Name - Da postare
*\* Orbene,
chi segue il mio blog su Splinder ha già letto codesta... roba. E molti mi
hanno incoraggiata a postare anche qui, trovando il seguente elaborato
degno di nota.
ò.ò Mi chiedo il perché, sinceramente.
Io non la trovo né speciale né bella.
Solo strana.
Lo dico francamente: è un banale esperimento, volevo cercare
di fare una storia parallela. Un flash
back nel racconto, se così vogliamo dire. Nulla
di che, in effetti.
Però, è la Shot per il compleanno di Hime,
passato da
quasi un mese. Ed è anche per San Valentino, ma questo
è
un altro paio di maniche. -.-
Ebbene, eccola qui. Un po' per migliorare il pensiero delle fan girl su Kikyo,
un po' perché era da troppo che non postavo una Shot, un po'
perché mi hanno obbligata. ._.
(Nota per
chi segue The bothering
life of forced writer: ebbene, ho creato un
forum dedicato a BL.
Il link è questo * http://botheringlife.forumfree.net *, e
sarei
davvero felice se voi veniste a farci una passeggiata. ^^ Ho
già inserito spoiler sulla storia, informazioni su miei
altri
lavori, e un angolo dedicato ai lettori. ^^ C'è anche la
sezione
sclero, per di più! ù.ù
Ovviamente, anche se non avete letto la storia, siete i benvenuti -
siamo già un paio di persone, e abbiamo creato anche il
gruppo "ARGH!!! KAGOME E'
PAZZA!!! O____O" e quello "Pro Spiriti".
ù.ù Per di più, ci sono i disegni di
Aryuna e tanto altro: cosa aspettate? XD
Ovviamente, metterò informazioni più approfondite
sul prossimo capitolo della storia. XD)
A voi l'ardua sentenza: questa cosa
fa schifo come temo?
Fatemelo sapere!
*/*
A Hime. Perché il suo
compleanno è passato, ma la Shot resta comunque per lei.
A Elisa. Perché se non me l'avesse detto lei, che dovevo
postarla, non l'avrei di certo fatto.
E a tutti quelli che passano per il mio forum e mi lasciano un
salutino. Fa sempre piacere. XD
Name
[Chiamami
con il mio nome]
Si era seduto.
Come sempre.
E aveva afferrato le sigarette.
Come sempre.
Probabilmente, se avesse potuto, avrebbe anche
sospirato. Ma non poteva, perché non era da uomo,
sospirare.
E quello che non era da uomo
non andava fatto, perché era ridicolo. E quello che era
ridicolo non era adatto a lui.
“Io…”.
“Dovresti
ridarmi le chiavi di casa”.
“È
ridicolo!”.
“Non
è ridicolo. È ovvio”.
Il potatile.
Gli appunti.
Le cause.
I libri.
Era
tutto inutile.
Aveva voglia di chiudere il libro, richiamare quel
cliente fastidioso ed intimargli di cercarsi un altro avvocato
sottopagato. E poi andare in camera sua, in quel letto – che sapeva ancora di lei – e
addormentarsi abbracciato al cuscino.
Ma non poteva.
Perché essere deboli – così deboli – non
era da uomo.
E lui non poteva fare cose ridicole.
“Cerca
di ragionare!”.
“Ci
ho pensato, Inu-Yasha. Ci ho pensato ore. E giorni. E mesi. Da quant’è che non mi chiami
per nome?”.
“È
ininfluente”.
“Lo
dici tu. Questo lo dici tu,
Inu-Yasha”.
Si passò, vagamente infastidito, una
mano tra i capelli argentei, cercando di distrarsi.
Essere lasciato era stato doloroso.
Non quanto si aspettava, certo, ma pur sempre doloroso.
Perché gli uomini non si fanno lasciare.
Gli uomini lasciano, e le donne
piangono.
Almeno, così gli era sempre stato detto.
“Altro?”.
“Da
quant’è che non mi chiami per nome?”.
“Le
relazioni non si basano sui nomi”.
“Sì,
invece. Chiamare il proprio compagno con il suo nome è
sinonimo di fiducia. Ma, probabilmente, questa fiducia tu non
l’hai mai avuta. Non verso di me”.
“È
un addio?”.
“Sì”.
Gli doleva lo stomaco – la fame era una bastarda. Una subdola, infida bastarda che ti attacca nei momenti
peggiori, costringendo la tua pancia a brontolare. E il tuo orgoglio a
farsi un giro alle Hawaii.
Farsi preparare qualcosa dalla governante era fuori
discussione. L’aveva congedata un’ora prima,
sottolineando che non aveva fame.
Richiamarla sarebbe stato un atto profondamente vergognoso, per lui.
Chiamare un ristorante era ridicolo. Non aveva
voglia di attendere ore ed ore un
piatto elaborato di dubbio gusto, per cui gli avrebbero richiesto una
cifra a dir poco abnorme.
Una pizzeria…?
Sebbene ridicolo, sarebbe stato originale.
Quantomeno per lui, abituato ad una routine noiosa e continua.
“Cosa
c’è di sbagliato in me?”.
“Cosa…?
Inu-Yasha, la tua vita è piatta!”.
“Non
è vero”.
“No?
Quand’è l’ultima volta che hai mangiato
una pizza?”.
“A
sei anni, per la festa di compleanno di un mio compagno di classe. Un
tale Koga, che spero sia morto sotto qualche ponte”.
“Sei
diventato pesante. L’Inu-Yasha che ho conosciuto io, dieci
anni fa, non era così”.
“Nella
vita si cambia”.
“Tu
sei cambiato in peggio”.
“Pronto?”, gracchiò
una voce euforica dall’altro lato della cornetta.
“Qui è la pizzeria Houshi. Parla Miroku, il
titolare”.
“Salve”, mormorò
infastidito, poggiando la schiena contro la parete da poco ridipinta e
impegnandosi per riordinare – vanamente
– le idee.
“Ha bisogno di qualcosa?”.
Sbuffò. “Sì. Una
pizza”.
“Ah”. La voce si sciolse in una
risata genuina. “Beh, perché non l’ha
detto subito?”.
Strinse la mano destra a pugno, pregando i Kami di
dargli la forza di non spaccargli la faccia così
in fretta. Era solo una voce, cazzo!,
irritarsi non era normale!
“Che tipo di pizza vuole?”.
“Non lo so”,
commentò infastidito. “Faccia lei. Mi basta sapere
che giungerà a casa mia in poco”.
“In venti minuti, o la pizza ve la
regaliamo noi!”, ripeté – forse per la
centesima volta in tutta la serata – la voce, compiaciuta.
“Qualche
altra domanda?”.
“Sì”.
“Dimmi”.
“Un
fattorino è mai arrivato a casa tua?”.
“In
che senso?”.
“Ti
sei mai fidato di un estraneo a tal punto da dargli il tuo
indirizzo?”.
“In
Giappone le strade non hanno un nome”.
“In
questo momento siamo in America, Inu-Yasha. E non hai dato il tuo
indirizzo neppure a tuo fratello”.
“Allora. Il recapito me l’ha
dato, la pizza la stiamo preparando. Credo sia tutto”.
“Sì”,
asserì lui, pronto ad riporre la cornetta e sedersi
– come sempre
– alla scrivania.
“Le manderò
Higurashi”.
“Non mi importa”.
La voce – Miroku?
– ridacchiò, allegra. “Credo che le
importerà, invece. Nessuno resta indifferente, quando
c’è Higurashi!”.
“Arrivederci”.
“Altro
da chiedermi?”.
“Quand’è
che sei divenuto così apatico?”.
“Non
sono apatico”.
“Sei
la brutta copia di tuo fratello, Inu-Yasha!”.
“Non
somiglio assolutamente a
Sesshomaru”.
“Non
ne sarei così sicura”.
Si gettò a peso morto sul divano,
indeciso sul da farsi.
Quando – e se
– questo fantomatico – o fantomatica?
– Higurashi fosse arrivato – o arrivata?
–, che avrebbe dovuto fare?
Aprire?
Prendere quella disgustosa pizza, pagare, abbozzare
un sorriso infastidito e mangiarla nervosamente, magari sporcandosi
l’intera camicia?
E perché quel tale Miroku gli aveva
garantito che non sarebbe rimasto indifferente a Higurashi?
“Ehm…”.
“Da
quando le novità hanno iniziato a farti venire crisi
d’ansia?”.
“Non
ho crisi d’ansia!”.
“Oh,
sì, invece. Quando hai scoperto che tuo fratello aveva
deciso di sposarsi, hai avuto un attacco di panico. Sei stato
ricoverato in ospedale, ricordi?”.
“Ero
stressato”.
“Lo
stress non c’entrava nulla”.
Respirò profondamente, afferrando il
telecomando del suo nuovo televisore – un plasma mai
utilizzato – e pigiando un tasto a caso. La sigla di apertura
di un anime lo colse impreparato, e grugnì, irritato.
Dopotutto, avrebbe dovuto aspettarselo: un motivo
doveva pur esserci, se il Giappone era considerato la patria dei cartoni animati.
Osservò con fare critico la protagonista
femminile – poco graziosa e dotata di orribili capelli
bluastri – combattere con il suo improponibile fidanzato dai
capelli nerastri.
Annoiato.
“Siamo
stati bene insieme, però”.
“Il
passato è sempre piacevole, per chi non l’ha
vissuto”.
“Il campanello”,
sibilò irritato, gettando di lato il telecomando ed
alzandosi.
Doveva trattarsi della sua pizza. E di Higurashi.
Camminò scalzo sino
all’ingresso, rendendosi conto solo infine del suo
abbigliamento particolare: il
pantalone sformato di una vecchia tuta consunta. E una canottiera.
Punto.
Sembrava uscito da un telefilm americano. Uno di
quelli che tanto vengono apprezzati dagli adolescenti stupidi di tutto
il mondo.
“Salve”, grugnì,
mentre apriva la porta.
“Hai
ancora una domanda?”.
“Sì.
Da quand’è che non ti ecciti guardando una
donna?”.
Higurashi era una ragazza.
Una bella
ragazza.
La voce aveva ragione, era impossibile restare
impassibili, innanzi a lei.
Non molto alta, in primis. Era quantomeno quindici
centimetri più bassa di lui, anche indossando un paio di
stivali dotati di tacco.
I capelli erano neri, ondulati, e gli occhi grandi,
di una calda colorazione marrone.
La pelle era così
pallida da contrastare – piacevolmente
– con i capelli, e le labbra erano rosse, ben fatte.
I suoi tratti somatici non erano particolari, ma
catalizzavano l’attenzione altrui.
E sorrideva.
Contenta.
“La tua pizza”,
ridacchiò, allungandogli un cartone bianco. “Credo
di non essere arrivata in orario, però. Sono partita alle
otto e quarantacinque, e ora sono le… nove e
venti”. Inclinò il capo di lato, osservandolo.
“Purtroppo, il mio scooter si è guastato. Mi
dispiace”.
“Me lo aspettavo, sai?”.
“Da
quand’è che non dai del tu a qualcuno che non conosci?”.
“Mi dispiace comunque. Anche
perché Miroku-sama mi aveva già detto di non
farti pagare la pizza, e io ci ho messo così
tanto tempo da farla divenire fredda”. Sospirò,
mordendosi il labbro inferiore. “Se vuoi te la
riscaldo”.
“Non ce n’è
bisogno”.
“Da
quand’è che una donna non ti prepara il
pranzo?”.
“Ma io lo faccio volentieri. Dopotutto,
ho appena terminato il mio turno”.
Lo spinse appena di lato, mettendo – distrattamente – piede
nell’appartamento, a passo spedito.
Sembrava adatta
a quell’ambiente. La sua espressione contenta si combinava
perfettamente ai mobili, e i suoi occhi nocciola erano della stessa
tonalità delle porte.
Quando notò
il televisore acceso, lanciò un piccolo urlo di gioia.
“Oh. Posso?”, chiese, sedendosi sul divano ed
allungando le mani sino a prendere il telecomando.
Lui sospirò.
“Fa’ come vuoi”.
“Io
non sono la donna giusta per te, Inu-Yasha. Siamo stati bene, ma non
sono la donna giusta per te”.
“Ma…”.
“Sono
sicura che la troverai, Inu-Yasha”.
“Troverò
chi?”.
“La
donna che ti farà sorridere. Che si farà chiamare
per nome, e che ti spingerà a comprare una pizza. La donna
che otterrà la tua fiducia, che ti farà parlare
del più e del meno come se nulla fosse e che ti
preparerà il pranzo”.
“Quella
donna eri tu”.
“Non
è vero, e lo sai. La troverai. Me lo sento”.
“Ehi, mocciosa, come ti
chiami?”.
Lei gli sorrise, facendogli cenno di raggiungerla.
“Kagome. Er, Kagome Higurashi”. Asserì
distrattamente con il capo, armeggiando con i tasti. “E
tu?”.
“Inu-Yasha”,
ridacchiò, togliendole il telecomando di mano e cambiando
lui canale. “Mi chiamo Inu-Yasha, Kagome”.
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