Prologo
Un
diario per cominciare
Quando
mi hanno regalato questo diario per il mio dodicesimo compleanno, non
credevo che mi sarebbe stato tanto utile. Credevo che sarebbe rimasto
intonso come quando l'ho scartato. E, invece, eccomi qui a scrivervi
sopra e a raccontare la mia (strana) vita.
Mi
chiamo Ken Iccijojji, vivo a Tokyo con i miei genitori, Videl e
Gohan, e con mia sorella maggiore, Pan.
Cosa
c'è da dire su di loro? Bah, un sacco di cose...
Forse
dovrei partire col dire che nella famiglia di mio padre, da secoli,
si insegnano e si conoscono tutte le arti marziali.
Mio
nonno, Goku Iccijojji*,
è il migliore del mondo. Ha sempre tentato di far avvicinare
mio padre alla sua passione, ma non ci è mai riuscito: papà
ha, penso da sempre, una passione sviscerata per tutto quello che è
musica e adora il Va’
Pensiero
di Verdi, tanto che quando compone lo ascolta e riascolta senza
fermarsi mai.
In
famiglia detestiamo questo suo pallino: è fastidioso avere a
che fare con la stessa solfa per tutta la giornata (tranne quando
mangiamo, ma questo è stato un compromesso con la mamma che
aveva minacciato il divorzio). E non possiamo nemmeno convincerlo ad
ascoltarla in cuffia, perché poi dice che interrompiamo il suo
flusso creativo.
«Secondo
me,» ha detto Pan una volta che ci eravamo rotti le scatole
tutti quanti. «ha bisogno di farsi vedere da uno bravo.»
«Oh,
Pan!» l'ha rimproverata la mamma. «Non posso mica
portarcelo di peso!»
«Sarebbe
un'idea niente male...»
«E
poi chi la sente tua nonna?»
Già,
nonna Kiki. Nonna Kiki è tutto l'opposto del nonno che è
molto comprensivo e cordiale. Lei è ambiziosa e indisponente.
E anche un po' isterica.
Non
è mai stata molto felice di avere un figlio musicista (ha
sempre sognato che il suo primogenito diventasse uno studioso o un
letterato). Nei primi tempi in cui papà si è chiuso in
conservatorio, non gli ha mai parlato e ha fatto finta di non avere
un figlio.
«Non
credo» ha detto una volta la mamma. «che tua nonna gli
parlerebbe ancora, se nessuno suonasse la roba di vostro padre, io ve
lo dico sinceramente.»
«Ma
non credo...» avevo tentato di dire, ma mia sorella mi ha
sbranato (a parole).
«Certo.»
ha risposto, inviperita. «Ecco il buonista della situazione!»
«Che
vuol dire buonista?»
Nessuno
mi ha risposto e sto ancora col dubbio.
Il
nonno, invece, è stato molto meno scontroso della nonna e ha
preso la cosa con filosofia. Così non è stato papà
ad aver sfondato come lottatore, ma zio Goten sì. Adesso vive
in una villa con piscina che non è niente male e si gode tutti
i suoi soldi.
I
nonni vivono in campagna, in un posto dimenticato da Dio: i monti
Paoz. Al contrario di ogni aspettativa, riescono a venire a trovarci
una volta l'anno, solitamente per le feste, con grande disappunto di
mia madre: non è contenta in nessuna di queste occasioni,
perché con nonna Kiki si trova male; litigano sempre per via
della casa, dei figli, del marito... insomma, per tutto ciò
che riguarda la vita casalinga.
Non
sarebbe male se non urlassero come pazze scatenate! Alla fine è
normale che io e mia sorella prendiamo le loro brutte abitudini e
diventiamo isterici come loro.
Ma
non è ancora finita. Perché questi sono solo i parenti
di papà!
Ho
anche un altro nonno, il papà di mamma (la nonna è
morta prima che io nascessi): è il “famoso” combattente di
arti marziali Al Satan. In realtà è un fallito, ma
nessuno, nemmeno la mamma, glielo fa notare, soprattutto quando si
mette a elucubrare, dicendo di essere un grande.
Papà
non litiga mai con lui, anzi: si ignorano a vicenda.
Ma
anche per questo c'è un motivo: papà e mamma si sono
conosciuti alle superiori ed è stato amore a prima vista. Solo
che nonno Satan non è mai molto convinto del loro matrimonio,
perché papà voleva fare il musicista e il compositore e
il nonno è convinto che nella vita bisogna sapersi difendere.
Per
evitare che sua figlia vivesse nella paura, ha tirato su Pan a forza
di pugni e cazzotti, anche se papà voleva fargli notare che
non tutti quelli che tengono famiglia sono cintura nera.
Niente
da dire, non c'è mai riuscito.
Pan,
però, ha imparato bene la filosofia del nonno, tanto che,
all’età di sei anni, era già cintura nera con la
forza di un lottatore di sumo sovrappeso.
Io,
al contrario suo, non sono mai stato portato per la lotta: la prima
volta che ho provato ad avvicinarmi a questa disciplina mi sono
spaccato il naso e un braccio, tutto merito dell'“entusiasmo”,
come disse il nonno, della mia sorellona.
«Papà!»
mi ricordo che la mamma ha gridato, portandomi via dalla mischia.
«Che cavolo fai? Kenny è troppo delicato per queste
cose! Sei impazzito a fargli fare questi giochi pericolosi?»
Io
mi trovavo pienamente d'accordo, ma questo ha decretato la fine dei
miei rapporti, non solo con il nonno, ma anche con mia sorella.
Mi
sono dimenticato di dire che il nonno, povero in canna, si è
sistemato in pianta stabile a casa nostra.
Mia
sorella Pan è il tipo più strano di sorella che si
possa pensare: odia la scuola e lo studio e dice che tutte le materie
sono inutili e uguali, tranne l'educazione fisica.
Anche
se è stata bocciata una volta ed è finita nella mia
classe, la sua voglia di studiare è ridotta a zero. La mamma,
quando ha visto i quadri, ha scoperto la cosa ed è andata dai
professori a dire che non avevano mai capito Pan e che erano stati
ingiusti con lei.
Il
bello è stato che mia sorella stessa aveva ammesso di non aver
mai fatto «un cazzo».
Questa
è la mia famiglia.
Rileggendo
queste poche righe, mi vien da pensare che siamo parecchio strani.
Ma
ora passiamo al racconto che volevo fare da che ho aperto queste
pagine, che è cominciato non più tardi di due giorni fa: era
l’ultimo giorno di scuola e quasi tutti erano in cortile a giocare,
tranne la mia classe perché stavamo svolgendo dei questionari
che ci servivano per capire quali scuole medie erano più
adatte a noi.
I
test sono sempre difficili ed è quasi impossibile sperare di
passarli con una bassa preparazione. Purtroppo non sono mai stato una
cima (soprattutto in matematica e scienze) e mi sono trovato
malissimo. Pan, invece, non ha fatto neanche un commento,
liquidandomi con il più classico: «Non me ne frega un
cazzo della scuola.»
Insomma,
due giorni fa ero a scuola, al mio banco in terzultima fila, al
centro della classe, e segnavo crocette quasi a caso, spaventato dal
giudizio e dallo sguardo del professor Kagetano.
Lui
sembra sapere quando non sai niente e ti passa vicino più e
più volte, a metterti ansia. Deve avere qualche dote naturale.
Il
mio compagno di banco, al contrario mio, è stato velocissimo e
ha consegnato il tutto dopo dieci minuti, beccandosi le sue lodi.
Ricordo
di aver cercato di guardare sul foglio in mano al professore, ma lui
accorgendosene, l'ha nascosto sotto l'ascella, impedendomi di
copiare.
Così,
assolutamente incapace di svolgere il test, mi sono girato a
guardarmi intorno e ho visto Pan, due posti davanti a me, vicino alla
finestra.
Non
stava facendo niente nemmeno lei, o meglio, qualcosa la faceva, ma
non era il compito: lanciava e riprendeva una pallina di carta, con
l'aria concentrata di chi sta facendo un esperimento di grande
rilevanza scientifica.
«Ma
bene, Iccijojji!» ha esclamato il professore, acido, facendomi
sussultare. Ma non parlava con me, bensì con Pan. «Dov'è
il tuo compito?»
Pan
lo ha guardato, incuriosita. «Che?» ha chiesto.
Il
professore ha battuto la mano sul suo banco due o tre volte e il
resto della classe, incuriosito, ha alzato lo sguardo su di loro.
«Il
compito!» ha ripetuto Kagetano, in un ringhio.
«Eccolo!»
Pan ha riafferrato per l'ultima volta la pallina e gliel'ha
allungata. Non potevo vedere la sua faccia, ma dal sorriso sornione
apparso sulla bocca di mia sorella riuscivo a pensare ad una faccia
sconvolta.
Ho
cominciato a tremare di paura, quando mia sorella si è alzata
senza permesso.
Non
so se è chiaro il tipo di persona che è il professor
Kagetano: un omaccione alto quasi due metri, con spalle larghe uno e
una stazza da lottatore di sumo... faccio ben immaginare.
Non
consiglierei a nessuno di farlo arrabbiare perché è in
grado di lanciare certe urla rilevabili dai sismografi.
Ed
è anche in grado di dare punizioni che sfiorano l'assurdo...
l'ultima volta ha chiesto a un mio compagno di pulire lo sporco di
vernice a terra con l'aiuto di un pennarello, per fargli capire (così
disse) cos'era la vera fatica, perché lui, non studiando, dava
molto da fare ai professori.
«Dove
stai andando, Iccijojji?» ha chiesto, quando Pan lo ha
aggirato, ringhiando come un animale rabbioso.
«Fuori!»
ha risposto Pan, con estrema tranquillità, come se la domanda
fosse stata del tutto fuori luogo.
«Mettiti
subito a sedere!» ha ordinato Kagetano, alzando la voce e
portandola ad una tonalità che avrebbe potuto rompere la
barriera del suono.
«Non
ci penso proprio!»
Ricordo
che la penna mi tremava in mano e, in tutta la classe, non si sentiva
volare una sola mosca. Il fiato di tutti era sospeso, perfino quello
del mio compagno di banco, che mi ha lanciato, ricambiato,
un'occhiata preoccupata.
«Dici
che... adesso urla?» mi ha chiesto.
«Non
dirlo!» gli ho risposto, spaventato, portandomi le mani ai lati
della testa.
«AL
SUO POSTO!» ha gridato il professore, facendo tremare i muri.
Tutti, a quel punto, siamo balzati sotto al banco. Ma Pan si era
avvicinata ancora di più alla porta, senza preoccuparsi di
niente.
Ancora
tremando e con le mani sulla testa, guardavo le uniche due paia di
piedi che non erano nascoste dai miei compagni sotto i banchi, piedi
che si muovevano verso la porta.
«FERMATI
SUBITO, PICCOLA PESTE!»
«IL
TERREMOTO!» ho gridato, pieno di terrore.
«Non
credo che sia il terremoto!» ha detto il mio compagno, ma anche
lui con la testa sotto il banco e il volto contratto in una smorfia
di paura incontrollabile. «Voglio la mamma!»
Pan,
intanto, aveva aperto la porta della classe, ma, a discapito di tutte
le mie speranze, Kagetano si è gettato su di lei e l'ha
strattonata verso l'interno.
Lei
si è divincolata, ha urlato come una pazza e, dopo una breve
colluttazione, lo ha preso di peso per il colletto della camicia e
per la cintura dei pantaloni. L’ha lanciato sulla cattedra, come si
potrebbe fare con una bambola. Il professore ha battuto la testa
nello spigolo e non si è più mosso.
L'urlo
da sotto i banchi è stato ben udibile, penso, anche da
Pechino.
«E'
morto!» ha gridato qualcuno.
Una
professoressa, sentendo il catafascio della cattedra che si spaccava
in due, è arrivata di corsa, cercando di ristabilire l'ordine
e la calma. Pan era sparita.
Ci
abbiamo messo un po' a rialzarci, tutti quanti. Alcuni piangevano,
altri tremavano ancora. Io e il mio compagno ci stringevamo la mano
come i primi anni, quando ancora dovevamo uscire a coppie di due e
mano nella mano.
E,
alzandoci, abbiamo visto il terribile spettacolo provocato da Pan: il
povero Kagetano accasciato accanto alla cattedra spezzata e un rivolo
di sangue che gli colava dalla fronte.
Quel
pover’uomo è stato portato in infermeria dall'infermiere e
dal professore di educazione fisica, mentre la professoressa che ci
aveva calmati, rimaneva a sorvegliarci, ma ha fatto una fatica
madornale per rimetterci tutti a posto.
«Chi
è stato?»
Tutti
abbiamo abbassato la testa. Io e il mio compagno di banco ci siamo
lasciati andare e nessuno dei due osava guardare noi o gli altri.
«Insomma,
come ha fatto Kagetano a ridursi in quel modo?» continuava la
professoressa.
«E'
stata Pan Iccijojji.» è stata la risposta stridula di
una mia compagna a primo banco. «L'ha fatto lei...»
«E
dov'è adesso?»
«Non
lo so...»
Ed
effettivamente non lo sapeva nessuno. La professoressa ha mandato due
di noi a cercarla.
L'ho
trovata io, all'ora di uscita, appoggiata al muro di cinta della
scuola, con il walkman alle orecchie, tranquilla e allegra come non
la vedevo da tempo.
«Non
andiamo a vedere come sta il professore?» le ho chiesto,
titubante.
«Ma
anche no!» ha risposto, come se avessi detto una grandissima
scemenza. «Andiamo, invece di sparare stronzate senza motivo!»
«E
se fosse morto?»
«Che
palle!» ha detto. «Senti, signor perfettino leccaculo,
vuoi muovere quelle chiappe flaccide?»
«E
se ci inseguono?» ho insistito. Mi sono guardato alle spalle:
mi aspettavo un'orda di poliziotti che ci correva dietro, con i
manganelli alzati, le pistole puntate e che ci portava in galera per
aver ucciso il professore. Giuro, avevo cominciato a credere che
fosse morto e che questa sua decisione di non andarlo a trovare fosse
perché sapeva.
Lei
ha alzato gli occhi al cielo.
«E
piantala!» mi ha preso per una spalla e mi ha trascinato per
tutta la strada, fino a casa, anche se tentavo di protestare.
Quando
siamo stati sul cancello del giardino della nostra villetta bianca e
viola, mi ha finalmente lasciato andare e mi sono dovuto reggere alla
staccionata per non cadere.
«Senti,
Pan...»
«Che
cazzo vuoi?» ha sbottato lei, lasciando inorridite due
vecchiette, nostre vicine, che portavano fuori i loro cani.
«Forse
avresti dovuto andare dal preside!»
Mi
aspettavo uno scapaccione, ma Pan ha solo aperto il cancello.
«Stronzate!
Poi mi avrebbe espulso!» La paura che Kagetano fosse morto
cresceva sempre di più in me. «Ed essere espulsi
l'ultimo giorno di scuola è una gran perdita di tempo!»
«Ma...»
ho tentato di parlare, ma Pan mi ha guardato malissimo.
«Ora,
se non la pianti di aprire quella fogna, perfettino paraculo, te lo
spacco il culo, capito?» mi ha puntato un dito contro. Ho
deglutito: lei, essendo più alta di me di ben sei centimetri,
mi mette una certa soggezione. Il suo pregio, poi, è che
mantiene sempre le promesse.
Così
siamo rientrati a casa, ho salutato, mentre Pan ha lanciato un
grugnito a cui la mamma ha risposto, dal salotto, con un «ciao,
ragazzi» distratto: era l'ora di Beautiful e non si sarebbe
persa le vicende di Brook e compagnia nemmeno se le fosse andato in
fiamme il divano.
Una
volta, prima del suo primo esaurimento nervoso, la mamma era
parrucchiera, poi ha liquidato l’attività ed è
diventata casalinga a tempo pieno.
In
alcuni momenti, è meglio evitare di starle accanto, se non si
vuole finire male... e non dico per scherzo. Mia madre è più
strana di Pan, il che è tutto dire.
Per
fortuna io e mia sorella abbiamo una camera ciascuno e non ci
scontriamo mai per questioni di territorio, a parte quando lei entra
senza bussare per prendermi i giornalini e per restituirmeli
distrutti.
Qualche
minuto dopo che ho chiuso la porta, è arrivata una telefonata.
Mi
sono fiondato sulle scale: ero convinto che era la polizia e che ci
avvertisse della morte del professore.
La
mamma, però, non mi ha fatto capire niente di quello che
succedeva, ha più che altro ascoltato, perché ha detto
poco meno di «Grazie» e «Buonasera».
Quando
ha riattaccato, l'ho sentita alzarsi dal divano con passo pesante e
si è avvicinata alle scale. Ha cominciato a urlare, tanto che
mi sono convinto a scappare in camera mia e a richiudere la porta.
Tanto era lo stesso che se fosse stata aperta.
«PAN!»
«Cosa
c’è?» ha risposto lei, sbadigliando e uscendo dalla
sua camera. «Ti ha morso Sparky?»
Sparky
è la sua tarantola che, ogni tanto, lascia libera di muoversi
per casa.
«SPARKY?»
urlava la mamma. «TE LO DO IO SPARKY! PERCHE’ HAI SPACCATO LA
TESTA DEL TUO PROFESSORE, OGGI, EH?»
Era
morto. Era ufficiale.
«Ma
perché rompeva i cosiddetti coglioni!» ha detto Pan,
camminando a passo pesante davanti alla mia porta, avvicinandosi alle
scale e difendendo le sue ragioni.
«LUI
HA DETTO CHE LUI HA SOLO TENTATO DI FARTI SEDERE! SEI STATA TU A
SBATTERGLI LA TESTA NELLA CATTEDRA!»
«MA
CERTO! COME NO! ADESSO E’ SEMPRE COLPA DI PAN, QUALSIASI COSA
SUCCEDA! PURE SE IL PROFESSORE E’ UN MINCHIONE E NON SA METTERE I
PIEDI UNO DAVANTI ALL’ALTRO E’ COLPA MIA! MA GUARDA TU CHE MONDO
DI MERDA!»
La
mamma non ha voluto sentire ragioni e ha continuato a sbraitare come
una matta, mentre Pan tornava in camera sua e si serrava, accendendo
lo stereo a tutto volume.
A
cena, ho scoperto che papà e mamma sono stati convocati dal
preside e che, per fortuna, Kagetano era in piena salute. La notizia
mi ha aperto lo stomaco e mi ha dato modo di gustarmi quei panini
vuoti che la mamma ci aveva rifilato per punizione.
«Ma
perché anche noi?» si è lamentato papà.
«Perché
altrimenti che punizione sarebbe?» ha replicato la mamma,
lanciandogli occhiatacce.
«La
punizione sarebbe se lei mangiasse panini vuoti e noi imbottiti.»
«Ma
che ne sai tu di pedagogia, Gohan?» ha sbuffato la mamma. Papà
ha fatto spallucce, deciso di non rispondere e si è infilato
in bocca il suo panino.
Il
nonno, intanto, elogiava il lavoro di mia sorella.
«Andiamo,
racconta al tuo vecchio nonno come lo hai steso!»
Pan
lo ha guardato con orgoglio. «Semplice! Allora, eravamo insieme
in quella giungla. Un serpente al mio fianco e un... ehm...
licantropo dall'altro.»
«Un
licantropo?» ha replicato papà, una volta inghiottito.
«Ma... i licantropi non sono quelle creature mezze uomini e
mezze lupi che non esistono?»
«Papà,
ma tu che ne sai di giungle?» ha risposto Pan.
Papà
ha fatto spallucce, deciso di non rispondere e si è infilato
in bocca un secondo panino.
«Pan,
ti prego, ora basta!» ha esclamato la mamma, furibonda, quando
mia sorella era arrivata a raccontare di due coyote che le mordevano
una gamba.
«Che
palle!» ha sbuffato lei, prima di riprendere a mangiare
l'ultimo panino rimasto in tavola.
Dopo
cena, verso le dieci, mentre uscivo dal bagno, ho sentito la mamma e
papà che parlavano dalla loro camera da letto. Mi sono
accucciato e ho messo un orecchio sulla porta chiusa.
«Tesoro,
Pan è in una fase di cambiamento! Forse l’anno prossimo
Kenny si comporterà allo stesso modo!» stava dicendo
papà. Della cosa ho qualche dubbio: non sono mica tanto
convinto di riuscire a prendere di peso un professore! E,
soprattutto, quel professore.
«Gohan,
non dire sciocchezze!» ha detto, infatti, la mamma. «Pan
è in una fase di cambiamento dall’età di tre anni, è
possibile che ancora non sia cambiata?»
«Dai,
domani andremo a scuola e sapremo qualcosa di più da questo
professore... Cagata o come cavolo si chiama!»
«Kagatoma!»
ha detto la mamma, con tono di rimprovero. «Possibile che non
ti ricordi mai il nome di quel povero professore di lingua?»
Peccato
che non si chiami neanche Kagatoma...
«Sì,
va bene... Io non so che fare con quella bambina! E' tutta colpa di
tuo padre!» ha tagliato corto papà.
«Mio
padre non c'entra proprio niente!»
«Come
no! Infatti non le ha mai detto di farsi strada a suon di pugni,
vero? E stasera non le ha dato del genio!»
«MA
COSA NE SAI TU?»
«Che
cazzo fai, lingua-a-cotoletta?» ha chiesto mia sorella,
vedendomi accovacciato con un orecchio sulla porta. Le ho chiesto di
fare silenzio, mettendomi un dito davanti alla bocca, ma lei mi
tirato un calcio nel sedere. «Spione!» ha detto e si è
accovacciata al posto mio, mentre mi massaggiavo il mio povero
sedere.
Ho
deciso di dileguarmi in camera mia e di lasciar perdere. Ormai la
giornata era finita.
Il
giorno dopo...
Ieri
mattina, quando mi sono svegliato, ho scoperto che io e Pan eravamo
soli in casa. La mamma, che era andata a scuola con papà,
aveva messo in forno la colazione perché si mantenesse calda.
Nonno Satan, probabilmente, era andato in palestra e quindi eravamo
proprio soli.
Pan,
che era seduta al tavolo, ha fatto finta di non vedermi e ha
continuato a mangiare quello che aveva davanti (che non era poco). Mi
sono seduto anche io e ho preso una grossa tazza di muesli; mia
sorella, non ho capito perché, non ha gradito il gesto, ha
urlato: «Giù le mani!» e ha battuto il pugno sulla
tazza piena di latte, schizzandomelo tutto addosso. Purtroppo, il suo
colpo è stato così forte da rompere non solo la tazza
che mi ero preso, ma anche tutto il tavolo: l'aveva spaccato in due,
facendo, in questo modo, cadere rovinosamente a terra tutto quello
che c’era stato sopra.
«Simpatico...»
ha detto lei, guardandosi la mano arrossata. «Davvero
simpatico!»
«E
adesso?»
«E
adesso ciccia, paramecio!» si è alzata ed è
uscita dalla cucina.
E'
tornata in camera sua, dove ha messo la sua musica assordante a tutto
volume. I vicini la detestano per questo. Ma la follia per la musica
è una chiara eredità di papà... anche se papà
è molto meno rumoroso.
Sono
rimasto un bel po' seduto sulla mia sedia, lo stomaco brontolante e
nella mente la domanda più pressante: chi avrebbe rimesso
tutto a posto in tempi decenti, in modo che la mamma non venisse a
saperne niente?
La
mamma è gelosissima della sua cucina: è la sua stanza
preferita, quella che non lascerebbe nemmeno se fosse costretta da un
incendio. Ma, tra tutte le cose che potrebbe amare della cucina, le
stoviglie sono quelle che ama di più.
Non
osavo immaginare cosa avrebbe potuto fare, vedendone un paio a terra
e in cocci, peraltro.
Mi
sono armato di coraggio, palo per lavare, scopa e strofinaccio. Ho
cominciato con la scopa, ma ho fatto solo più casino,
sporcando anche zone che erano rimaste intonse. E sulle spazzole
della scopa erano anche rimasti dei cereali.
Mi
chiedo come fa mia mamma a far risplendere tutto come uno specchio,
anche quando la casa è ridotta a un letamaio e sembra
impossibile da pulire. Avevo fatto il possibile, ma il latte era ora
sparso per tutta la cucina e le stoviglie si erano sminuzzate anche
di più, perché, mentre tentavo di prenderne qualcuna
con le mani, ne spezzavo altre sotto i piedi.
Avevo,
tra le altre cose, tentato di portare fuori il tavolo, ma ho ottenuto
solo di incastrarlo nella porta che dà sul retro del giardino.
Mentre
cercavo di liberarla, sono rientrati i miei genitori. Per la paura,
ho tentato di spingere un altro po' il tavolo, sperando che uscisse
e, così, una sua gamba mi è rimasta in mano.
«Forse
il signor Kagatoma ha ragione: la nuova scuola sperimentale dovrebbe
essere buona per Pan!» stava dicendo la mamma. «Speriamo
che abbiano mangiato!»
È
entrata in cucina e mi ha visto con quella gamba del tavolo in mano,
il tavolo incastrato nella porta e il latte cosparso per la sua
adorata cucina. La scena potrebbe sembrare divertente, ma era
drammatica.
«Che
è successo?» ha gridato, sgranando gli occhi, alla vista
di quel pandemonio.
«Ecco,
vedi...» non sapevo davvero cosa dire. Che potevo inventare?
Potevo dirle la verità? Chi mai mi avrebbe creduto?
«Mamma!»
ha gridato Pan, scendendo le scale di corsa. Non mi ero neanche
accorto che la sua musica assordante si era zittita. «Kenny è
un idiota! Si era messo i pattini in casa ed è caduto sul
tavolo, mentre io stavo beatamente facendo colazione! Che imbecille
sadico! Voleva dare la colpa a me, pure! Che stronzo!»
Dalla
faccia che ha fatto, ho capito che la mamma non ha creduto a nemmeno
una parola.
«E
dove sono i pattini?» ha chiesto, inviperita.
«Chiedilo
a lui!» ha risposto Pan, indicandomi. «Io che ne so?
Voglio dire... non ho voglia di impicciarmi nei suoi affari! Che ne
dici di dargli una bella punizione? Una di quelle che non
dimenticherà per il resto della sua vita? E guarda come ha
ridotto quel povero tavolo! Ha anche una gamba in mano!»
Pan
sorrideva maliziosamente, guardandomi. Ha, quindi, guardato la mamma
con finta aria innocente, mentre io gettavo quel pezzo di legno che
mi incriminava.
Papà
guardava prima Pan, poi me, dubbioso.
«Videl...
ma... che è successo?»
«CHE
NE SO IO? CHIEDILO AI TUOI FIGLI! C'ERANO LORO IN CASA!»
Papà
annuiva, preoccupato. «Sembra che sia passato un ciclone!»
ha esclamato. «Come ha fatto il tavolo a finire nella porta?»
«Ma
è stato Kenny, chiaramente!» ha detto Pan.
«Non
ti credo, Pan!» è stato il commento della mamma.
«Ma...
ma se io ero di sopra!»
Ho
annuito. «Volevo portarlo fuori!» ho detto. «Era
rotto e...»
«E
CHI l'ha rotto, Kenny?» mi ha chiesto mia madre, in tono
stridulo.
«Ecco...»
«Hai
messo i pattini?»
Ho
guardato Pan che mi faceva vedere i pugni.
«Noi
non li abbiamo nemmeno i pattini, mamma...» le ho ricordato.
«Tu non ce li hai mai voluti comprare...»
«Ma...»
Pan sembrava un pesce fuor d'acqua e aveva fatto cadere le braccia
lungo i fianchi, incredula. Mi ha indicato. «Sta dicendo
stronzate! Mamma, sta dicendo un mucchio di stronzate esagerate!»
«No...
aspettate... io questa cosa me la ricordo!» ha esclamato papà,
grattandosi il mento. «Sì, Videl, Kenny ha ragione! Tu
non glieli hai mai comprati i pattini perché avevi paura che
si rompessero il sedere e... mi stavo ascoltando per la
quattordicesima volta quell'aria divina che è il Va'
Pensiero e...»
«VA
BENE, VA BENE!» ha gridato mamma. «PAN, KENNY, ANDATE IN
CAMERA VOSTRA. SIETE IN PUNIZIONE FINO ALLA FINE DEL SECOLO!»
«Ma...»
questa volta abbiamo tentato di protestare entrambi.
«NIENTE
MA! ANDATE SUBITO DI SOPRA!»
Stranamente,
mia sorella non ha dato in escandescenze e, anzi, ha preferito andare
subito di sopra, mentre io ho attraversato la cucina e, una volta
sulla porta, la mamma mi ha subito dato uno scapaccione sulla nuca,
dicendo che mi dovevo vergognare del mio orribile comportamento.
Mentre
salivo, Pan mi ha aspettato su per le scale e mi ha tirato un altro
scapaccione sulla nuca. «Idiota!» ha detto e si è
di nuovo chiusa in camera.
Ho
passato praticamente la giornata a leggere fogli di fumetti andati
perduti, mentre mamma e papà discutevano animatamente in
cucina. I rumori della porta che veniva liberata dal tavolo e dei
cocci che venivano raccolti facevano da contorno alle loro voci
decisamente troppo alte. Figuriamoci poi che bel concertino che è
venuto fuori, non appena è arrivato il nonno che ha subito
preso le difese di Pan, dicendo che ero io ad aver mentito e Pan ad
avermi visto coi pattini.
«PAPÀ
NON TI CI METTERE PURE TU, ADESSO!» ha gridato mamma. «NON
CI SONO PATTINI IN QUESTA CASA!»
Fortunatamente,
quando le vivande sono state pronte (ed erano le due e mezza), le
urla erano completamente cessate e la pace era tornata in casa
Iccijojji. Dopo uno strano pic-nic in cucina, la mamma non ha nemmeno
sparecchiato che ha guardato sia me che Pan con aria grave.
«Andate
in salotto e sedetevi: devo dire una cosa importante a tutti e due!»
Io
e Pan avevamo una faccia abbastanza preoccupata: andare in salotto ci
ha sempre messo in soggezione, sarà perché quando ci
andiamo tutti insieme per parlare, è per qualcosa di grave o
molto solenne, a volte tutte e due le cose, ma insomma, è
sempre un po' preoccupante, pure per Pan, anche se tenta di sembrare
spavalda.
Ieri
ci volevano parlare di quello che il professore aveva detto a lei e
papà.
Papà,
mamma e nonno si sono seduti sul divano, mentre io e Pan sulle
poltrone. Ci guardavano come se avessimo delle bombe in mano e
avessimo minacciato di farle esplodere da un momento all'altro. Non
mi è piaciuto che i miei genitori mi squadrassero in quel
modo: mi sono sentito molto in colpa.
Mamma
ha inspirato più volte, poi si è rivolta a mia sorella:
«Pan,
sappiamo che fai molta fatica ad ambientarti, ad avere degli amici e
ad essere gentile col tuo prossimo. Abbiamo fatto una lunga
chiacchierata con Kagatoma...»
«Mamma...»
ho cercato di dirle che il prof non si chiama Kagatoma, ma lei mi ha
ordinato di non interromperla più. Ho annuito.
«Ha
detto che, per le tue attitudini, dovresti frequentare una scuola per
ragazzi difficili... me ne ha consigliata una sperimentale. Prendono
ragazzi dai dodici anni in su, è una scuola fuori città,
aperta già da vent’anni, un po’ fuori mano... un collegio.
Sai, dormi, mangi, studi lì nove mesi l’anno e ritorni a
casa solo per le vacanze natalizie, pasquali ed estive!»
Pan
ha ascoltato fino in fondo questa descrizione con fare scettico.
«Quindi... mi stai chiedendo di prendermi baracca e burattini e
di andarmene di casa?» ha chiesto, disgustata.
Io
sono rimasto perplesso: una scuola per ragazzi difficili? Pan non era
esattamente «facile», ma, addirittura mandarla in una
scuola simile... mi sono sentito piuttosto inquieto.
«No,
che dici?» ha esclamato la mamma, come se Pan l'avesse punta
nel vivo. «Non ti mando da nessuna parte: ti faccio frequentare
una scuola adatta a te, cara mia! Sarà una bella esperienza,
adattissima per una ragazzina come te! Ti abbiamo già
iscritto! E, forse, dato che... dato che anche Kenny sta cominciando
ad avere i tuoi stessi... ehm... problemi... ho deciso che ci
andrà anche lui!»
«Come
anch’io?» ho urlato, scattando in piedi. Il misfatto del
tavolo e delle stoviglie deve averla convinta a farmi questo. E
cominciavo a spaventarmi.
«Certo,
caro!» ha risposto la mamma, orgogliosa. «Perché
non voglio che tu diventi irrecuperabile come tua sorella!»
«Ma...
mamma, io non sono come Pan!» mi è scappato.
«Scusa,
che hai detto, paramecio?» ha detto lei, alzandosi anche lei e
prendendomi per il colletto della camicia.
«N...
niente... Pan, niente!» ho tentato di rimediare, ma è
stato inutile.
«Non
è vero!» ha gridato lei, stringendo forte il pugno.
«BASTA!»
ha ordinato la mamma e tutti e due l'abbiamo guardata. «Lo so,
caro, che non sei come lei! Ma, purtroppo... dopo quello che ho visto
oggi, è meglio che vada anche tu, credimi!»
«Stronzate!»
è stato il commento, stavolta azzeccatissimo, di mia sorella.
Solo perché ho tentato di portare via un tavolo, mi ritrovo a
dover andare in una scuola per ragazzi disturbati!
Ho
paura e anche diversi dubbi, ma non ho potuto dire niente alla mamma
che mi guardava con tante aspettative, quasi credesse che,
frequentando una scuola simile, avrei potuto diventare imperatore. Ho
balbettato qualcosa, ma non sono stato incapace di esprimere la mia
rabbia, la mia paura, forse per quello sguardo luccicante di mia
madre che non ammetteva repliche.
Pan,
comunque, ha cominciato a sbraitare, a battere i piedi.
«QUESTE
SONO TUTTE STRONZATE!» ha detto e io, per la prima volta nella
vita, ho annuito. «RAGAZZI DIFFICILI? PERCHE'? COME SONO I
RAGAZZI FACILI? IO NON VADO DA NESSUNA PARTE!»
Ho
annuito ancora, stavolta più vigorosamente di prima.
Anche
mamma si è alzata in piedi. «TU CI ANDRAI! E ANCHE TUO
FRATELLO!»
«NON
CREDO PROPRIO! SE LUI VUOLE ANDARE, LIBERISSIMO DI FARLO! IO ME NE
VADO DI CASA, PIUTTOSTO!»
Il
nonno si è intromesso. «Andiamo, Videl cara!»
ha esclamato, posandole una mano sulla spalla, guardandola con fare
paterno. «Se Pan non vuole andare non dobbiamo di certo
costringerla!»
«Papà,
fatti i cazzi tuoi!» poi si è rivolta a Pan. «E
DOVE PENSI DI ANDARE, EH?»
«ME
NE VADO DI CASA! ME NE VADO SUI MONTI PAOZ E TI VADO NEL CULO!»
Nonno
Satan l'ha guardata con occhi sgranati. Sembrava un pesce lesso,
tanto che ho dovuto fare i salti mortali per non scoppiare a ridergli
in faccia. Il pandemonio è continuato a lungo. Io e papà
ci guardavamo interdetti, mentre nonno, mamma e sorella gridavano a
più non posso.
Credo
che i vicini non abbiano chiamato la polizia giusto perché ci
conoscono...
Non
abbiamo concluso niente: tutti sono rimasti dell'idea di cui erano in
partenza e, l'unica cosa che è cambiata, è stato il
fatto che la mamma ci ha spediti filati in camera.
Mia
madre, però, somiglia a mia sorella e, se dice che andremo in
quella scuola, so che ci finiremo, volenti o nolenti. Mi chiedo solo
come farà a convincere Pan...
*****
*Iccijojji
è il cognome di Ken (Digimon 2), nonché protagonista
della serie, ma talmente stravolto da essere irriconoscibile.
Ho
deciso di estenderlo a tutta la famiglia Son, semplicemente perché
all'epoca non sapevo il cognome di Goku (avevo visto solo l'anime di
Italia 1). Non l'ho mai cambiato per questioni di affetto verso la
mia storia, quindi spero non me ne vogliate.
Ken
Iccijojji è diventato Kenny molto tempo fa, per un motivo che
non ricordo neanch'io... ma ci sono così affezionata che mi
duole il cuore al solo pensiero di doverlo cambiare.
Molti
nomi, anche se la storia è ambientata in Giappone, sono
inglesi e alcuni anche italiani, ma anche qui, sempre per le
motivazioni spiegate più sopra, non saranno cambiati, perché
ormai i nomi sono parte di quei personaggi e non sarebbero più
loro con un nome diverso.
Personaggi
da un po' tutti i cartoni animati, anime e i libri che mi sono
piaciuti arriveranno con l'evolversi della storia (ma non aspettatevi
caratteri IC).
Alcuni
saranno personaggi originali, ma saranno molto esigui (e prima che me
lo chiediate: no, non andranno ad Hogwarts, anche se la storia dei
sette anni l'ho pescata da lì).
A
questo punto, vi sarete posti una domanda: se tutti tutti i
personaggi non saranno come nell'originale, perché non
scrivere un racconto originale? Sempre per la questione dei nomi
spiegata qualche riga più sopra. Per me, purtroppo, un nome è
tutt'altro che banale.
Che
altro dire? Spero che vi sia piaciuto questo lunghissimo prologo,
spero che non vi abbia annoiato e che, anzi, continuerete a leggere
anche i prossimi capitoli e che non mi abbandonerete.
Quel
che avevo da dire l'ho detto, adesso la parola a voi, lettori.
Luine. |