Massacrerei il mondo intero, se solo tu mi amassi di Flora (/viewuser.php?uid=2627)
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[Premessa: Questo
racconto è stato scritto assieme a ValorosaViperaGentile
ed è la prima parte di un dittico il cui secondo episodio
– “Tu
mi amerai, come io ti ho amata” , ambientato
dieci anni dopo, nonché complementare a questo –
può essere letto qui.]
‘Massacrerei il mondo
intero, se solo tu mi amassi’
Ira furor brevi est
[Orazio]
Castrum
Carnuntum[1] – Pannonia superiore – 171 d.c.
Una bufera di
neve
ha infuriato per tutto il giorno, placando le sue urla solo in tarda
sera; le
strade dell'accampamento sono ridotte a una poltiglia di fango e acqua
disciolta, ma nei quartieri privati del praetorium[2]
i bracieri sono
accesi e l'aria è tiepida e umida dei vapori del bagno.
Commodo è
disteso nella grande tinozza di legno, immerso nell'acqua profumata
di essenze di rosa e gelsomino, la testa reclinata all'indietro a
fissare il
soffitto.
Chiude gli occhi, intento
ad ascoltare gli scricchiolii delle assi, il vento
che sibila nelle fessure tra le pietre, le grida dei soldati
all'esterno, che
ripuliscono le strade e riparano le tende divelte dal tempo inclemente
del
nord. Percepisce i movimenti di Marcia[3], indaffarata a preparare la
cena e a
riordinare i suoi abiti, ma non le presta attenzione. La mente
è troppo presa a
rivivere la scena a cui ha assistito quella mattina, e che gli si
è marchiata
nella memoria.
Riapre gli occhi e si fissa
le mani: i palmi sono segnati da ferite ancora fresche,
là dove si è piantato le unghie fino a farseli
sanguinare; serra di nuovo i
pugni, riaprendo le croste, e storce la bocca per il fastidio.
In un angolo della stanza
giacciono ancora i cocci del vaso che ha gettato per
terra in un impeto di rabbia; Marcia ha urlato quando lui l'ha
scaraventato
via, facendolo volare contro il muro – si è messa
a gridare, quella stupida, ma
non ha avuto il coraggio di chiedergli cosa l'avesse fatto adirare
così.
Probabilmente ha creduto che fosse colpa sua, pensa con un ghigno, ma
il
sorriso gli muore sulle labbra quando ricorda le vere ragioni della sua
ira.
Si volta verso Marcia, che
si è avvicinata con una coppa tra le mani; i suoi
capelli scuri sono sciolti sul pesante mantello che si è
gettata addosso quando
lui ha finito di scoparla – assomiglia a una lupa troppo
piccola e pavida per
essere presa sul serio.
Le sfila il recipiente
dalle mani per prendere un sorso di vino speziato, e
storce la bocca al sapore aspro che gli scende giù per la
gola riarsa.
"Ti avevo detto di non
annacquare il vino[4]," protesta, e sbatte la
coppa sul tavolino accanto alla vasca, spargendo il liquido
tutt'attorno.
“Quante volte devo ripeterti che questa piscia di cavallo mi
ripugna?”
La schiava non risponde, si
limita a sollevare il calice e a pulire il piano
con un panno.
Commodo l’osserva
con una smorfia di disgusto, poi esce dall’acqua e allarga le
braccia, in attesa che la ragazza lo avvolga nei teli di lino asciutti.
Mentre lei lo friziona e
gli spalma addosso il primo strato di unguento, chiude
di nuovo gli occhi e rivede la radura nascosta dagli abeti, subito
dietro la
Porta Decumana, vicino alle caserme – rivede la luce bianca
del mattino
filtrare tra i rami e riflettersi sui capelli fulvi di sua sorella, le
mani
strette in quelle dell'uomo davanti a lei, il viso abbassato, come una
pudica
vergine. Si morde le labbra fino a scavarsele: sembrava una cagna in
calore,
non certo l’immacolato fiore che tutti la credono.
Allontana Marcia con una
spinta e si infila da solo la pesante tunica di lana
che lei gli ha preparato. La schiava si riavvicina con il mantello
bordato di
pelliccia, ma lui la ferma con un gesto brusco della mano.
“Basta
così. Lasciami solo,” le ordina.
“Pulisci questo porcile e vattene.”
Marcia annuisce; sposta la
tinozza in un angolo, asciuga veloce il pavimento,
poi – a testa bassa – retrocede fino alla tenda che
separa la camera interna
dai quartieri diurni, sparendo alla sua vista.
Commodo si passa una mano
sul viso e si mette a sedere sul letto, portandosi i
palmi alla testa. L'emicrania gli ha martellato le tempie tutto il
giorno;
sperava che il bagno servisse finalmente a dargli un po' di pace, ma ha
solo
peggiorato le cose. Fa per sdraiarsi ma sente dei colpi ovattati al di
là della
tenda, poi un borbottare leggero e infine la voce di Marcia –
che gli chiede il
permesso di rientrare.
“Che cosa
c'è, ora?” abbaia, le dita ancora premute sugli
occhi. La ragazza
discosta appena le tende e, senza mostrarsi, annuncia: “Tua
sorella è qui, mio
signore. Chiede di parlarti.”
Commodo si raddrizza di
scatto, la testa che pulsa come un tamburo di guerra.
Non si aspettava una sua visita, dato che Lucilla è stata
impegnata a ignorarlo
sin da quando sono arrivati da Roma in quell'accampamento dimenticato
dagli
Dèi; è stata presa da ben altre faccende, pensa
con una smorfia, troppo
occupata a far la puttana per avere tempo per suo fratello.
“Falla entrare,”
risponde, mentre si rimette in piedi.
Lucilla fa il suo ingresso,
abbassando il cappuccio del byrrus[5].
Appare intirizzita dal freddo, ha il corpo avvolto interamente nel
mantello di
lana, che la copre sino alle ginocchia. Dal modo in cui se lo stringe
addosso
sembra sentire il gelo fin dentro le ossa; si porta una mano alla nuca
scoperta, massaggiandosi il collo reso livido dalla temperatura.
Quando Marcia si scosta,
per farla passare, le riserva un'occhiata
indifferente, come fosse un cane addetto alla guardia; prosegue a testa
alta,
fino a fermarsi davanti a lui. L’osserva in silenzio
– e pare si sia fatto
inverno anche sul suo viso, perché la tenerezza primaverile
che di solito gli
riserva sembra esser volata via, spazzata da una folata di vento
germanico.
“Fratello,”
esordisce, con un contegno degno di lei – quasi non avesse
motivo per
trovarsi nelle sue stanze a quest'ora, con il gelo che invita a stare a
letto,
sotterrarti dalle pellicce. Come fosse svestita di ogni sospetto.
“Stavi per
andare a dormire?” gli domanda.
Commodo la squadra per
qualche istante, senza dire nulla. Guarda il modo in cui
si stringe addosso il mantello, con le dita sbiancate dalla tensione,
il volto
arrossato, e sente il cuore accelerare i battiti, il disagio rendergli
le gambe
molli.
“Stavo per
coricarmi, sì,” risponde, cercando di sembrare
convincente. “Che
cosa vuoi a quest'ora, sorella?”
Lucilla sembra indecisa per
un breve istante, l'aria di chi valuta pro e contro
di una grande impresa.
Resta con gli occhi puntati
su di lui, mentre muove un poco le labbra, celando
a malapena un guizzo inquieto, e poi se le lecca con la punta della
lingua,
veloce e nervosa. “Non ti ruberò troppo tempo, te
lo prometto,” gli dice
infine, escludendo così ogni possibile rifiuto. Lo fissa
ancora e inspira col
naso, riempiendosi il petto d'aria fredda. “Hai
parlato con nostro padre,
oggi?”
Commodo si stringe nelle
spalle. “Che intendi?” risponde, solo per prendere
tempo, poi si volta e si avvicina al tavolo su cui la cena è
rimasta a
freddare. “È ovvio che ho parlato con nostro
padre, Lucilla. Gli parlo tutti i
giorni.” Si sente i suoi occhi puntati alla schiena, quasi
volesse trafiggerlo per
una tale, sfacciata dissimulazione.
“Sai bene che non
intendevo questo, Commodo,” replica lei, il ferro nella
voce; la sente avvicinarsi a passi rapidi e decisi con le sue
scarpe di
feltro inzuppate, finché non gli è affianco.
Indaga senza remora il suo viso,
alla ricerca di menzogne. “Sai di cosa parlo, non
negarlo.”
Commodo afferra la caraffa
di vino posata sul tavolo e riempie due coppe. Lo fa
lentamente, senza guardarla – sa che questo la
farà arrabbiare, ma non si sente
in colpa. Se solo lei sapesse quanto è profonda la ferita
che gli ha inferto,
ci penserebbe bene prima di presentarsi lì con il sussiego
di una matrona
ferita nell'onore.
Le porge una coppa e, nel
farlo, la guarda finalmente negli occhi. “Bevi, sorella.
Il freddo deve averti appannato la ragione, perché davvero
non capisco a cosa
tu ti riferisca.” In realtà, pare che sia il caldo
a farla agitare, perché
riesce ad avvertire il gorgoglio della lava sotto la sua faccia di
ghiaccio.
Lucilla afferra il calice,
stringendolo fino a sbiancarsi le nocche. Resta così
per un istante, poi lo getta a terra in un gesto sdegnoso.
Commodo sussulta al rumore
del metallo che urta il pavimento; abbassa lo
sguardo a osservare il vino che si sparge in una chiazza rossa e poi lo
solleva
di nuovo su di lei. La calma che ha tentato di mantenere ora se la
sente
ribollire in gola, come veleno.
“Come ti
permetti?” ringhia a bassa voce, mentre il volto adirato di
Lucilla si
sovrappone all’espressione serena che ha spiato quella
mattina – così diversa,
così inconciliabile con la furia che ora le legge negli
occhi. “Come ti
permetti di venire qui a domandare spiegazioni, quando dovrei essere io
a
chiederti conto del tuo comportamento?”
“È a
nostro padre che devo rendere conto delle mie azioni, Commodo. Tu non
sei
ancora il capofamiglia,” gli ricorda lei, perché
in fondo è solamente
un principe, che
l'imperatore non ha ancora designato come suo successore.
“Come hai potuto
tradirmi, io che ti amo e sono sangue del tuo sangue?”
prosegue fremendo, con
gli occhi increduli. Si allontana di qualche passo e si libera del
mantello,
restando in stola, col cingulum borchiato
incrociato attorno ai seni e
sul ventre. “Speravo che il tuo continuo seguirmi,
sorvegliarmi, fosse solo una
dimostrazione di affetto nei miei confronti. Speravo che qualcun
altro...”
sospira amareggiata, senza neppure terminare la frase. “E
invece, tu...” Un
verso sofferente. Poi si morde le labbra, affondando i denti nella
carne
morbida. “Sono stati i tuoi occhi a credere di assistere a
qualcosa di tanto
grave da spingerti a parlare del mio comportamento
a nostro padre? O hai
creduto alle parole di uno schiavo mandato a pedinare ogni mia mossa,
più
costante persino dell'ombra che mi appartiene? Cosa, Commodo? Temi
un'imprudenza di tua sorella, o solo la rudezza propria dei
soldati?”
Lui la fissa senza
rispondere ma ogni parola è una sferzata, se le sente
vibrare dentro, scuoterlo talmente forte che teme che lei lo veda
tremare.
Appoggia la coppa sul tavolo e chiude gli occhi, li stringe
così forte da farsi
male. “Se ti ho seguita è perché mi
preoccupo per te,” ammette, e intanto
ripensa a quel maledetto soldato, al modo in cui la guardava
– all'impulso di
strappargli gli occhi dalle orbite, per una tale impudenza.
“Ho a cuore la tua
virtù e veglio su di te, come un bravo fratello dovrebbe
fare.” Tenta ancora di
mantenere un tono ragionevole, ma l'ira cieca che l'ha avvelenato per
tutto il
giorno sta tornando, la sente risalire dalle viscere, ne sente il
sapore acido
in gola, mischiato al fiele della menzogna che tanto abilmente le sta
offrendo.
“Un misero
decurione[6] dell'esercito di nostro padre,” sibila,
riaprendo gli
occhi – e stavolta la voce è più alta,
così vicina a rompersi in un grido, “un
ispanico figlio di contadini i cui avi non erano neanche romani, che si
permette di toccare la figlia di un imperatore...” una pausa,
mentre fa un
passo avanti, coprendo la distanza che li separa. “A cui tu
lo
permetti!” E ora grida, con tutta l'aria che ha nei polmoni;
grida e si sente
gli occhi bruciare, sull'orlo del pianto. “Che altro gli hai
permesso, Lucilla?
Che altro ha avuto, da te, Massimo Decimo Meridio?”
Lei sgrana gli occhi e apre
la bocca. Battuta dalle sue grida, indietreggia di
qualche passo, senza guardare altro che i suoi occhi lucidi, andando a
sbattere
contro il letto. Ci finisce seduta sopra e subito artiglia le coperte,
mentre
lo fissa in volto. “Solamente qualche bacio innocente,
fratello...” ansima, la
voce ridotta a un soffio. “E il mio cuore,”
confessa.
Commodo avanza verso di
lei, come in una marcia di guerra. Si inginocchia e
l'afferra per le braccia – sente le dita affondare nella sua
carne delicata ma
non ci dà peso – lui, che l'ha sempre sfiorata
come fosse un fragile fiore.
“Il tuo
cuore?” domanda, il tono basso, come quello che userebbe con
un
bambino, “sei ancora giovane, sorella, e sai così
poco delle cose degli uomini.
Credi che a quel soldato interessi il tuo cuore?”
La scuote appena,
sente di nuovo gli occhi inumidirsi, ma ricaccia indietro le lacrime
con uno
sforzo di volontà. “Devo ricordarti che sei
promessa a nostro zio[7], e che lo
sposerai non appena rientreremo a Roma?” La scuote ancora,
stavolta più forte.
Odia ricordare a se stesso che presto andrà in sposa, aveva
sepolto quel
pensiero da qualche parte, come un osso marcio da lasciare agli
avvoltoi. Ha
sempre saputo che Lucilla si sarebbe maritata e ha finito per
accettarlo come
un male inevitabile. Sua sorella non ha scelto di amare Lucio Vero, le
è stato
imposto dall'alto, e in questo ha trovato una pallida consolazione. Con
quel
soldato è diverso: è un suo libero arbitrio, un
desiderio dettato dal suo cuore
– per quanto fatuo come possono esserlo i sentimenti di una
donna – e questo
lui non può accettarlo. “Credevi che potessi
tacere una cosa del genere a
nostro padre? Che lui non l'avrebbe saputo?”
“Mi fai male,
Commodo...” protesta Lucilla, sentendo i polpastrelli
affondare e
le unghie graffiare la pelle. “Credi che l'abbia
dimenticato?” gli chiede, la
voce vibrante d'incredulità, “che sia pronta a
disonorare me stessa e mio
padre? A infrangere una promessa simile? Ho a cuore il destino di Roma
e la
forza della nostra famiglia, tanto quanto te.” Tace un
attimo, il petto che si
alza e si abbassa affannoso. “Andrò a Lucio Vero
illibata e ubbidiente, come è
giusto che sia.”
“E
allora, perché?” grida lui, mentre la
stringe più forte, “perché
mettere a repentaglio la tua reputazione con un legionario, uno che non
è degno
neanche di leccare la terra su cui cammini?” Si chiede cosa
possa averle detto,
loro padre, per farla adirare così; quando è
andato da lui, quella mattina,
l'imperatore si è limitato ad ascoltarlo e poi congedarlo
con la promessa di
risolvere la questione.
Sei sempre molto
occupato a seguire ogni passo di tua sorella, gli ha
detto Marco Aurelio, e nei suoi occhi ha colto un'ombra di rimprovero;
non ha
saputo dire se fosse rivolto a lui o alla condotta di sua figlia
– e può solo
immaginare cosa si siano detti, nel privato delle sue stanze, ma non
dev’essere
stato facile per lei. Non si pente di averlo fatto, ma il rancore che
legge sul
viso di Lucilla è un artiglio straziante come quello delle
Arpie.
Abbassa la voce, fino a
ridurla a un sussurro: “Dimmi il
perché.”
“È
più facile controllare le proprie azioni, che non il
cuore...” risponde lei
piano, mentre l'aria combattiva pare rarefarsi. Il tono si fa
più lieve e lo
sguardo più infelice. “Forse un giorno lo capirai,
quando cercherai qualcosa di
più del calore di una schiava...”
Commodo abbassa la testa,
si morde le labbra fin quando non le sente diventare
insensibili. “Credi che io non sappia cosa significhi
l'amore?” mormora, la
voce un ringhio cupo che gli sale dal petto. E, assieme al ringhio,
sente
affacciarsi parole vecchie di anni, discorsi taciuti anche a se stesso,
sentimenti insabbiati come esseri deformi, soffocati ancor prima che
possano
aver visto la luce.
Alza la testa e si solleva
in piedi, le mani ancora affondate nelle sue
braccia. “Credi che anch'io non sia stato dilaniato dalle
frecce di Eros, e non
abbia dovuto bendarmi da solo le mie ferite?” urla, e la
spinge sul letto,
chinandosi sopra di lei e tenendola ferma con il suo peso. Osserva il
suo viso
confuso e la rivede da bambina, mentre lo cullava e lo carezzava prima
di addormentarsi,
o quando gli spalmava un unguento odoroso sugli sbucci che si procurava
sempre,
in conseguenza delle sue bravate. Non ricorda il volto di sua madre, e
neanche
quello delle balie che si sono avvicendate negli anni –
pallide ombre
inconsistenti, gentili solo per dovere e per paura. L'unico volto che
ricorda è
quello di Lucilla, la sua Lucilla, che l'ha amato
dal primo vagito, e
che lui ama come la cosa più cara, l'unica per cui sarebbe
disposto a morire.
O a uccidere.
Non ha il coraggio di dare
un nome a questo sentimento così sacrilego da far
rivoltare gli Dèi sui loro troni, ma il sentimento
è dentro di lui, ha
attecchito radici come una pianta venefica e dolce – nettare
e cicuta che gli
scorrono nelle vene, troppo in profondità per poter essere
eradicati.
Lucilla non risponde. Ha
gli occhi spalancati che fissano in alto – immobile,
come se una paura sottile e disgustosa le strisciasse accanto, pronto a
ghermirla nelle sue spire, prima di affondare i denti avvelenati nella
sua
carne. Sbatte piano le palpebre, in silenzio. Sembra lasciare che il
tempo
scorra fra loro, si insinui fra gli spazi troppo miseri dei corpi, uno
disteso
sull'altro.
Solo dopo muove un braccio,
ribellandosi delicatamente alla sua stretta, e lui
la lascia libera, senza dire una parola. Emette un lieve guaito di
sofferenza e
solleva una mano, per posarla sul suo capo ancora umido, inanellandosi
le dita
coi suoi ricci. “Allora soffriremo insieme, mio
amato...” sussurra infine.
Commodo sussulta quando
sente la mano di lei posarglisi sulla testa – vorrebbe
strapparsela di dosso e al contempo consumarla di baci, come fosse la
mano di
una Dea a cui votarsi. Invece rimane immobile, sull'orlo di una
voragine pronta
a inghiottirlo, a inghiottirli entrambi.
“Nessuno
è degno di te,” sussurra, mentre china la testa
sul suo petto,
affondandola nella lana morbida della sua tunica. “Io
solo sono degno di te!”
grida, rialzando il capo di scatto, gli occhi pieni di lacrime. Non
è mai stato
bravo a nascondere i suoi sentimenti – a controllare i suoi
impulsi – suo padre
l'ha sempre redarguito per questo, ricordandogli che un imperatore deve
imparare il valore della temperanza, in ogni cosa – ma per
quanto abbia tentato
non c'è mai riuscito.
Neanche ora –
soprattutto ora. E teme di aver fatto un passo di troppo, oltre
l'orlo del precipizio.
Lucilla lo guarda dritto
negli occhi. Pare a un soffio dallo sconvolgimento,
col viso congelato in un'espressione così frastornata da non
sembrare più lei.
“Non angosciarti,” sussurra però,
semplicemente, e abbassa lo sguardo, come se
non volesse più sostenere il suo. “Ho intenzione
di seguire il volere di nostro
padre, ponendo fine a questa sciocca, sterile fantasia.”
Solleva di nuovo gli
occhi. “Lasciami alzare, ora,” gli comanda, ferma
ma non priva della gentilezza
di una sorella devota.
E Commodo fa come gli dice
– la lascia andare, troppo spaventato da ciò che
le
sue labbra non hanno saputo celare, per opporre resistenza. Si alza in
piedi e
si asciuga le lacrime con la manica della tunica, sentendosi simile a
uno
schiavo che si è appena preso una cinghiata dal suo padrone.
Si aspettava grida
di disgusto dopo la sua confessione, non questa strana indifferenza,
come
avesse liquidato i suoi sentimenti come il capriccio irragionevole di
un
bambino geloso.
Sei
così infantile, Commodo, gli ha ripetuto lei
così tante volte, a
seguito delle sue molte sfuriate – quando crescerai
un poco? Nessun
altro potrebbe mai permettersi di parlargli così, e lui l'ha
sempre lasciata
fare, perché in fin dei conti è ciò
che gli ha permesso di tenersela vicina, la
sua premura una rassicurazione del suo affetto verso di lui. Ma ora si
chiede
se questa tenerezza non sia la maledizione che ha attirato su di
sé, rendendolo
incapace di apparire ai suoi occhi come un uomo, e non come un
inconcludente
fratello da consolare e accudire.
“So di avere
esagerato,” ammette a denti stretti, confermando contro ogni
volere
le sue parole. “La mia preoccupazione per te mi ha fatto dire
cose...” si
interrompe, le mani strette a pugno lungo i fianchi “...
voglio solo il meglio,
per la mia amata sorella.” E la menzogna non ha mai avuto un
sapore più amaro.
Lei è ancora sul
letto, immobile. È rimasta seduta mentre lui si asciugava le
lacrime e farfugliava. Ora si solleva in piedi, lentamente, e lo fissa.
“Io
credo che Massimo potesse essere il meglio, per il mio
cuore,” dice. È
contegnosa, ma non gli sfugge il velo di asprezza che avvolge le sue
parole.
“Ti ringrazio per le tue premure, caro fratello,”
continua dopo un istante,
come se stesse ingoiando una medicina amara. “Per vegliare
sul mio debole animo
femmineo, per essere il mio impavido guardiano.” Sembra che
stia per tirare su
col naso, sebbene gli occhi siano asciutti. Allunga una mano verso di
lui,
mostrando il palmo chiaro, le dita lunghe e sottili. “Dammi
la tua mano, così
che possiamo dimostrarci a vicenda che non esiste alcun rancore fra
noi.”
E lui si avvicina,
lentamente, sentendosi sempre più simile a un cane che
è
stato punito, e che ora va a mangiare dalla mano che l'ha battuto.
Vorrebbe
gridare, protestare – urlarle che non ha agito come un
fratello, ma come un
uomo – tuttavia il rancore che le legge sul viso,
così incongruo rispetto alle
sue parole piene di ragionevolezza, lo frenano, e lo fanno sentire un
miserabile.
Poggia la mano sulla sua,
lieve, anche se vorrebbe stringerla fino a strapparle
un grido. “Un giorno mi ringrazierai per questo,
sorella,” le dice, e la sua
voce suona estranea persino a se stesso. “Nessun rancore tra
noi, mai.”
“Ecco...”
sussurra lei, con l'aria di chi vuole convincersi di qualcosa.
Stringe le sue dita mentre esibisce un sorriso tirato, con gli angoli
della
bocca incurvati verso l'alto e le labbra chiuse, senza gioia negli
occhi.
“Adesso è tutto passato.” Porta la sua
mano alle labbra, baciandola più e più
volte, e dopo sorride ancora. “Ma non parliamo più
di Massimo,” suggerisce,
sciogliendo la faccia tesa. “È solamente
un decurione, con sangue
straniero nelle vene, proprio come tu hai detto. E da domani
capirà bene qual è
il suo posto.” Sbatte piano le palpebre.
“Promettimelo, Commodo. Vuoi?” La sua
voce ha la morbidezza del miele mentre gli carezza il viso col dorso
della mano
sinistra, quella che all'anulare indossa l'anello datole da Lucio Vero
per il
loro fidanzamento.
Commodo porta la mano alla
sua, e ricambia la carezza – poi la stringe e si
china in avanti, poggiandole un bacio su una guancia, poi sull'altra:
un gesto
di pace, che tuttavia sulle labbra brucia come un tradimento.
“Te lo
prometto,” sussurra, mentre la prende per le spalle e la
allontana,
senza lasciarla andare – non ancora. “Non parleremo
mai più di quell’uomo.” E
non sa se quel che prova è sollievo, o la vergogna di aver
seppellito un
innocente.
Un altro sorriso, di nuovo
ben poco lieto e un po' troppo breve per nascere dal
cuore – Lucilla annuisce nel mentre, e sbatte le palpebre.
“Mi prendi il
mantello, mio caro?” gli chiede, strofinandosi i palmi delle
mani. “Ho il corpo
gelato...” Sorride di nuovo, e ora sembra quasi sincera.
“Penso che farò un
lungo bagno bollente, prima di coricarmi,” aggiunge, mentre
gli occhi, per un
breve istante, scivolano alle braccia, dove prima lui l'ha stretta con
tanta
forza.
Commodo segue il suo
sguardo e serra le labbra, osservando i segni rossi che, domani,
avranno il
colore dei lividi. Si china a raccogliere il mantello e glielo
drappeggia sulle
spalle, indugiando un attimo di troppo. Credeva che non l'avrebbe
perdonato per
quel tradimento – che l'avrebbe maledetto, disconosciuto come
fratello – e
forse, nel profondo, l'aveva sperato. Sa di essere come fiele, per lei.
Sa che
l'unico modo per salvaguardarla dal suo veleno è
allontanarla da sé, farsi
detestare. E forse, il suo, era un estremo tentativo per salvarla
– l'ultimo
rigurgito di nobiltà che ha da offrirle. Il suo perdono
è ancora più amaro,
perché sa che non avrà un'altra occasione. Suo
padre, l'imperatore, ha ragione
quando lo rimprovera per la sua mancanza di moralità, ma
è troppo tardi per
essere diverso. Vi sono creature che cambiano pelle, per diventare
più forti;
altre che, nude, sono solo destinate a morire.
“Ti auguro una
buonanotte, sorella,” dice, aggiustandole il mantello sulle
spalle. “Che il tuo sonno sia sereno.”
Lucilla annuisce e poi si
volta, dirigendosi verso la tenda. Lui la guarda
mentre sposta i lembi di stoffa e sparisce dall'altra parte. Si lascia
cadere
sul letto e si prende di nuovo la testa tra le mani; ingoia un respiro
ma
sembra che l'aria gli sia stata strappata via, lasciandolo a
boccheggiare come
un pesce sul bagnasciuga.
È appena
consapevole dei passi di Marcia – rientrata nella stanza
– che si
avvicinano leggeri. Si è fermata davanti a lui, in silenzio
– per un istante
prova un impulso di gratitudine verso quella creatura silenziosa che
gli rimane
al fianco nonostante il suo carattere, i suoi scatti d'ira, l'angoscia
che lo
divora dentro, continuamente, come l'aquila tortura Prometeo, nei
secoli dei
secoli. Soffoca quel moto di tenerezza, affinché non lo
renda debole, ma
intanto la cinge con le braccia, affondando la bocca nel suo ventre e
fingendo
che il suo odore sia di qualcun altro, le sue mani tra i capelli quelle
di
qualcun altro e inghiotte di nuovo sorsate di quel dolore amaro per il
quale
non ha nome.
Note:
[1] Carnuntum era una fortezza legionaria costruita vicino al limes
danubiano, nell’odierna Austria. Marco Aurelio vi
soggiornò dal 171 al 173 d.c.
durante le guerre marcomanniche, e le fonti ricordano che la stessa
Lucilla gli
fece visita lì, sebbene accompagnata dal marito, e non dal
fratello.
[2] I Praetorium sono i quartieri vitali dei
comandanti di un castrum, a differenza dei Principia,
che sono i
quartieri strategici.
[3] Marcia è il nome di una schiava – poi liberta
–
concubina di Commodo, che presumibilmente prese parte alla congiura che
portò
alla sua morte.
[4] I romani erano soliti bere il vino allungato con
acqua.
[5] Pesante mantello di lana, dotato di cappuccio.
[6] Il decurione era il comandante di una decuria di
cavalieri dell’esercito romano – equivalente del
centurione per i reparti di
fanteria. Si sa poco o nulla del passato di Massimo prima della sua
carica di
generale, ma è logico pensare che abbia avuto una regolare
gavetta
nell’esercito, e che – a un certo punto della sua
carriera – possa aver
rivestito questa carica. Date le sue radici straniere, è
naturale dedurre che
suo padre possa essere stato un ausiliare dell’esercito
romano, ricompensato
per il suo servizio con la cittadinanza – e con un pezzo di
terra in Hispania,
la stessa terra sulle colline di Trujillo ereditata poi da Massimo.
[7] Lucio Vero – fratello adottivo di Marco Aurelio, e
co-imperatore
assieme a lui. Lucilla gli venne data in sposa quando aveva solo
tredici anni,
ma il film ha cambiato questo dato, facendola sposare molto
più in là negli
anni.
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