così, salutata la vecchia Benoit, Clair era arrivata a
Tarascona in un giorno d’estate, e aveva fatto anche tre
spettacoli al giorno. Aveva imparato la leggenda della Tarasca e di
come l’impavida Marta l’avesse cosparsa di acqua benedetta,
per poi farla lapidare nella pubblica piazza.
Clair si era accorta che gli uomini la guardavano: saranno stati i
capelli o l’eleganza con cui si muoveva, fragile come una
libellula d’argento, quando faceva l’equilibrista sulla
corda tesa.
Ma di occhi con le stelle, non ne aveva visti. In ogni uomo vedeva lo
stesso sguardo del padrone. Da rapace. Lei abbassava i suoi, sotto il
cerone ed un grazioso inchino.
E adesso Clair?
Quella vita le piaceva.
Era libera, andava e veniva quando voleva e dove voleva. Certo di spaventi ne aveva avuti, e belli grandi.
Una sera due uomini erano entrati nel carretto e uno le aveva tappato la bocca con la mano ruvida, dicendole.
- Bella, dacci i soldi, o prima ci divertiamo e poi ti ammazziamo-.
Carcasonne si era lanciato come una furia, mordendo ed abbaiando.
Spaventati avevano per un istante mollato la presa, Clair allora aveva
preso il pugnale che teneva sotto il cuscino, ci aveva sputato sopra e
aveva urlato – Andate via, non ci sono soldi qui- I due balordi
si erano allontanati, correndo inseguiti dal cane.
Lei era scoppiata in un pianto dirotto, consolata dalla fusa di
Violetta e una volta tornato indietro, Carcassonne le aveva leccato il
viso, uggiolando piano.
Erano il suo mondo, il cane, la gatta, il cavallo e il carretto. E tutto si muoveva lento, scandito dal trotto di Chabal.
Fu ad Avignone che incontrò le stelle.
Nella piazza antistante al Palazzo dei Papi, aveva cominciato il suo
spettacolo. Indossava un costume bianco ricamato di fili d’oro,
dono di una zingarella che aveva incontrato ad Arles e a cui aveva
offerto metà della sua cena. La ragazzina scappava e Clair, per
istinto o solidarietà, l’aveva nascosta nel carro.
La piccola in cambio aveva tirato dalla sua sacca sudicia, quel meraviglioso costume bianco.
-Tieni, tieni.- le aveva detto, e Clair aveva accettato quel dono
meraviglioso, non chiedendosi nulla, anche se sospettava che la bambina
l’avesse preso senza permesso da qualche parte.
Aveva preparato con cura la corda tesa, e Carcassonne era al suo posto,
con il collare di gala in raso e velluto rosso, davanti al cappello che
Clair sperava di riempire.
Lui leggeva, seduto ad un tavolino, un caffè ormai finito e un
bicchiere d’acqua a metà. Clair uscì dal carretto,
fra i timidi applausi del crocicchio di gente che si era formato.
Salì scalza sulla fune, candida come una colomba, il viso
pesantemente truccato e il piccolo ombrellino di seta per rimanere in
equilibrio. Un paio di passeggiate, un flick flack e una spaccata sulla
corda. La gente cominciò ad applaudire. Lui alzò gli
occhi indirizzandoli verso quel rumore improvviso.
E Clair lo vide, un riflesso negli occhiali e poi gli occhi verdi, timidi e curiosi, che la stavano guardando.
E vide le stelle, perché cadde dalla fune e si storse la
caviglia, fra gli – Aaaah!- di spavento del pubblico presente.
Il ragazzo si alzò e con passi veloci, si avvicinò a Clair, che con le mani si teneva l’arto dolorante.
-Non abbiate paura, signorina, sono quasi un medico.-.
Clair sentì le sue mani gentili palparle la gamba ed
arrossì sotto il cerone, mormorando appena un grazie, di
circostanza, nella testa le parole della vecchia Benoit su occhi e
stelle.
Il giovane l’aiutò ad alzarsi e la fece sedere sul carro,
mentre la gente si disperdeva, lasciando il cappello quasi vuoto,
delusa dello spettacolo andato male.
-Come vi chiamate, signore?-
-Mi chiamo Jules Doucet-
Aveva venticinque anni, Jules, ed era arrivato ad Avignone in vacanza.
Non conosceva il sud della sua terra, abituato al freddo e al vento
della Normandia, dove era nato e al gelo della sua stanzetta in Rue de
Livres, a Parigi, dove studiava. Medicina e Chirurgia
Suo padre faceva il ferroviere e sua madre la casalinga, un sogno che diventava realtà.
Un figlio medico. Il riscatto di una vita fatta di sacrifici.
Clair lo guardò, ma non vide nulla di spaventoso nei suoi occhi,
solo una luce di ingenuità che la sorprese e commosse. Allora
capì quello che la vecchia di Saint Gilles le aveva detto.
Uno sulla terra esisteva ed aveva stelle negli occhi.
Jules prese un fazzoletto, e con un impulso che non seppe controllare, pulì il viso di Clair dal cerone.
Aveva il naso piccolo e gli occhi chiari, di un colore indefinibile fra
il grigio e l’azzurro. Ma quello che stupì di più
Jules fu che in quegli occhi non c’era né passato,
né si leggeva il futuro. Erano come un lago di montagna
cristallizzato.
Jules le fasciò la caviglia e Clair prese da sotto il materasso la scatola dove metteva i risparmi.
- Quanto vi devo, monsieur?-
- No, no. Io non sono mica medico ancora…-.
- Comunque vi siete disturbato…-
- Beh mi fareste magari compagnia stasera a cena, non ho mai incontrato ehm, un’artista di strada. -
Clair lo guardò e vide ancora le stelle nei suoi occhi.
Acconsentì con un sorriso.
- Alle otto va bene, signorina…Non so il vostro nome…-.
- Clair, mi chiamo Clair de Lune. -
Clair andò a rovistare nel baule, dove aveva riposto con cura i
vecchi abiti della Benoit. Trovò subito un vestitino bianco e
rosso. Lo rassettò e stirò per bene. Si lavò i
capelli e non mise un filo di trucco. Ai piedi un paio di ballerine
bianche.
Quando Jules la vide, sentì lo stomaco sussultare.
-Posso chiamarti Clair?-
Era intelligente, ma lo stupore di Jules aumentò quando scoprì che era andata anche a scuola.
-Io non sapevo, non pensavo che i bambini del circo andassero a scuola-
-Beh magari non una scuola seria come la tua, ma sappiamo leggere e
scrivere, sappiamo cos’è un libro e spesso ci insegnano
anche un’altra lingua…-
Clair rise nel vedere lo sguardo del ragazzo; era tanto, troppo tempo che non rideva.
Mangiarono e chiacchierarono. A lui venne spontaneo invitarla nel
piccolo appartamento che aveva preso in affitto per il caffè e a
lei naturale accettare.
Il primo bacio se lo diedero sulla prima rampa di scale e siccome Jules
stava al terzo, ebbero il tempo di capire che la cosa piaceva a tutti e
due.
Lui fece fatica ad aprire la porta, perché non voleva lasciarla andare. Una fragile farfalla dal corpo sottile.
Quando Clair si svegliò si rese conto che era la prima volta che
si svegliava fra quattro pareti, senza la sensazione di soffocare.
Poi pensò a Carcassonne, Violetta e Chabal…
Li aveva lasciati da soli!
Si vestì in silenzio.
Uscì senza fare rumore.
Clair, Clair…che fai?
Quando Jules non la vide nel letto, credette di impazzire. Si
vestì di corsa e fece gli scalini tre alla volta. La
trovò che dava da mangiare al cavallo.
-Pensavo te ne fossi andata. -
-Vuoi che me ne vada?- Clair lo guardò, un misto di curiosità, speranza e diffidenza.
-Ma no! Io vorrei restassi almeno un po’…-
-Resterò.-
E venne luglio e poi agosto, Jules studiava e Clair ballava sulla corda
tesa, con l’unica differenza che non metteva più il cerone
sul viso e che di notte, ogni notte, saliva tre rampe di scale e
trovava le stelle ad aspettarla, due braccia ad accoglierla e un filo
di barba a pizzicarle le labbra.
Clair non sapeva cosa fosse la felicità, ma capì cosa era
il dolore, quando Jules le disse che sarebbe ripartito per Parigi.
-Vieni con me.-
-Non posso.-
-Perché?-
- Jules…-
- Ma io ti amo!-
Clair alzò gli occhi e rispose:
-Io non ho bisogno di dirtelo.-
Poi si girò e cacciò via due lacrime grosse che volevano uscire a forza dagli occhi.
Non voleva piangere, lo sapeva che sarebbe andata così. Veniva
dal circo: i legami fra chi si guadagnava da vivere in quel modo e i
cosiddetti normali non duravano.
Ricordò gli occhi tristi di Soleil, la bella trapezista: si era
innamorata, ricambiata, di un ragazzo, uno di quelli che venivano sotto
al tendone per vedere gli animali in gabbia e le evoluzioni degli
acrobati, in una serata in cui non c’è nulla di meglio da
fare.
Lui aveva lasciato casa e bottega per seguirla. Fra le urla di sua
madre che l’aveva inseguito fin sotto l’ingresso e che
gridava –Putain Putain!- a Soleil, con una tale rabbia che si era
spaventato persino il padrone. Poi, un bel giorno, era finita.
Lei si era alzata e lui non c’era più. Le aveva lasciato
una lettera. Soleil l’aveva letta, l’aveva stracciata e poi
era rientrata nel carro.
Soleil è incinta, è incinta…
Il circo è un piccolo mondo chiuso, e ogni donna sa tutto
dell’altra donna con cui divide il carro. E Soleil era tornata a
dormire con Madame Cici, l’ammaestratrice di cani, pettegola e
cattiva.
Clair ricordava quella mattina, aveva visto la bella trapezista uscire
dal carro. Con quegli occhi tristi e la calzamaglia da allenamento.
Poi Clair aveva capito, troppo tardi.
La rete non era tirata e Soleil volteggiava senza fune di sicurezza.
Clair ricordò che prima di provare il gran volto con il salto
mortale, malinconica, l’aveva guardata.
Non aveva mancato la presa, aveva semplicemente chiuso i pugni per non prendere la sbarra del trapezio.
Clair aveva urlato, urlato, urlato.
Il corpo di Soleil era caduto a terra con un rumore orribile. E Clair non aveva dimenticato il commento di Madame Cici.
-Mai innamorarsi di uno di fuori…di uno diverso!- E se ne era
andata, con il suo ridicolo boa di struzzo rosa e uno dei suoi
barboncini nani in braccio.
Soleil era morta con gli occhi aperti e mentre i barellieri le
coprivano il viso con un lenzuolo bianco, a Clair sembrò persino
che sorridesse.
Jules partì ai primi di settembre, prese il primo treno del mattino, alla volta di Parigi.
A Clair aveva lasciato un foglio con l’indirizzo della città e di casa sua, in Normandia
- Verrai a trovarmi?-
Clair non aveva risposto, si era solo alzata sulle punte e
l’aveva baciato. Sulle labbra il sapore salato di una lacrima che
non era sua.
Aveva guardato il treno sparire ed era tornata al suo carro:
Carcassonne le aveva fatto le feste e lei aveva acceso il fornello per
farsi da mangiare. Avrebbe lasciato Avignone il giorno dopo.
Aveva girato in lungo e in largo, verso i Pirenei, mentre
l’autunno cominciava a tingere di rosso i boschi. Faceva
spettacoli e aveva ricominciato a mettere il cerone sulla faccia. Poi
il freddo l’aveva spinta di nuovo verso il caldo, verso Marsiglia
e Nizza.
La città non le piaceva, si sentiva piccola ed insicura. E poi
non era facile trovare un posto dove mettere il carro, chiedevano
permessi che non aveva e la mandavano sempre via dalle piazze.
Arrivò dunque a Saint Gilles, in cerca della vecchia Benoit. Ma
la sua vecchia amica non c’era più, portata via
dall’età e dalla malinconia. Clair andò al cimitero
con un mazzo composto dagli ultimi fiori di campo rimasti e mentre
sistemava i fiori davanti alla lapide:
-Ho trovato quello con le stelle negli occhi, ma è uno straniero. Cosa devo fare?-
Allora il bambino che portava in grembo le diede un piccolo calcio e
Clair capì che quella era una risposta più che
sufficiente.
Puntò a nord, verso la Grande Città, un foglietto in mano con un indirizzo e il cuore pesante.
Era una strada lunghissima, a Lione quasi Chabal si era azzoppato per
colpa di un autocarro che li aveva sorpassati a tutta velocità.
Era quasi finito novembre e non era ancora arrivata a Digione e con il
freddo la gente non usciva certo in strada a vedere una ragazza che
faceva l’equilibrista.
Cominciò a lavare i piatti nelle locande in cambio di un pasto caldo per sé e per i suoi amici.
A dicembre il gelo era così pungente che dovette fermarsi. Era
stanca. Ma i padroni del ristorante era gente buona e le davano anche
qualche soldo in cambio dei piatti e delle faccende domestiche. Con
qualche piccolo spettacolo per bambini e ai matrimoni, era riuscita a
raggranellare qualche soldo in più, da mettere nella scatola.
Clair que c’est que tu fais dans la Ville Lumiere?
Mancava poco a gennaio, Clair pensò di non proseguire verso la
città. Ma ogni volta che chiudeva gli occhi, vedeva le stelle e
nelle stelle gli occhi incantati di Jules che la guardavano.
Proseguì e arrivò a Parigi. Era così grande che
non riusciva a crederci.
- Ehi tu, con il carretto? Ma dove diavolo pensi di andare?-
Il gendarme la fermò, incredulo di fronte alla ragazza, che lo
guardava sotto un poncho multicolore e al cane che aveva cominciato a
ringhiare sottovoce.
Clair prese il foglietto che Jules aveva scritto e chiese
-Scusi lei mi sa dire dove si trova Rue de Livres?-
-Ragazza! È in periferia, non qui di sicuro, ma ti rendi conto di dove sei, tu e il tuo carretto e i tuoi stracci?-.
Clair alzò gli occhi, palazzi e negozi pieni di cose che per lei
non avevano nemmeno nome, e poi si accorse degli sguardi della gente.
Commiserazione, disprezzo e qualche risata sottovoce. Ma perché?
Carcassonne non smetteva di ringhiare, un brontolio sempre più
forte, e poi sbucò con l’enorme testa nera abbaiando
all’indirizzo di chi guardava troppo la sua padrona.
-Vattene, tu il tuo carro e le tue bestie, prima che chiami il veterinario comunale…-
Clair diede l’op a Chabal e attraversò la grande piazza
con l’obelisco, senza una meta precisa, cercando di capire dove
poteva essere Jules.
Parcheggiò il carro in un punto dove il fiume lo permetteva e
dove guardando verso l’alto, riusciva a scorgere il cielo e la
luna.
La stanchezza prevalse. Clair si addormentò, un sonno senza
sogni, mentre le luci della metropoli continuavano imperterrite a
brillare.
Carcassonne si mise di guardia e Violetta si appallottolò sul grembo rotondo della sua padrona.
Voci nella notte, voci allegre, alterate appena dall’alcool e dal freddo che pizzica.
-È andata, finita…- Risate e sorrisi. Le ragazze erano
belle, con i capelli d’oro tagliati sulle spalle. Lisci e
lucenti. Eleganti nei loro cappottini attillati bordati di pelliccia.
-Certo che siamo messi proprio male se il carro di uno zingaro lo fanno parcheggiare anche qui…-
La voce era piena di fastidio, come se il carretto di Clair fosse una macchia nella perfezione della notte.
Uno dei ragazzi prese un sasso e lo tirò.
- Ma no Michel, ma non siamo mica bambini.- Il sasso rimbalzò
sul legno con un suono secco, sufficiente a svegliare Carcassonne che
cominciò ad abbaiare subito.
-Carcassonne?- Nel tono di uno dei ragazzi stupore.
- Carcassonne! - Clair si svegliò e si buttò sulle spalle il quilit della vecchia Benoit.
Il grosso cane uggiolò piano.
-Jules?- Sottovoce la voce di Clair era appena un sussurro.
Jules Doucet vide le stelle sotto forma di due occhi che lo fissavano
increduli. Ma ha paura. E le stelle si spengono, come la fiamma di una
candela sotto un bicchiere.
- Io non vi conosco, scusate signorina-
Gli occhi di Clair brillarono nella notte. Un lampo. Accecante. Come un coltello nella notte.
- Scusate voi il cane, non è cattivo…-
La notte inghiottì l’allegra compagnia e Clair.
Il tempo passa, Clair.
-Sei pronta?-
L’abito nero veste di luce una giovanissima donna. Il viso appena
truccato e le mani nervose, lunghe e sottili come quelle di un chirurgo.
-Mamma…-
-Vai e fatti onore .-
Un sorriso timido negli occhi, dietro agli occhiali leggeri. La platea
esplode quando entra, inquadrata da un unico fascio di luce che la
porta allo Steinway and Sons. L’Opera è per lei e con lei.
Étoile si siede e “Clair de Lune” di Debussy si scioglie fra le sue mani. Apre ogni concerto con quel pezzo.
Da sempre.
Un uomo, solo, piange in platea. Le stesse mani lunghe e nervose. Ascolta, mentre la musica entra nelle vene.
Uccidendolo lentamente.
Questo racconto mi è stato
ispirato dal “Clair de Lune” di Debussy e da alcuni viaggi
in Francia, nella zona delle bocche del Rodano, dove si trova la
deliziosa Saint Gilles e nella vicinissima Provenza, fiorita di lavanda
e di leggende.
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