Frammenti
Rating:Verde
Categoria:Originali
Warning:
One-shot, angst, drammatico,
introspettivo.
Quella
di Saint Andrew è una piccola
stazione ferroviaria sperduta nel Colorado, i binari sono due e, probabilmente, dato il
continuo spopolamento
demografico della zona, non aumenteranno mai.
Qui
da noi la gente difficilmente
arriva, solitamente se ne va o torna per brevi periodi. Per le feste di
Natale,
per i funerali.
Pochi,
soprattutto della mia età, sono
quelli che si accontentano di ciò che può
offrire, e alla fine prendono il volo
per più allettanti futuri e orizzonti.
Alzando
leggermente la visiera del
cappello in lana rosa chiaro, torno impulsivamente a fissare il
tabellone posto
alla sinistra del secondo binario.
Il
diretto da Washington è in ritardo
di ormai venti minuti.
Inconsciamente
sospiro di
sollievo. Il destino forse mi sta regalando
qualche prezioso momento in più per calibrare il respiro e
rendere lucida la
mente.
In
fondo però di tempo ne ho avuto. Interi anni.
Mi
getto, letteralmente, a sedere
nuovamente sulla panchina di ferro battuto che sta sulla banchina che
separa i
due binari. Con un gesto della testa saluto svogliata il signor Bayle,
un
ottantenne con sigaro in bocca che ricorda uno di quei vecchi
personaggi dei
film western. Mi guarda di sottecchi probabilmente per leggere
esitazioni,
batticuori. Anche lui, come probabilmente tutto Saint Andrew, sa perché sono
qui.
Mia
zia Camille non è mai stata una
donna discreta e riservata. Ricorda, piuttosto, uno di quegli angeli
del
focolare con corna e coda nel salotto delle comari.
Mentre
mi interrogo su cosa nel mio
sguardo e nella mia fronte leggermente corrugata Mr. Bayle stia
cercando, mi
chiedo cosa davvero io mi aspetto.
Guardo
ancora il tabellone. I numeri
analogici di un irritante giallo mi indicano un ulteriore ritardo.
Tre
quarti d’ora ancora di agonia.
Osservo
il tabellone e mi aspetto quasi
che possa risolvere i miei problemi, le mie paure.
Sta
tornando.
Non
è qualcosa che so perché semplicemente
la sua voce me l’ha suggerito al telefono, lo sento sulla
pelle, nello stomaco contratto,
nel respiro pesante.
Le
mani pallide si muovono
distendendosi e chiudendosi in pugno sul jeans scolorito che fascia le
mie
gambe, senza che quasi io me ne accorga.
Al
centro della stanza c’era un albero, enorme,
l’abete più
bello che papà fosse riuscito a trovare.
La
zia rideva, mentre raccoglieva da terra le ultime palline
che nella scelta meticolosa avevo tirato fuori dagli scatoloni, senza
poi
utilizzarle.
Con
le mani tremolanti fissai sulla cima il puntale a forma
di stella.
Tutto
doveva essere perfetto. Tutto doveva essere elegante.
Tutto doveva essere delicato.
Perché
lei era così e tutto doveva essere come lei.
Solo
così le sarebbe piaciuto.
Solo
così io le sarei piaciuta.
Due
giorni soltanto sono bastati a
mettere sottosopra il mondo che due volte mi sono dovuta ricostruire
dopo un
disastro.
L’ultima
volta ho impiegato quasi un
anno, prima di realizzare che lasciarsi morire d’inerzia non
aveva senso e
scopo.
La
prima … beh per quella ci ho messa
buona volontà durante l’infanzia, da adolescente,
ma ancora non l’ho risolta.
Quanto
meno questa è la conclusione a
cui sono arrivata due giorni fa.
Hortensia
Lilian Henderson è il nome
complesso e importante di mia madre.
L’ho
conosciuta attraverso le mezze
punte, attraverso foto sfocate e amatoriali di nuvole fatte di tulle e
raso
scintillante.
L’
ho sentita ridere, cantare,
attraverso gli occhi accesi di mio padre quando mi raccontava dei suoi
spettacoli di danza.
Sul
palco nel retro della parrocchia di
Saint Andrew, del liceo della vicina cittadina.
Solo
una volta ho sbirciato la sua
immagine attraverso lo schermo catodico della televisione del salotto.
Hortensia
Lilian Henderson, mia madre, non
poteva accontentarsi di quel mondo troppo piccolo.
E’sparita
quando avevo tre anni.
Non
è più tornata.
La
voce apatica e metallica di un
altoparlante, annuncia disguidi sulla linea ferroviaria della capitale.
A
quanto pare, un albero caduto in
mezzo ai binari prolungherà ulteriormente il mio stato
vegetativo oscillante
nel limbo dei ricordi.
La
sua voce al telefono era quasi un
sussurro, molto aggraziata.
Col
fiato sospeso mi sono nutrita
avidamente di ogni sua parola, di ogni tonalità:
più bassa, più alta,
soffocata, lamentosa.
Mi
sono aggrappata a quella cornetta,
come se rappresentasse il limite di un mondo a cui fino a quel momento
non
avevo avuto accesso.
Sembravo
un’assetata in cerca delle
gocce misere sul fondo del bicchiere.
Avrei
dovuto essere arrabbiata,
scostante, fredda. Cattiva, quasi.
Era
sparita, senza una spiegazione.
Non
ha chiesto come sto, se sono felice. Se mi è mancata.
Invece…
Era
tardi. E le brave bambine vanno a letto presto, papà lo
diceva sempre.
Sgattaiolai
veloce dietro la porta socchiusa della cucina.
La
zia Camille stava battendo con forza la mano sul tavolo,
mentre papà la pregava, premendo l’indice sulle
labbra, di non urlare.
Aveva
paura che io mi svegliassi.
-Come
osa!Dopo tutti questi anni!-
E’
tornata una sola volta, avevo più o
meno otto anni. Tuttavia non la vidi neanche allora.
Credo
avesse chiesto a papà di tornare
insieme, ma probabilmente i suoi propositi non erano durati
più di una
settimana, e papà non le aveva permesso di apparire in modo
fuggiasco nella mia
vita.
Nonostante
tutto, credo che gliene sarà
sempre grata. Non avrei retto al secondo abbandono.
Sedersi
in prima elementare e sentire i
bisbigli delle mamme in fondo all’aula, non è
confortante.
Soprattutto
se fino a sei anni sei convinta
che avere la mamma ballerina costretta a stare lontana non sia colpa
tua e
scoprire che è grave, una colpa, che tua madre se ne sia
andata, non è il
massimo.
Mio
padre me ne parlò con sincerità,
non decise mai di mentirmi.
-Isabel?
La
voce al telefono suonava lontana.
Rimasi
in silenzio.
-Tom
è in casa?
Niente
“ciao, scusa sono stata rapita dagli alieni e non
sono più tornata a casa quel Natale”.
-Papà?-
-Vorrei
venire a trovarlo…uno di questi giorni, se non è
un
problema. Sarai cresciuta tantissimo dall’ultima foto che mi
ha mandato a Lincoln-
rise leggera.
Mio
padre gli spediva le mie foto. Non
me ne aveva mai accennato.
Io
non ricordo il volto di mia madre.
Mamma
ha abitato a Lincoln, Nebraska.
Sono
solo poche ore di treno da qui.
Le
ho mentito.
Un
anno fa in pochi istanti un infarto
si è portato via papà. L’unica famiglia
che ho avuto a parte mia zia Camille.
Lui
è morto, se n’è andato per sempre.
Lui
però non lo ha scelto.
Non
l’ho detto questo ad Hortensia
quando ha telefonato.
Chiamarla
madre nello stesso frangente
in cui penso a mio padre, mi risulta offensivo alla sua memoria di
genitore
affettuoso.
E’
passato un anno, mi sono leccata
sommessamente le ferite, l’ultima di un serie.
Adesso
sono qui, accucciata su una
panchina in ferro battuto.
Mi
sembra di avere otto anni, quando
trotterellavo giocosa attorno al divano, aspettando di sentire suonare
il
campanello all’ingresso quella Vigilia di Natale.
Non
sono più una donna, Isabel
Henderson, la maestra compita delle elementari di Saint Andrew.
Sono
Bel, bimba sperduta aggrappata a
ricordi e speranze.
“Si
annuncia alla gentile utenza che il treno diretto da Washington
è in arrivo al
binario due. E’ vietato attraversare la linea
gialla.”
La
voce mi attraversa come una folgore,
mi squarcia. Salto in piedi come punta da una cascata di spilli.
Il
treno arriva in un fastidioso fischio
metallico. Veloce.
Stride
ruggente sui binari e mi
attraversa ogni singola cellula. Reprimo un sospiro e inizio ad
inquadrare i
primi passeggeri che scendono sulla banchina isolata.
Il
ferroviere aiuta un’anziana a
scendere e a tirare giù i propri bagagli. Con tono quasi
velenoso, mi trovo a
pensare che potrebbe anche essere un tantino più veloce!
Una
donna si guarda attorno
disorientata, si stringe nel cappotto grigio polvere, poi sorride e
inizia a
correre.
In
un attimo vola tra le braccia del
fidanzato, George il figlio della direttrice tornato anche lui per le
vacanze
di Pasqua ormai prossime.
La
folla si dirada, gli schiamazzi di
nipoti capricciosi cessano.
Chino
il capo e volto le spalle.
Persino
Mr. Bayle se n’è tornato a
casa.
Il
puntale a stella sta lì. Rotto.
In
mille pezzi colorati sul parquet.
|