Say something
Say something, I'm giving
up on you
I'm sorry that I couldn't
get to you
Anywhere, I would've
followed you
Say something, I'm giving
up on you
Brusio di sottofondo e odore di disinfettante nell’aria.
John aprì le palpebre a fatica, avvertendo un dolore
lancinante torturargli i nervi. Le sue iridi vennero ferite dal bianco
abbacinante che lo circondava, e fu costretto a strizzare gli occhi
più volte per riuscire a distinguere i contorni della
mobilia attorno a lui.
La luce che filtrava attraverso la barriera delle ciglia gli suggeriva
che fosse mattina presto.
Nonostante i sensi intorpiditi, riusciva ad avvertire il peso delle
coperte e la morbidezza di un cuscino sotto la testa.
Un ospedale. Era in un ospedale.
Che diavolo ci faceva lì?
I suoi ultimi ricordi risalivano a... quanti giorni erano passati?...
Stava indagando con Sherlock su una serie di omicidi. Ma
poi… cos’era successo? E se lui era ridotto
così, dov’era Sherlock?
Al pensiero, si alzò di scatto. Una violenta fitta al petto
lo fece gemere e ricadere tra le coperte, il fiato corto e la fronte
lucida di sudore. Attese che le ondate di dolore che gli scuotevano il
corpo si placassero, prima di ruotare lo sguardo attorno a
sé ed incrociare gli occhi cerulei del suo coinquilino.
Istintivamente trasalì.
Sherlock era seduto su una poltroncina vicino al letto
dov’era coricato, e nonostante gli abiti sporchi di sangue
pareva illeso. La morsa nervosa che aveva stretto lo stomaco di Watson
si dissolse.
– Sher… – tentò, ma le parole
grattarono contro la gola e la voce gli uscì roca ed
incomprensibile.
– Non provare ad alzarti.
La voce di Holmes giunse alle orecchie del soldato con la violenza di
una scudisciata.
Il consulente investigativo assottigliò lo sguardo,
stringendo le labbra in una linea sottile. John non l’aveva
mai visto così serio e palesemente infuriato.
– Ti ho già raccolto da terra una volta, non lo
rifarò una seconda.
Frammenti di ricordi si incastravano lentamente nella testa del
dottore, aiutati da quanto Sherlock stava dicendo.
Avevano scoperto il colpevole, l’avevano inseguito... quando
quest’ultimo aveva estratto una pistola, puntandola verso
Sherlock. E lui...
Watson sollevò con cautela le coperte, e lo spesso bendaggio
che gli avvolgeva il torace fece capolino da sotto le pieghe del
lenzuolo. Ora riusciva a spiegarsi anche il dolore che lo assaliva se
solo provava a respirare più profondamente del normale.
Rialzò lo sguardo sull’amico, in cerca di qualcosa
da dire che potesse mitigare la sua rabbia, a cui ancora non riusciva a
trovare una spiegazione. Si erano già trovati in situazioni
del genere, ma era in assoluto la prima volta che un sentimento
trapelava con tanta chiarezza dalle iridi di Sherlock.
– Informerò l’infermiera del tuo
risveglio.
Fu le ultime parole che il consulente investigativo gli concesse, prima
di scomparire oltre la porta.
***
*** ***
I giorni successivi furono estremamente stancanti, per John. Alla
debolezza fisica, si sommò quella mentale causata dal
continuo andirivieni di infermiere nella sua stanza per nuovi esami e
da tutte le visite che ricevette.
Lestrade, Anderson e Donovan si complimentarono con lui per il suo
coraggio, gli ultimi due probabilmente costretti
dall’Ispettore, informandolo che il criminale che
l’aveva ferito era stato infine messo dietro le sbarre; la
signora Hudson, invece, gli rimproverò i rischi corsi e si
informò maternamente sulle sue condizioni, chiedendogli
quando sarebbe tornato a Baker Street; Mike lo intontì per
un tempo infinito di chiacchiere che, nella mente del soldato, si erano
ridotte a un’allegorica imitazione del costante
‘bip’ della macchina che teneva sotto controllo il
suo battito cardiaco.
Ogni volta che aveva udito la porta aprirsi, il dottore aveva
sobbalzato e i suoi occhi erano corsi immediatamente a ricercare un
viso affilato e dei felini occhi azzurri. Sperava sempre che fosse
Sherlock, che fosse tornato, anche senza una spiegazione per il proprio
comportamento assurdo. L’avrebbe preferito a quel silenzio,
che gli pesava sul cuore come un macigno.
Sherlock era sempre stato difficile da interpretare, eppure mai si era
comportato così con il coinquilino. D’accordo, non
si aspettava la sua costante presenza al suo capezzale, ma almeno che
non lo trattasse come un qualsiasi sconosciuto.
Era sera, riuscì a capire grazie all’orologio
appeso al muro e alla luce tinta d’arancio che filtrava dalle
persiane. Se le visite che aveva ricevuto, oltre ad esaurirlo, erano
riusciti a distrarlo, ora nulla poteva salvarlo dal finire preda della
sua stessa psiche, che insisteva perché si arrovellasse su
quel rompicapo che era Sherlock Holmes.
Secondo la signora Hudson, Holmes si era rinchiuso nella sua stanza a
suonare ossessivamente il violino, rifiutando di parlare e mangiare.
Anche se oramai si era rassegnato, sentendo l’uscio cigolare
sui cardini mosse comunque le iridi azzurre in quella direzione.
La dottoressa Black gli sorrideva con calore, avvicinandosi al suo
letto. John sentì le proprie speranze infrangersi in mille
pezzi.
– Signor Watson, – esordì la donna, una
minuta fanciulla di origini irlandesi fin troppo giovane per quel
mestiere così complesso. – Sono felice di
comunicarle che domani potrà tornare a casa.
A casa.
Dove c’era Sherlock. Sherlock e il suo maledetto silenzio.
– Vuole che avvisi il suo fidanzato?
– Il mio cosa?
Chi?
John sperò di aver capito male.
Lei parve stupita. – Beh, Sherlock Holmes. Credevo…
– No. Sherlock? No, santo cielo, non diciamo stupidaggini. Io
e Sherlock? Assurdo, no. No. –
Non si rese nemmeno conto di aver iniziato a straparlare. Black attese
che la verve dell’uomo si estinguesse, pazientemente, poi si
strinse appena nelle spalle.
– È che mi è sembrato molto
preoccupato, e... – la giovane lo osservò, gli
intelligenti occhi marroni che brillavano tra le ciglia scure,
– Immagino la vostra sia una grande amicizia, per spingere il
signor Holmes a tentare di aggredirmi pur di avere sue notizie. In ogni
caso, signor Watson, le auguro una buona notte.
John non riuscì a ricambiare il saluto.
La sua mente aveva bisogno di tempo per elaborare quanto aveva appena
udito. A malapena si rese conto di essere rimasto di nuovo solo. Uno
strano calore allungò i propri tentacoli nel petto del
medico militare. Sherlock si era preoccupato per lui.
Ma allora perché? Perché quell’assenza?
Watson sospirò, abbandonandosi contro il cuscino. Non aveva
la capacità deduttiva di Holmes, e il suo coinquilino era
probabilmente la persona meno espressiva del mondo - dopo Mycroft,
Mycroft e la sua maledetta mania di avere il controllo su
ciò che accadeva in ogni angolo del globo, in particolare
quell’angolo di globo chiamato ‘221b Baker
Street’ - dunque non poteva sperare di riuscire a capire da
solo cosa diavolo gli fosse preso senza avere un confronto diretto con
lui.
Confronto che, aveva la sensazione, Sherlock avrebbe cercato in tutti i
modi di evitare.
***
*** ***
A volte, John odiava avere ragione.
Era strano, perché vivendo a stretto contatto con Sherlock
Holmes avere ragione era un evento più unico che raro e
avrebbe dovuto godersi quel piccolo momento di gloria personale, ma
davvero, in quel momento avrebbe desiderato essersi sbagliato.
Sherlock non gli aveva rivolto una sola parola, da quando era tornato
dall’ospedale.
Era rimasto immobile per svariati minuti, oltre la soglia del loro
appartamento, le chiavi ancora in mano, lo sguardo fisso sul suo
coinquilino. Holmes era chino su delle provette posate sul tavolo della
cucina, i ricci scuri che ne occultavano lo sguardo.
– Sono tornato.
Watson si rendeva conto di quanto la sua frase suonasse stupida, troppo
simile a quella di un innamorato che torna dalla sua bella dopo una
lunga assenza - e
perché diavolo il suo cervello aveva dovuto partorire
proprio quella similitudine? -, ma anche una figura da
idiota era preferibile a quell’insopportabile silenzio.
– Me ne ero accorto, John.
Bene. A quanto pareva quello era tutto ciò che avrebbe
ottenuto da Sherlock Holmes.
– Sarebbe carino tu ti degnassi per lo meno di guardarmi.
Dopo avermi ignorato per
giorni mentre languivo in un dannatissimo letto d’ospedale.
– Non vedo perché dovrei distrarmi quando sono
perfettamente consapevole della tua presenza. La mia memoria a lungo
termine funziona egregiamente, John, ricordo ancora il tuo viso.
Ma io non sono sicuro di
ricordarmi il tuo.
– Si può sapere che diamine ti prende?
Il medico militare lasciò cadere a terra la borsa,
scavalcandola e avvicinandosi al bancone su cui l’uomo era
chino.
*
And I am feeling so small
It was over my head
I know nothing at all
Sherlock odiava non avere ragione.
Non stava andando affatto come aveva previsto. Perché John
era così ostinato? Holmes avrebbe potuto finire
quell’esperimento in pochi istanti, ma stava procrastinando
nella speranza che il coinquilino gettasse la spugna e andasse nella
sua stanza.
Watson pareva deciso a dargli il tormento ancora per molto e,
maledizione, Sherlock quella volta non sapeva davvero come uscirne.
– Mi prende essere nel bel mezzo di un importante esperimento
e venire continuamente distratto, John.
Era la prima volta che pronunciava il suo nome da una settimana, da
quando Watson era finito in ospedale, eppure sulle sue labbra suonava
ancora così maledettamente familiare.
Aveva preso una decisione, nei giorni in cui era rimasto solo a Baker
Street a torturare le delicate corde del violino.
Vedere John riverso a terra in una pozza di sangue e sapere che era
stata colpa sua l’aveva sconvolto più di quanto
fosse disposto ad ammettere. Aveva trascorso istanti orribili, fuori da
quella sala operatoria, e i sensi di colpa avevano avuto tutto il tempo
di iniziare a erodere la sicurezza del consulente investigativo.
Sherlock continuava ad armeggiare con provette e alambicchi, le mani
che tremavano troppo impercettibilmente perché
l’altro potesse notarlo. Fu un indicibile sollievo percepire
quel sospiro che annunciò l’incedere di Watson
verso la sua camera.
Attese il rumore del saliscendi della maniglia, poi si permise di nuovo
di respirare.
Era qualcosa che aveva relegato nell’angolo più
nascosto del suo Mind Palace, provando a cancellarlo con tutte le sue
forze, ma John gli era mancato terribilmente.
Il 221b non gli era mai sembrato tanto vuoto e terribilmente
silenzioso, lui che tanto amava il silenzio, e resistere alla
tentazione di andare a trovare il coinquilino in ospedale si era
rivelato quanto mai difficile.
Concentrarsi sul caso che l’aveva occupato durante quella
settimana non era servito. Mentre rifletteva, la sua mente continuava a
tornare a quella maledetta notte in cui John era stato ferito. Si era
ritrovato a rivivere quel momento più volte, ad analizzarne
i particolari, tanto che ora avrebbe potuto descrivere nei minimi
dettagli il modo in cui la rosa scarlatta aveva fatto la sua comparsa
sul petto dell’amico e il mortale calore che aveva macchiato
il suo cappotto quando l’aveva stretto a sé in
attesa dei soccorsi.
Aveva risolto il caso in molto più tempo del normale, e
questo lo indispettiva.
Perfino Mycroft aveva voluto rincarare la dose, presentandosi
nell’appartamento senza nemmeno bussare, come
d’altronde era sua abitudine.
– Perché
non puoi semplicemente ammettere che sei preoccupato per lui?
–, aveva detto, prima che Sherlock gli chiudesse la porta in
faccia con stizza.
Lui non era preoccupato per John. La sola idea era semplicemente
ridicola.
E allora perché il suo cuore aveva tremato di sollievo,
nell’udire i passi esitanti di Watson che saliva le scale?
C’era stato qualcosa, oltre alla solita analisi - camminava in modo incerto, la
ferita doveva ancora infastidirlo e ciò aveva riacceso la
zoppia psicosomatica, ma nonostante ciò aveva camminato fino
a lì dopo aver preso il taxi per un paio di isolati
-, qualcosa che il più giovane degli Holmes non era riuscito
ad identificare.
Un groviglio emotivo esploso al centro del suo petto, un calore
sconosciuto che aveva allungato i propri tentacoli bollenti tra le sue
costole. Sherlock non l’aveva mai guardato in faccia, per
timore che John, al contrario, sapesse dare un nome alla sensazione che
aveva preso a strisciare tra le sue ossa.
Le dita affusolate del consulente investigativo strinsero il bordo
dell’isola della cucina. Un sospiro incerto gli
svuotò i polmoni, dopo aver a lungo esitato sulle sue labbra.
***
*** ***
I giorni che seguirono furono i più difficili mai trascorsi
tra quelle mura.
Sherlock si era chiuso in se stesso, nonostante i numerosi tentativi di
John di capire cosa gli fosse preso. L’uomo aveva eretto una
fredda corazza attorno a sé, allontanando con feroce
decisione il suo migliore amico.
John gli preparava il tè ogni sera, tentava di parlargli, lo
informava sui progressi del nuovo articolo del suo blog, cercava di
coinvolgerlo di nuovo nella loro routine. Sherlock coglieva il lampo di
delusione nei suoi occhi che si limitava a sfiorare con lo sguardo,
ogni volta che i suoi intenti si infrangevano contro quella barriera di
gelo e indifferenza che trovava sempre più difficile
mantenere.
Sperava che, alla fine, Watson si stancasse e lo lasciasse in pace, ma
così non era stato fino a quel momento.
E quell’emozione senza nome continuava a tormentarlo, a non
fargli chiudere occhio la notte, a impedirgli di riflettere. Quella
lontananza auto-imposta lo stava sfiancando. L’unica cosa che
avrebbe voluto era tornare a esporre le sue deduzioni
all’amico e sentirlo elogiare la sua intelligenza.
Quando il suo cellulare vibrò, una sera come tante altre,
era impegnato in un nuovo esperimento e John stava guardando la
televisione in salotto. L’unico che avesse parlato, quel
giorno, era Watson. Holmes afferrò l’apparecchio,
aprendo il nuovo messaggio.
“Nuovo caso.
45 King’s Road. GL”
Un sorriso esaltato si delineò sulle labbra sottili. In un
attimo, ripose al loro posto le provette e indossò il
cappotto. John aveva spento la tv, alzandosi.
– Dove stai andando? – Il medico osservò
la sua espressione. – Un caso?
– Buonasera, John. Non aspettarmi sveglio. –
tagliò corto l’interessato, chiudendosi
velocemente la porta alle spalle.
Lo scatto della maniglia segnò il punto di rottura.
***
*** ***
Quando rimise piede nell’appartamento, due ore e un caso
risolto più tardi, Sherlock capì che qualcosa era
cambiato.
– Ora basta, Sherlock!
Si sentì afferrare per il bavero e spingere contro il muro a
lato della porta.
Il suo cuore saltò un battito e di colpo smise di pensare.
Il viso contratto dalla rabbia di John era troppo vicino al suo per
permettergli di concentrarsi. Completamente attonito, batté
piano le palpebre. L’aritmia del suo cuore era schizzata alle
stelle, e Sherlock si convinse che fosse per colpa della paura.
– Ora dimmi che diavolo ti prende, o giuro su Dio che dovrai
trovarti un nuovo coinquilino.
– No!
La sua lingua si era mossa troppo velocemente, incontrollata. Gli occhi
chiarissimi di Holmes erano sgranati sul volto dell’amico.
John non doveva andarsene. Non doveva.
– Sherlock, maledizione, se tu credi che io...
– Non andartene.
Watson si era zittito. La presa sui vestiti del consulente
investigativo si allentò appena, ma non abbastanza per
permettergli di scappare.
Sherlock si rese conto che quella era la prima volta che lo guardava
negli occhi dopo la notte in cui era stato ferito. Quello sguardo
limpido lo gettò in uno stato di confusione totale. Il suo
Mind Palace venne rivoltato da quelle iridi cerulee e Sherlock non
riuscì a fare nulla per impedirlo.
And I will stumble and fall
I'm still learning to love
Just starting to crawl
– Non devi andartene. – si ritrovò a
ripetere. – Chi è Sherlock Holmes senza John
Watson?
Chi era Sherlock Holmes
senza John Watson?
Lui non era nessuno senza John. Era lui l’unico che riusciva
a vedere oltre la sua facciata di uomo di ghiaccio, era
l’unico che riusciva a far crollare la sua costruita
maschera, l’unico che si fosse mai preoccupato per lui,
l’unico che non l’avesse mai lasciato solo.
Cadde un silenzio teso. Il medico continuava a tenere il coinquilino
inchiodato alla parete, ma qualcosa nel suo volto era cambiato.
– Maledizione, Sherlock, – parve sbuffare una
risata, inclinando il capo in avanti, le dita strette sul cappotto
dell’altro; i capelli biondi nascosero il suo sguardo.
– Di’ qualcosa, perché io davvero non so
più cosa pensare.
Holmes respirò a fondo. Il suo petto si mosse sotto le mani
di Watson.
– La sera in cui ti hanno sparato.
Voce atona, sguardo perso oltre il viso dell’amico. Aveva
capito di non poter andare avanti così, non senza perdere
John. E, Dio, no,
non poteva permetterlo.
– Quella sera sei quasi morto. Per colpa mia.
Sentì John prendere fiato per interromperlo, ma
continuò imperterrito. Se si fosse fermato, se
l’avesse guardato negli occhi, non sarebbe più
riuscito a continuare.
– Quando ti ho visto a terra, in una pozza di sangue, per
difendere me... è stato il momento peggiore della mia vita.
Qualsiasi replica Watson avesse in mente si spense, a quelle parole.
Sherlock Holmes, l’uomo senza cuore né sentimenti,
si stava aprendo a lui come mai aveva fatto. Un’idea, una
folle, assurda idea iniziò a prendere forma.
– Nessuno aveva mai fatto qualcosa del genere. E io non
riesco a capire perché tu abbia rischiato la tua vita per
me. Né perché questo mi faccia sentire
così bene e al tempo stesso così male. Io...
John non lo lasciò finire. Lo strattonò verso il
basso e in un attimo le sue labbra furono su quelle di Sherlock.
L’intero universo tremò. Tutto parve frantumarsi
in miliardi di minuscoli frammenti. Un calore violento nacque nel
ventre di Holmes e oh,
su quelle labbra tutto aveva di nuovo un senso, tutto andava al suo
posto. Sherlock strinse i polsi di John, chinandosi e
desiderando sentirlo il più vicino possibile.
Non avrebbe saputo dire quanto durò quel bacio, forse pochi
secondi o forse interi minuti, ma quando si separarono avevano entrambi
il respiro corto e gli occhi lucidi.
– Sei un maledettissimo idiota, – soffiò
il medico sulla sua bocca. – Ti amo.
Oh. Oh,
allora era...
Qualcosa, nel petto di Sherlock si sciolse definitivamente. Un sorriso
obliquo, esitante, allungò le labbra sottili del consulente
investigativo.
– Penso... penso proprio di amarti anche io.
And I will
swallow my pride
You're
the one that I love.
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