I
miei occhi captano solo il buio. Un buio fitto, un limbo di
oscurità in cui fanno galleggiare il mio corpo. Il mio
cuscino è tenebra intangibile, la mia coperta
gelido metallo, il cui il freddo si instilla in profondità
nelle ossa.
Un freddo fatto di momenti cristallizzati, che fioccano in un angolo
della mia mente e la sconvolgono e la torturano.
Acuminati stiletti di ghiaccio, che trasformano la neve caduta al suolo
in valanga.
Quel bianco accecante, un ultimo lampo prima del blackout.
Loro la chiamano “progettazione
comportamentale”;
io, un nome, nemmeno gliel’ho dato.
Potrebbe essere
distruzione, annullamento, morte. Questi scienziati non lasciano molta
capacità di scelta.
Parole manipolatrici scivolano dalle loro labbra e sono un fiume in cui
scorre latte e miele, velluto sulla pelle, impalpabile adulazione.
Tutto assume una prospettiva diversa, sembra estremamente ragionevole.
E in un attimo mi ritrovo all’angolo, ho stretto un patto di
sangue e vincolato la mia anima a quella che definiscono scienza.
Scienza della guerra la
chiamano, ed io sarò l’arma innovativa,
l’ago della bilancia che capovolgerà il gioco del
potere.
Mi spezzano, mi
consumano un po’ alla volta, mi scavano nel cervello fino ad
estirparmi tutto quello che non corrisponde alle voci da spuntare nelle
loro belle cartelle.
Ma nulla ha
più importanza dopo l’iniezione in vena di
chissà quale sostanza dal nome complicato.
Mi dicono che
sarò diverso dall’altro soldato. Non
avrò le sue debolezze, le sue imperfezioni, i sentimenti non
faranno breccia nel mio cuore.
Le voci mi arrivano sempre più distanti, perse nella loro
rassicurante nenia.
La mente si ottenebra e la realtà sfuma in un sogno distorto.
E nel sogno ci sono due bambini che si stringono la mano.
*
L’inverno della Virginia era freddo e rigido. Dalla finestra
della grande camerata dove sostavano bambini in attesa di una famiglia,
James alitava sul vetro e disegnava pigramente cerchi concentrici con
la punta del dito magro. Osservava le auto cingolate percorrere il
viale ed entrare nella base militare poco lontana, stipate di alti
uomini in divisa e medaglie luccicanti. Gli piacevano, quelle divise.
Quando capitava di incrociare dei militari per strada, non perdeva
occasione di studiarli con attenzione dalla testa ai piedi.
Così composti, fieri, orgogliosi di servire il Paese e di
camminare sul binario dell’onore.
La voce stridula di suor Margareth, che chiamava il suo nome, gli fece
sollevare gli occhi al cielo, interrompendo il flusso dei suoi
pensieri. A malincuore lasciò la sua postazione e, a passo
svelto, inforcò le scale scricchiolanti per scendere nel
piccolo refettorio/sala ricreativa.
Suor Margareth, quando lo vide arrivare, sospirò in maniera
rassegnata. Si limitò quindi a fargli indossare un cappotto
sdrucito, appartenuto a chissà quanti ragazzini prima di
lui, e ad avvolgergli una rattoppata sciarpa attorno al collo.
James infilò le mani in tasca e si avviò verso
l’uscita con gli altri bambini. Era il più grande
e toccava a lui chiudere la fila e sorvegliare i più piccoli.
L’aria gelida gli fece intirizzire il corpo tanto che dovette
fare uno sforzo notevole per rimettere in moto le gambe, ormai bloccate
sul posto.
Prese a camminare, lo sguardo attratto dalle ghirlande di biancospino
alle porte, dalle luci intermittenti avvolte con maestria sui tronchi
degli alberi spogli, dai gustosi biscotti di pan di zenzero decorati di
glassa che abbellivano le vetrine delle pasticcerie e che gli facevano
venire l’acquolina in bocca.
Le campane della chiesa suonavano a festa. Lui, però, tutta
la gioia del Natale proprio non la sentiva, anzi: un senso di tristezza
gli serrava il cuore alla vista di quei bambini che, per strada,
camminavano stretti mano nella mano con i genitori. Indicavano con il
dito paffuto i balocchi nei negozi sperando che Babbo Natale glieli
portasse.
A lui, i genitori, avevano lasciato solo un nome ed una vecchia
fotografia sbiadita che conservava come una preziosa reliquia sotto al
cuscino.
La chiesa odorava di incenso e dei profumi delle anziane signore
imbellettate che sfoggiavano la loro pelliccia delle grandi occasioni.
James si sedette su una delle lunghe panche, ancora una volta attirato
dalle vetrate policrome, dagli addobbi rosso sgargiante con finiture
d’oro che adornavano l’interno, il fonte
battesimale di marmo rosa candido.
Poi dei colpi di tosse ripetuti deviarono la sua attenzione.
Ruotò il capo verso l’ingresso della chiesa e vide
un ragazzino che ad occhio e croce doveva essere suo coetaneo.
Camminava stretto al fianco della madre, avvolto in un cappotto pesante
e si teneva la mano guantata sulla bocca, continuando a tossire.
I due si fermarono nella fila davanti a lui e la madre del bambino gli
posò la mano sulla spalla per invitarlo a sedersi; questi
obbedì con docilità.
James notò il suo colorito pallido, la fragilità
che nascondeva sotto gli indumenti pesanti. Suor Margareth gli
scoccò un’occhiata truce quando tutti si
alzarono per l’inizio della funzione e lui no.
Scattò in piedi e cominciò a cantare
gli inni, fingendo di dimenticare la figura minuta davanti a lui.
Quando la messa terminò, James venne rimesso in fila insieme
agli altri per tornare in orfanotrofio. Mentre camminavano sulla strada
innevata, il ragazzino e sua madre gli passarono accanto con una certa
fretta. Fu in quel momento che vide un fazzoletto cadere a terra e
depositarsi silenziosamente sulla neve.
Senza pensarci, James ruppe la fila e prese a correre verso di loro,
ignorando i richiami di suor Margareth.
“Ehi, ehi, fermatevi!” gridò e una
piccola nube calda uscì dalla sua bocca. Quando li raggiunse
strattonò debolmente il cappotto del ragazzino per attirare
la sua attenzione.
Appena si voltò, James gli allungò il fazzoletto.
“Ti è caduto mentre camminavi.”
L’altro osservò con riluttanza ciò che
gli stava porgendo, e James seguì la traiettoria del suo
sguardo: sulla superficie bianca immacolata, senza che lui
l’avesse notata prima, c’era una grande goccia di
sangue scarlatto.
“Come si dice, Steve?” il bambino alzò
gli occhi verso la madre e rispose con voce sottile un grazie stentato.
James inarcò un sopracciglio e gli infilò il
fazzoletto sotto al naso, con poca grazia.
“Stai sanguinando di nuovo. Non stai bene?”
La domanda dovette infastidirlo, perché il bambino
corrugò la fronte in maniera piccata.
“Solo un po’ di raffreddore.”
In quel momento arrivò tutta trafelata suor Margareth, che
non perse occasione per afferrare James per un orecchio, dandogli della
canaglia per averle fatto fare una corsa il giorno di Natale. La madre
del ragazzo si apprestò a spiegarle che era corso per
restituire il fazzoletto caduto e che, per ringraziarlo, lo invitava a
bere una cioccolata calda. James guardò la suora con aria
trionfante, ben felice dell’evoluzione delle cose tutta a suo
favore.
Una volta entrati nel caffè, seduto al tavolino con quella
tazza fumante che rappresentava il suo miglior Natale praticamente da
sempre, James non poteva davvero credere alla sua fortuna.
“Come ti chiami?” gli chiese il ragazzino.
“James Buchanan Barnes. Tu?”
“Steven Rogers, ma puoi chiamarmi Steve.”
Si strinsero la mano e trascorsero qualche ora in cui James gli
elencò tutti i giochi che ideava per gli altri bambini
dell’orfanotrofio e gli scherzi che faceva ai danni di suor
Margareth. Steve ascoltava, attento e rapito, parlando poi a sua volta
dei giocattoli che aveva a casa e della sua collezione di figurine
sportive.
“Qualche volta potresti venire a giocare con noi.”
Propose speranzoso James.
“Anche tu potresti venirmi a trovare. Mi piacerebbe avere un
compagno di giochi, da solo mi annoio.”
Il viso di James si illuminò e diede il suo assenso, anche
se prima avrebbe dovuto convincere quella ‘donna
pinguino’ a farlo uscire.
Come due uomini vissuti si salutarono con una stretta di mano, davanti
al portone dell’orfanotrofio.
Quella notte, stretto nelle coperte consumate dal tempo, James non
riusciva a smettere di sorridere. Per la prima volta la sua richiesta
di Natale era stata esaudita.
Aveva trovato un amico.
*
“Ti
è stata assegnata un’identità dalla
nascita e tu trascorri tutta la vita a vedere se ti ci ritrovi. Provi
ad essere tante persone, indossi ed abbandoni diverse maschere.
Perché darsi tanta pena? È quando smantelliamo la
nostra armatura che facciamo emergere ciò che è
reale.
Smantellare è
cancellare ciò che indebolisce, smantellare è
perfezionare, smantellare è liberare.”
La voce del dottor Zola
è calma e pacata, con un accenno di entusiasmo malamente
celato quando mi stringe le cinghie di cuoio attorno ai polsi.
“Sei la mia
creatura perfetta.” Mi accarezza con fare paterno il capo e
comincia a spalmare la pasta conduttrice sulle tempie. Mi apre la bocca
ed il sapore di plastica del morsetto mi disgusta. Sento il freddo
metallo degli elettrodi laddove sono fissati alla mia pelle.
Ecco, ci siamo, la cura
sta per arrivare.
Quando abbassa
l’interruttore ci vuole un decimo di secondo per far
esplodere il ricordo con una scarica elettrica da 450 volt.
È
il tremolio delle palpebre prima di svegliarsi, il dolore di un momento
prima di tornare alla vita.
Ogni giorno James
Buchanan Barnes muore e, dalle sue ceneri umane, rinasce Soldato
d’Inverno.
Il soldato perfetto.
***
Salve a tutti! Ho da poco rivisto Capitan America: Winter Soldier e
devo dire che Cap non è tra i miei personaggi
preferiti (in generale, non solo nei film) ma come potevo non annegare
nei feels per Bucky? Impossibile. Diciamo che la mia lista di villains
con problemi al seguito ha un nuovo componente.
Passiamo alle note del caso:
1. Senza Cecilia questa one shot non avrebbe mai visto la luce, ma
sarebbe rimasta confinata in un angolo buio del mio computer
(probabilmente nella cartella di foto di Sebastian Stan, coff coff)
quindi GRAZIE!
2. Ho provato a bilanciare gli elementi film con quelli fumetto,
speriamo di non aver fatto danni eccessivi. Bucky è un
orfano cresciuto nella base militare di Fort Lehigh, dove fa amicizia
col soldato semplice Steve Rogers.
Ho seguito la linea del movieverse che li vuole, invece, amici fin dall’ infanzia.
3. Questa one shot è stata rieditata dalla precedente che
avevo postato. Ho apportato delle correzioni e beh, mi sembrava
più che doveroso ripostarla in questo periodo natalizio,
dato che è ambientata lì XD
4. Il feedback dei lettori sarebbe veramente molto gradito a questa
autrice, che vive nella desolazione dell’ attesa dello speciale di Sherlock. Vogliatemi bene
<3
Grazie a chiunque passerà a leggere e buone feste a tutti! ^^
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