Amiche?
«Se
tra due persone c’è un problema, aprire il
discorso non significa essere in torto,
significa che si tiene abbastanza a quel rapporto da cercare di
risolvere.»
“…immagino
che non le importi, allora” si disse Stella dopo aver letto
quella frase. Posò
il quaderno sul tavolo, sospirò e si abbandonò
all’indietro sulla sedia
girevole, che si spostò leggermente sotto la spinta del suo
corpo.
Quel
che aveva posato era un quadernino, più che un quaderno;
piccolo, nero, era
evidente che fosse usato e anche molto, ma era tenuto in condizioni
perfette.
Stella lo aveva da tre anni. Ogni volta che una frase la colpiva, ve la
scriveva, poco importava che fosse una citazione, una perla di saggezza
popolare o semplicemente un suo pensiero. Lo portava sempre con
sé e a volte lo
rileggeva in cerca d’ispirazione.
Era
inizio settembre, lei si trovava nella stanza da pranzo; i suoi
genitori erano
andati a teatro quella sera e lei era rimasta sola con i suoi pensieri.
Sfogliare il quadernino le era venuto naturale, in genere
l’aiutava a distrarsi
dai suoi problemi, ma quella particolare frase l’aveva fatta
pensare
esattamente a chi voleva togliersi dalla testa per un po’:
Valeria.
Aveva
conosciuto Valeria in quarto ginnasio, ed era subito scattato qualcosa
tra
loro. Erano migliori amiche da quattro anni, quello sarebbe stato il
quinto.
Avrebbe potuto esserlo, se non fosse stato che non aveva una
conversazione
decente con Valeria da mesi.
Non
se n’era resa bene conto, all’inizio. O meglio,
sì, qualcosa aveva notato, ma
aveva sottovalutato il problema. Solo da poco si era resa conto di
quanto fosse
effettivamente grande la frattura che si era creata tra lei e la sua
migliore
amica.
L’aspetto
peggiore di quella situazione era che la colpa era tutta sua.
Si
era comportata come una perfetta idiota e l’aveva
gradualmente allontanata da
sé, senza però volerlo fare. Non si era
comportata affatto bene con Valeria, e
ora lo vedeva chiaramente. Perché? Non lo sapeva neanche lei.
Ripensava
al passato e non capiva perché avesse agito così;
si dava della stupida, ma non
poteva cambiare quel che aveva fatto, non importa quanto profondamente
ne fosse
pentita.
Quindi,
come se perdere la sua migliore amica non bastasse già di
suo a farla star
male, si trovava a dover fare i conti anche con il senso di colpa.
Aveva
fatto tutto da sola. L’unica cosa che avrebbe potuto
“imputare” a Valeria era
non aver fatto nulla per impedirglielo.
L’aveva
lasciata fare. Aveva osservato in silenzio senza cercare in alcun modo
di
fermarla.
Perché?
Questo lo sapeva solo Valeria, ma non era una colpa. Semmai, un segno
di
disinteresse.
Se
le importava, perché era stata zitta?
Ma
Stella non accettava l’idea che non le importasse affatto.
Non aveva senso.
Forse, semplicemente, non gliene importava abbastanza.
“Resta
il fatto che a sbagliare sono stata io. Valeria mi manca… e
fa male…” scosse la
testa, come a voler scacciare con quel gesto l’improvvisa
voglia di piangere
che l’aveva assalita a tradimento.
Che
poteva fare? Doveva parlarle. Ma come?
Valeria,
per sua stessa affermazione, odiava le cose serie.
E
quella situazione, almeno dal suo punto di vista, era fin troppo seria.
Stella
non odiava le situazioni serie, ma non sapeva gestirle. Non
c’era abituata;
quella situazione era completamente nuova per lei. Non aveva mai tenuto
a qualcuno
come a Valeria, prima.
Lei
non era la prima amica che perdeva, ma era la prima che davvero non
voleva
perdere, realizzò in quel momento.
Sì,
decisamente doveva parlarci. Non poteva aspettare che fosse
l’altra a fare la
prima mossa – anche perché era chiaro che non
sarebbe successo. “Io ci tengo,
io devo agire”, si disse.
Se
lo diceva da giorni, ma non riusciva mai a decidersi.
“Perché sono così…
incapace?” si chiese retoricamente, arrabbiata con se stessa.
Non che fosse una
novità. Lentamente, si alzò, recuperò
il quaderno e tornò in camera, rimandando
di nuovo la questione.
Il
rientro a scuola non l’aiutò a decidersi, anzi.
Valeria si comportava come se
niente fosse, come se fosse tutto perfettamente normale.
Ma
non lo era.
Quell’ignorare
la situazione disorientava Stella. Non capiva niente, aveva sempre
più dubbi su
cosa fosse giusto fare.
Ma
doveva fare qualcosa? Non andava bene così, in fondo? Certo,
non era la stessa
cosa ma la situazione non era neanche drastica… magari con
il tempo le cose
sarebbero tornate a posto da sole.
No,
sussurrava una voce dentro la sua testa, dovete chiarire. Parlale.
Stella
ignorò quella vocina. Si sentiva in colpa, ma sembrava tutto
così facile, quasi
normale… perché rischiare di rovinarlo?
La
risposta le giunse abbastanza presto, chiara ed inequivocabile.
Era
un giovedì, in classe c’erano molti assenti.
Epidemia? Forse, ma più
probabilmente c’entravano le interrogazioni del giorno dopo.
Stella si ritrovò
Valeria come compagna di banco.
E
l’illusione svanì.
Si
era detta che andava tutto bene, che poteva tornare tutto come prima,
che forse
anche Valeria lo voleva… aveva mentito a se stessa.
Era
confusa, non sapeva che fare e aveva sperato di non dover fare niente.
Si era
detta che, trattandosi di Valeria, i gesti valevano più di
mille parole, e
forse davvero non era il caso di parlarne direttamente. Si era
sbagliata.
Standole
vicina, l’avvertì chiaramente. Poteva parlarle,
certo. Ma era come se tra loro
due ci fosse un muro.
“È
solo una mia impressione?” si chiese. Avrebbe fatto qualsiasi
cosa per
conoscere i pensieri dell’amica – andava bene
definirla così? –, ma non era
possibile.
Così,
eccola di nuovo al punto di partenza. “Devo
parlarle.”
Intanto
però, la sua indecisione le era costata un altro mese.
Uscendo
da scuola, non andò alla fermata dell’autobus come
faceva sempre. Non fece un
tratto di strada con i suoi amici. Girò dalla parte opposta,
troppo agitata per
pensare logicamente e decisa a farsela a piedi. Da lì a casa
sua le ci volevano
venti minuti, circa, e in quel momento una bella camminata era
esattamente ciò
di cui aveva bisogno per calmarsi.
Camminare
l’aiutava a lasciar correre i pensieri. Le permetteva di
farseli scorrere tutti
addosso senza focalizzarsi su nessuno. Almeno, normalmente funzionava
così.
Quella volta, non andò esattamente in quel modo. I pensieri
scorrevano, certo,
ma li avvertiva tutti distintamente, e quasi tutti le facevano male.
Non aveva
mai provato una sensazione così intensa. Che
cos’era? Rabbia? Frustrazione?
Odio per se stessa? Forse un misto di tutt’e tre, con sullo
sfondo una profonda
tristezza. L’unica cosa che sapeva per certa era che si
sentiva così per la
prima volta. Era come accecata, in balia delle emozioni, e aveva
un’incredibile
voglia di piangere… cosa che non poteva fare,
perché a casa avrebbe potuto
esserci qualcuno, e lei ci sarebbe arrivata tra poco, e non aveva
intenzione di
farsi vedere da nessuno in quelle condizioni.
“Posso
pure parlarle, ma a questo punto che spero di ottenere? Nulla. Ho perso
troppo
tempo, fatto troppi sbagli… non sarà mai come
prima.”
Si
strofinò bruscamente l’occhio con una manica della
felpa. Tutta quella
negatività non l’aiutava minimamente, se ne
rendeva conto, semplicemente non
riusciva a scrollarsela di dosso. Respirò a fondo una, due,
tre volte. “Devo
calmarmi, devo calmarmi, devo calmarmi” iniziò a
ripetersi. Accelerò il passo e
lo sforzo fisico fece il miracolo; quando arrivò a casa, si
era calmata un po’.
Era
riuscita a scacciare la rabbia, ma insieme ad essa erano andate via
tutte le
sue energie. Si sentiva completamente svuotata, ora, ed improvvisamente
stanca.
Era ora di pranzo, ma non aveva fame. Per fortuna, constatò
entrando in casa,
sua madre non era ancora tornata. Lentamente, con la mente annebbiata,
entrò in
camera sua e raggiunse il letto. Tempo di poggiare la testa sul cuscino
e
scivolò nell’incoscienza. Più che dal
sonno, fu vinta da un torpore confuso.
Non
sognò niente, o almeno quando si svegliò non se
ne ricordava. Si mise seduta,
ma forse fu troppo brusca, perché ebbe un giramento di testa
e dovette tenere
gli occhi chiusi per qualche secondo prima di poter guardare la stanza
senza
vedere i mobili muoversi intorno a lei.
Ancora
non pienamente lucida, si guardò intorno. Il suo sguardo fu
subito attirato
dalla parete accanto al letto. Vi aveva attaccato varie cose; vecchi
biglietti
del cinema, alcuni poster, disegni, biglietti
d’auguri… la maggior parte di
questi ultimi era opera di Valeria.
Ne
rilesse un paio, e un sorriso malinconico le incurvò le
labbra. Era stato
bello, essere amiche.
Più
che triste, ora si sentiva nostalgica. Allungò una mano
verso il comodino, dove
solitamente posava il cellulare, poi si ricordò di averlo in
tasca e corresse
il movimento.
“Perché
mi voglio così male?” si chiese scorrendo i vecchi
messaggi con Valeria. Voleva
ricordare. Passò più di un’ora a
rileggere vecchie conversazioni, e quando finì
si era fatta più bene che male. Aveva di nuovo le lacrime
agli occhi, ma non
per la tristezza. “Mi sono commossa per dei vecchi messaggi.
Sono un caso
perso” sentenziò tra sé, ma sorridendo.
Il
rimpianto c’era. Ricordare quanto speciale fosse stato il
loro legame le aveva
inevitabilmente provocato un moto di rimpianto per il passato;
tuttavia, non
era quello il sentimento dominante.
Dominante,
in realtà, non era la parola giusta.
La
sua mente si era trasformata in un groviglio confuso di emozioni. Se le
avessero chiesto “Come ti senti?” in quel momento,
la risposta più sincera
sarebbe stata “Non lo so”.
Ma
che significava non lo so? Era stufa di non capire nemmeno se stessa.
Cercò di
concentrarsi.
Come
già detto, c’era un po’ di rimpianto.
Poi… era felicità quella? Era davvero
possibile? Non essere felice, esserlo per dei vecchi messaggi, vecchi
biglietti… l’avevano fatta sorridere a suo tempo,
certo, ma come riuscivano a
farla sorridere anche ora? La persona che li aveva scritti non pensava
più
niente di tutto ciò…
…almeno
così doveva supporre. Non aveva nessuna prova del contrario.
“In
realtà, non ho nessuna prova e basta. Sono tutte mie
assunzioni. È successo
tutto perché ho fatto delle assunzioni errate, e sto andando
avanti sempre
sulla base di ciò che credo di capire basandomi sulle sue
azioni. È sbagliato.”
Si
riscoprì stranamente determinata e, in qualche modo, piena
di speranza. A
Stella piaceva definirsi sognatrice realista, definizione che si
dimostrò
efficace anche in quell’occasione.
Da
una parte vedeva che le cose non sarebbero mai tornate come prima. Lo
sapeva.
Eppure,
sperava che non fosse così, non poteva impedirselo.
Per
una volta, la sua mancanza d’autostima le tornava utile; lei
non era
infallibile, quindi chissà, poteva anche sbagliarsi. Magari
mezza possibilità
di risolvere c’era.
L’arrivo
di sua madre interruppe i suoi ragionamenti. Andò a
salutarla, sforzandosi di
apparire il più normale possibile. Ci riuscì.
Più
tardi cenarono in silenzio, e quando tornò nuovamente a
letto, Stella si stupì
di trovarsi calma. Tutte le emozioni provate quel giorno erano
gradualmente
scivolate via, lasciandole una convinzione nuova. Recuperò
il cellulare e aprì
i messaggi.
–
Ti va di fare un discorso serio? – digitò rapida.
Il numero lo sapeva a
memoria; inviò.
La
risposta, una volta tanto, non si fece attendere. Un semplice
“va bene”, ma
andava benissimo. Mise via il cellulare.
Non
sapeva cosa le avrebbe detto. C’erano troppe cose da dire;
molte probabilmente
erano superflue, ma sarebbe riuscita a capire quali?
L’unica
cosa di cui era certa è che il giorno dopo sarebbe stata
colta dall’ansia –
cosa che avvenne puntualmente –, ma sapeva anche che andava
bene così.
Le
due ragazze non ebbero bisogno di accordarsi ulteriormente. La mattina
seguente
uscirono entrambe venti minuti prima del solito e raggiunsero, ognuna
per
proprio conto, una pasticceria a pochi metri dal loro liceo. Si erano
date
appuntamento lì per fare colazione talmente tante volte che
vedercisi in quel
frangente era sembrato ovvio a tutt’e due, nonostante la
diversità della
situazione.
Non
entrarono; Stella appoggiò la schiena al muro accanto
all’entrata e Valeria le
si posizionò davanti. Come lei stessa aveva previsto, Stella
non era tranquilla
come la sera prima, però almeno era lucida.
Quel
«discorso» molto probabilmente non avrebbe cambiato
nulla; ne era conscia.
Non
le importava – cioè sì, le importava;
ma non al punto da farla rinunciare.
Sentiva
che era giusto parlarle, provare a chiarire. Almeno non avrebbe
rimpianto di
non aver tentato quando poteva. In più, sentiva di
doverglielo, nonostante
tutto.
–
Allora? – l’esortò Valeria. Stella si
chiese cosa stesse pensando.
Prese
un bel respiro e finalmente alzò lo sguardo, fissandolo in
quello dell’amica.
Sì,
forse non sarebbe cambiato niente. Ma forse no.
In
ogni caso, le avrebbe aperto il suo cuore perché, che
fossero amiche o no,
Valeria era sempre Valeria.
Sorrise
e cominciò.
–
Tu… eri fantastica. –
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