Era
una splendida mattinata di marzo, e il cielo mostrava in tutto il suo
splendore
un azzurro magnifico, che ti apriva il sorriso solo ad osservarlo.
La
sala d’attesa della clinica era accaldata e resa fastidiosa
dall’umidità che
regnava sovrana all’interno. Le seggiole celesti poggiate
alle pareti erano
tutte vuote, eccetto che per l’ultima della fila di sinistra.
Una
ragazza era seduta lì, tenendo lo sguardo basso, e sembrava
perduta e
concentrata nell’osservare le mattonelle del pavimento come
se fossero la più
bella delle opere d’arte.
Teneva
un gomito poggiato sul ginocchio, e nella mano aveva raccolto il mento,
pensosa.
Di
tanto in tanto, come in preda ad un tic nervoso, si mordicchiava il
labbro
inferiore.
Aveva
i capelli biondo scuro spartiti in due dalla riga, e una frangia le
cadeva
ordinatamente sulla fronte senza mai sfiorarle gli occhi.
La
maglietta che indossava aderiva benissimo al suo corpo, le spalle
piccole e la
statura non da giocatore dell’NBA. Alla mano destra, le cui
dita tamburellavano
frenetiche sulla guancia, era infilato un anello argentato.
Passato
un quarto d’ora a rigirarsi ansiosa nella stessa posizione,
Francesca si alzò
con un sospiro seccato, poi cercò nella tasca dei jeans
scuri un po’ di monete
e si diresse al distributore.
Comprò
una barretta al cioccolato, scartata e divorata in brevissimo tempo,
poi la
porta che stava guardando prima finalmente si aprì.
Ne
uscì fuori un dottore vestito con un camice sbottonato, con
degli occhiali sul
naso e un sorriso sulle labbra.
Francesca
sapeva già cosa voleva dirgli.
Un
ragazzo con un cappello ben calato in testa stava scrivendo sul muro
con una
bomboletta. La agitò velocemente, impaziente di scrivere,
masticando una
chewing-gum.
Poi
incominciò a tracciare delle parole sul muro.
Francesca,
seduta sul muretto di fronte a lui, abbassò lo sguardo per
vedere cosa stava
facendo.
Compiaciuta
che quelle parole fossero per lei.
-Visto
come sono bravo?-
Lei
sorrise e scese giù con un salto, portandosi accanto a lui.
Guardò
la scritta dedicata a lei, colorata e rotonda, saltava subito
all’occhio ed era
impossibile che passando non si notasse. I colori che lui aveva scelto
per
scrivere quel ‘Francesca ti amo’, erano vividi
impressi nel muro, come la prima
pennellata su un quadro, e luccicavano.
La
ragazza si morse un labbro, contenta e col cuore che le andava a mille,
poi lo
abbracciò e gli schioccò un bacio sulla guancia,
che ben presto si trasformò in
qualcosa di più avventato.
Francesca
si staccò, e guardandolo bene negli occhi col sorriso sulle
labbra, disse
-Non
possiamo più stare insieme-
Quello
forse pensò che fosse uno scherzo, perché rise e
le diede un bacio sulla testa
bionda.
-E
perché mai?- chiese, sempre ironico, credendo che facesse
finta, che fosse un
gioco.
Lei
non cambiò il tono, né la voce.
Continuò a fissarlo.
-Sono
incinta di due mesi-
Davide
indossò velocemente il suo grembiule bianco sul quale era
stampato a grandi
caratteri il nome di una birra, se lo allacciò in vita e
cominciò a lavare i
bicchieri sporchi lasciati sul bancone.
Erano
le undici meno dieci e la clientela non accennava a diminuire. Un uomo
vicino a
lui continuava a chiacchierare con quello che stava seduto sullo
sgabello dalla
parte opposta, un uomo molto mogio e triste.
E
quegli uomini, aveva imparato, erano la maggiore fonte di guadagno.
Finiti
di sciacquare i boccali, prese subito un taccuino, una penna e
oltrepassò il
banco per dirigersi ai tavoli.
C’era
una coppietta nella zona che doveva servire, e si preoccupò
di prendere subito
le ordinazioni.
Una
ragazza mora gli passò accanto, trascinandolo per un braccio
via dal suo
tavolo.
-Che
fai? Non avevo finito!- domandò.
Lei
lo prese per la maglietta e lo tirò nel retro.
Quando
furono soli la ragazza, vestita da cameriera, si fermò a
parlare.
-Potrei
anche pensare male, sai?- commentò lui, ma si era fatto
rosso.
Quella
alzò un sopracciglio come a dire ‘Ma che diavolo
dici?’ e lui smise subito
l’espressione che aveva assunto.
-Non
posso fare il mio giro di ordinazioni stasera!-
-Perché?-
-Perché
la mia zona è presidiata da un sacco di maniaci ubriaconi!
Non sono abituata a certi
commenti, io!- disse lei, gonfiando il petto con aria di
superiorità –sai, sono
una ragazza per bene!-
Fu
Davide ad alzare il sopracciglio stavolta, ma badò bene di
non farsi vedere da
lei.
La
cameriera sfoderò gli occhi dolci che disponeva per
convincerlo.
Lui
sbuffò seccato. Poi si rassegnò; non era capace a
dire di no alle persone.
-E
va bene, va bene…-
Non
finì nemmeno di dirlo che lei strillò di gioia e
gli saltò al collo dandogli un
bacio sulla guancia.
Un
uomo alto e muscoloso comparve sulla soglia del retro.
-Niente
tresche sul lavoro!- tuonò e prendendo il ragazzo per la
maglia lo ributtò
fuori a lavorare.
Quella
sera sembravano averlo preso tutti per un sacco di patate.
Davide
si incamminò verso l’altra parte del locale, dove
effettivamente vide un tavolo
piano di ragazzi grandi che probabilmente erano i consumatori delle
varie
bottiglie vuote che giacevano sul legno.
Ignorando
i loro volgari commenti, sorrise fra sé. Forse una di quelle
sere sarebbe
riuscito a convincere Silvia ad uscire con lui; la bella cameriera
aveva delle
gambe perfette invidiate dalle clienti e generosamente apprezzate dalla
fauna
maschile che si rifugiava a passare il tempo in quel bar.
Davide
sospettava, ma non si azzardava a formulare ipotesi concrete, che anche
Bruto
si fermasse qualche minuto ad osservare come svolazzava la ragazza fra
i
tavoli. E il motivo non erano i cocktail che stava servendo.
Bruto
era un po’ come un secondo padre per lui: da quando lavorava
nel suo locale,
ovvero da un anno e mezzo, gli aveva insegnato tutti i segreti per
avere
successo con quel lavoro. E a lui piaceva molto, si divertiva a farsi
trascinare nella mischia eccitata di ragazzi, uomini e donne che si
fermavano
volentieri a passare la serata nel pub.
Ormai
conosceva tutti gli abituali clienti.
Una
signora anziana, piccola e composta, che veniva solo la mattina e
ordinava
abitualmente la colazione; un paio di studenti del liceo a pochi metri,
che
quando marinavano la scuola portavano lì con loro anche
alcune amiche carine.
Un
barbone che si faceva vedere solo tardi, e veniva lì a
spendere i soldi
elemosinati in birre che lo rendevano molto sbronzo.
Non
si poteva dire che le cose andassero male.
D’altra
parte, aveva già il suo piccolo appartamento ed era certo
che Bruto gli avrebbe
lasciato continuare il lavoro. Era certo che si fosse affezionato a lui.
E
quale cosa migliore se fosse riuscito a mettersi insieme a Silvia?
A
dir la verità, era già riuscito ad ottenere un
“appuntamento” ben mascherato.
Era
una sera, dopo un pomeriggio trascorso all’ospedale per un
presunto caso di
meningite nella zona e relativo vaccino preventivo.
-Che
cavolo di
pervertiti! Non mi hanno mica solo vaccinato, il mio dottore mi aveva
preso per
una bambola vodoo!- Silvia esclamò stizzita massaggiandosi
il braccio e
infilandosi il suo grembiule.
Davide
scoppiò a
ridere, ma si interruppe quando vide Bruto comparire sulla soglia del
retro, le
braccia grandi e muscolose incrociate.
-Ancora
qua voi
due?-
-Beh
mica le birre
si servono sole- rispose rapido il ragazzo, facendo spallucce.
L’uomo
li guardò
mentre si preparavano.
Emise
un brontolio
disinteressato, poi disse con quella voce grossa
-Oh
andatevene via!
Stasera non ho voglia di vedere le vostre facce tutto il tempo!-
Silvia
lo guardò a
bocca spalancata. Davide si accigliò.
-Non
avete capito?-
Li
prese per il
colletto delle maglie e li portò all’uscio del
locale.
-Fuori!-
disse e li
spinse.
La
ragazza si voltò
sorpresa, poi si mise a ridere.
-Ma
che culo!
Abbiamo la sera libera!-
Ma
Davide era certo
di aver visto un sorriso spuntare sotto i baffi dell’uomo,
poco prima che li
gettasse via.
Le
parole poi gli
erano uscite quasi senza che se ne accorgesse.
-Ti
va di andare a
ballare?-
Qualche
minuto dopo
si trovavano chissà come in una discoteca affollata e
caotica.
Lui
si era seduto
impacciato ad uno sgabello, guardando la bella cameriera servire altri
ragazzi
tutti ammucchiati per sbirciare la sua scollatura. Ma sapeva che faceva
tutto
parte del gioco.
Silvia
lo aveva
trascinato a ballare, e non che lui fosse riluttante,
tutt’altro, ma non era
affatto preparato a quello.
Cercò
di non fare
la figura dello stupido, ma era comunque difficile trovarsi a stretto
contatto
con quella ragazza e non essere in imbarazzo.
Ricordava
anche di
aver visto poi entrare un gruppo di ragazzini nel locale, probabilmente
alle
prime volte in una discoteca, tutti eccitati ed esaltati.
Poi
c’erano stati
vari bicchieri vuoti che scorrevano sulla sua parte di banco, e la
vista che
mano a mano si annebbiava e tutto diventava più confuso.
Gli
sembrava di aver visto una chioma bionda ballare vicino a lui,ma di
quella sera
non ricordava null’altro se non che si era svegliato la
mattina nella sua
macchina, con i muscoli indolenziti e la schiena che minacciava di
spezzarsi a
metà.
Oltre
ovviamente ad un bel mal di testa. Probabilmente, aveva ricostruito, si
era
ubriacato. Ma non gli sembrava di aver provocato chissà
quali danni, e non
aveva nessun segno rosso sul collo, o livido, che testimoniasse una
notte
brava. Dedusse che aveva fatto, anche nell’inconscio, il
bravo ragazzo.
Francesca
stava appollaiata sulla sedia accanto al telefono fisso, picchiettando
con le
dita smaltate col lucido sulla tastiera numerata. Aveva
nell’altra mano un
foglietto con su scritto un numero di telefono, ma non si azzardava a
comporlo.
Il
telefonino in tasca le vibrò, era certamente un altro
messaggio di quel ragazzo
carino, quello di un paio di giorni fa che aveva mollato con quella
spiacevole
quanto inevitabile verità.
Erano
esattamente due giorni che la martellava di sms, domande e parolacce.
Lei aveva
provato a spiegarsi, a cancellare il suo numero, ma niente. Non ne
voleva
sapere di sparire. E per lei le persone, quando si mettevano contro di
lei,
dovevano solo scomparire dalla sua vita per sempre.
Anche
con le maniere forti.
Lesse
più volte il numero che aveva fra le mani e
ricontrollò l’orario. Erano le
quattro, e le sembrava abbastanza decente; né troppo presto,
né troppo tardi.
Respirò
per calmarsi, ripassando a mente tutto il discorso che si era preparata.
Se
lo ricordava. L’importante era apparire sicura e non farsi
sbattere il telefono
in faccia.
Abbassò
il copri tasti e iniziò a digitare, le dita che le tremavano
per il nervoso.
Finalmente
iniziò a squillare.
La
porta della stanza era chiusa a chiave, nel caso di ospiti indiscreti.
Il
respiro pesante contro la cornetta testimoniava quanto era agitata.
Davide
salì sbadigliando le scale fino ad arrivare al suo
appartamento.
Aprì
la porta gettando con un colpo secco il mazzo di chiavi sul mobiletto,
e appena
si tolse la giacca sentì il trillo del telefono.
Scavalcò
velocemente il divano con un balzo e allungò una mano per
prendere la cornetta.
La alzò e la portò all’orecchio.
-Pronto?-
La
ragazza sobbalzò sentendolo rispondere con voce
più grande. Ebbe un attimo di
panico e rapidamente chiuse il telefono.
Era
diventata tutta rossa e agitata. Riguardò il numero che
aveva composto, e lesse
il nome sopra scarabocchiato.
“Davide
Ferri”.
Provò
a farsi nuovamente coraggio.
Riprese
in mano la cornetta e fece daccapo il numero. Squillò di
nuovo e dopo
pochissimo la voce maschile di prima rispose.
-Pronto?-
Lei
trasse un respiro.
-Parlo
con Davide Ferri?-
Davide,
dall’altro capo, ascoltando il tono di voce femminile e il
modo formale con cui
lo aveva chiamato, si accigliò e si drizzò a
sedere.
-Sì,
sono io. Cosa è successo?-
Già
temeva qualche incidente a persone care.
Francesca
mancò la risposta pronta, perché il nervosismo la
impallava come un virus col
computer.
-Forse
tu non ti ricordi di me- esordì mordendosi un labbro
preoccupata.
Ma
ormai doveva andare avanti.
A
questa uscita il ragazzo pensò ad uno scherzo. Cosa
significava tutto quello?
-Scusi
ma chi parla?- domandò alzando un sopracciglio.
Lei
arrossì di più.
-Mi
chiamo Francesca Daniele. Io… anzi noi ci siamo
già conosciuti-
Le
sembrò un pessimo discorso da fare ad uno sconosciuto e
pregò che non la
prendesse per matta.
Davide,
perplesso, scavò nella memoria per trovare un qualcosa che
gli ricordasse quel
nome. Ma non gli suggeriva nulla.
-Mi
spiace, forse ha sbagliato persona- rispose più cortese.
Francesca
si animò.
-No
no!- si affrettò a dire –ecco… non ho
sbagliato persona!-
Sbuffò,
capendo che così non avrebbe ottenuto nulla.
-Ascolta,
Davide… sicuramente tu mi hai già visto, ma non
ti ricordi di me. Sai, io sono
incinta-
Davide
inarcò le sopracciglia scuotendo la testa. “Ma
cosa voleva quella da lui?”.
-Beh,
tanti auguri, mi fa
piacere…- stava già
per chiudere la conversazione.
Lei
intuendo ciò che voleva fare si affrettò a
vuotare il sacco.
-Sono
incinta di te-
-Cosa?-
Francesca
intuì dal suo tono che non
le credeva.
Incespicò sulle parole.
-Senti…
possiamo vederci? Avrei bisogno di parlarti di persona-
Il
ragazzo scosse la testa.
-Scusa
io non so chi sei, né so di cosa tu stia
parlando… perciò…-
Ma
la bionda parlò sulle sue parole.
-Sto
parlando della sera in discoteca!-
In
discoteca?
Davide
rifletté lentamente su quella parola. Di quale discoteca
stava parlando quella
ragazza? Forse di quella serata… no, era impossibile.
Così impossibile che
poteva essere vero?
Decise
di ascoltarla.
-Possiamo
vederci?- ripeté quasi con tono di supplica.
La
situazione era strana fino all’inverosimile, ma al ragazzo
non sembrava tanto
una cosa da riderci.
Esitò
un momento prima di rispondere e fece un sospiro.
-Mi
assicuri che non è uno scherzo? Non è uno stupido
scherzo telefonico? Guarda che
se è così, rintraccio il numero e ti vengo a
cercare-
Non
gli piaceva essere preso in giro, e quella gli sembrava una balla bella
e
buona.
-Sì,
ti prometto, giuro, ti faccio un patto col sangue se vuoi-
-Cosa
vuoi da me? Seriamente- domandò, stavolta più
tranquillo.
Francesca
si portò una ciocca bionda dietro l’orecchio.
-Voglio
parlare con te, a quattr’occhi. Ti prego- aggiunse.
Se
prima lo sembrava, ora ne era certo.
Quella
storia era una pazzia.
Ma
com’è che aveva letto da qualche parte?
È sempre meglio assecondare i pazzi.
-D’accordo,
d’accordo…- assentì.
La
ragazza sospirò di sollievo.
-Possiamo
vederci… che ne dici al bar? Quello dietro il classico-
Che
poi sarebbe quello dove lavoro io, aggiunse mentalmente lui.
-Ehm…
d’accordo. Domani?-
-Domani
all’una e mezza-
-D’accordo-
-Grazie-
-Ma
figurati-
Appoggiò
la cornetta, chiudendo la conversazione.
Stette
un momento sul divano riflettendo. Poi ripensò alle parole
della ragazza.
“Sono
incinta di te”.
Gli
scappò un sorriso che si trasformò in una breve
risata.
Ma
che stupido scherzo idiota. Si alzò dal divano e
andò a farsi una doccia.
Quella
sera aveva intenzione di uscire con Silvia.
Francesca
poggiò il telefono mentre il battito del suo cuore si
placava lentamente; non
credeva di avere il coraggio di fare una cosa del genere, ma
evidentemente si
era sottovalutata.
Come
era diventata sua abitudine, si strofinò il palmo della mano
sulla pancia e la
osservò.
Piatta
come sempre, o quasi a parte qualche piccola onda che la increspava.
La
causa di tutto era stata quella sera.
Il
ragazzo dai
capelli castani infilò le mani sotto la sua maglia,
alzandogliela un po’.
Francesca sospirò mentre sentiva la sua lingua accarezzarle
il collo. Cercò
nuovamente la sua bocca e desiderò di sentirlo con un
contatto più intimo.
Quella
era la sua
sera; sapeva che le sue amiche la stavano guardando ballare e baciarsi
con quel
bel ragazzo; sapeva che la invidiavano.
Voleva
sentirsi
grande.
Così
si staccò e
prese una mano al ragazzo, cercando di uscire dalla calca che impazzita
affollava la pista.
Uscirono
fuori e
una volta lì, non aveva idea di cosa fare. Ma il ragazzo non
sembrava pensarla
allo stesso modo. La attirò a sé e prese possesso
delle sue labbra, mentre
avanzava verso una macchina.
Si
staccò per
aprire lo sportello posteriore e la fece sdraiare con malagrazia, quasi
di
forza.
Francesca
cercò di
adattarsi ai suoi movimenti, e tutto sommato, a parte il fatto che
probabilmente lui non aveva idea di chi lei fosse e di cosa stesse
facendo, poteva
accontentarsi.
-Silvia…-
lo sentì
dire mentre scivolava dentro di lei.
Ma
nemmeno lo
ascoltava più, anche lei in preda al delirio.
Dopodiché
fu intenso,
rapido e al sapore di alcol.
Ricordava
le sue mani affannate e impazienti che le scorrevano sulla pelle e il
sapore
forte di alcol che impastava la sua bocca. Ripensò al suo
volto, ai tratti di
un paio di mesi fa che riusciva a ricordare, per dare un volto alla
voce che
aveva appena sentito.
E
se lo ricordava bene, eccome. Certo la prima volta poteva andare
meglio, ma se
la ricordava molto bene.
Quel
viso magro, i capelli castani e gli occhi grandi. Grandi, verdi e
intensi.
Non
provava alcuna attrazione per lui, semplicemente aveva creduto che
fosse un bel
ragazzo, e una volta che si era spinto troppo in là aveva
tanta voglia di
crescere che non aveva badato a sciocchezze come il posto, la persona,
e se lui
fosse realmente cosciente e padrone delle sue azioni.
Aveva
parlato con voce adulta. Chissà quanti anni poteva avere?
Più
di venti all’incirca. La sua voce era sicura e gentile, mai
offensiva.
Aveva
avuto la sua prima volta con un ragazzo che non conosceva nemmeno.
E
quel ragazzo, alla prima occasione, aveva fatto centro.
Il
bar era gremito di gente, quella sera alle otto. Tanta gente che non si
riuscivano a distinguere fra loro e sembravano formare
un’unica macchia variopinta
e ciarliera. Davide reggendo in alto un vassoio piatto si fece largo
sgomitando
fra la calca e raggiunse una zona. Aveva da consegnare due birre: una
ad un
ragazzo seduto con i suoi amici, ed un’altra alla ragazza
bionda al tavolo
all’angolo.
Stava
seduta mogia mogia, con una mano che sorreggeva il mento e girava il
cucchiaino
nel suo frappé.
Il
ragazzo arrivò davanti a lei e le posò la birra
sul tavolo di legno.
Notando
che non aveva cambiato espressione, e cioè che rimaneva
scura in volto, fece un
gran sorriso.
-Ehi,
sorridi!- le disse.
La
ragazza alzò lo sguardo incontrando i suoi occhi e
automaticamente stirò le
labbra. Ma un secondo dopo sgranò gli occhi, riconoscendo il
suo volto.
Lui
se n’era già andato.
Francesca
era certa di non sbagliarsi. Era il ragazzo con cui aveva parlato al
telefono
qualche ora prima. Seguì con lo sguardo la sua sagoma che
tornava al banco.
Doveva
assolutamente parlargli; faccia a faccia gli avrebbe creduto di
più.
Intanto
lui, tornato dietro il banco, stava riempiendo un boccale con un
cocktail
ordinato dal signore davanti a lui.
Bruto
lo superò reggendo una bottiglia.
-Vai
a cercare Silvia- ordinò burbero.
-Aspetta
che…-
-Vai
a cercarla- scavalcò la sua opposizione con tono fermo e che non ammetteva repliche.
Allora
il ragazzo, servito il cocktail, sgusciò fuori da quella
ressa. Probabilmente
stava telefonando ad una sua amica o si stava facendo una sigaretta di
nascosto
da Bruto.
Ma
quello che vide quando uscì fuori gli fece più
male di uno schiaffo.
Silvia
era aggrappata con tutto il suo impegno al maglione di un tizio alto
che la
sosteneva, ed era impegnata ad allietarlo con la sua bocca. Fu come se
gli
fosse caduto un mattone sullo stomaco. Davanti a quella scena non
poteva fare
nulla, e gli sarebbe sembrato da scemi interromperli. Così
tornò dentro,
rattristato.
Bruto
lo vide rientrare, solitario, e lo stette a fissare mentre si impegnava
a
servire un altro signore. Gli sembrò che fosse successo
qualcosa che lo aveva
reso triste, e non gli era difficile immaginare cosa.
Pensò
di rilanciargli una battuta sarcastica, ma poi la folla di persone che
si
affannava per ordinare lo fece desistere.
Francesca
si alzò dal tavolo e si diresse decisa verso il banco. Prese
posto su uno
sgabello, e decisa aspettò che le rivolgesse attenzione.
Davide
osservò rientrare, con un sorriso compiaciuto sul viso,
Silvia e prendere
servizio; non potendo digerire così presto la scenetta a cui
aveva assistito
prima, si spostò verso l’altra parte della folla
che attendeva.
Così
facendo si trovò di fronte a lei. E lei lo riconobbe subito.
Era
strano, pensò Francesca, vederlo così tutto preso
dalle sue bibite, e
ricordarlo mentre sudato ed eccitato provvedeva a farle provare quella
che in
teoria doveva essere la sensazione più bella di tutte. Lei
ancora non conosceva
abbastanza quel mondo e le mani del ragazzo erano state la sua guida
impacciata.
-Che
prendi?- domandò spiccio lui, seccato da qualcosa.
-Non
voglio ordinare- rispose la bionda.
-Beh
allora libera il posto ad altri che devono consumare-
ribatté il ragazzo.
Non
c’era dubbio. La voce profonda era quella, non poteva
sbagliarsi; la stessa che
aveva udito quel pomeriggio attraverso la cornetta. Anche a Davide
parve
familiare quel tono, ma aveva altro per la testa e non poteva
preoccuparsene.
-Voglio
parlare con te-
Quella
frase gli suonò stranamente familiare, come se
l’avesse già sentita. E una
volta che ebbe collegato i due momenti, alzò un sopracciglio.
-Tu
sei quella di oggi pomeriggio?-
La
ragazza annuì.
-Ma
cosa cavolo vuoi da me?- domandò stufo.
-Tu
mi hai messo incinta, cavolo! Voglio almeno che tu lo sappia!-
ribatté irritata
lei.
Il
ragazzo iniziò a stufarsi davvero di quella storia.
Bruto
aveva osservato lo scambio di battute che c’era stato fra i
due, e intervenne.
-Se
mi permettessi di spiegarmi forse…- insisteva lei.
Bruto
afferrò Davide per il laccio del grembiule e lo spinse fuori
dal banco a
parlare con lei.
-Basta,
hai finito stasera. Facciamo lavorare un po’ la ragazzina-
borbottò.
Lui
si ritrovò scaraventato di lato, e subito dopo una bionda
gli si parò contro
minacciosa.
Lo
afferrò da un polso e se lo trascinò fuori.
-D’accordo,
è una pazzia. Ora mi dici chi sei- incrociò le
braccia, immusonito, con ancora
la tenuta di lavoro addosso.
-Te
l’ho detto! Mi chiamo Francesca, a proposito…
piacere-
Davide
non rispose ma la invitò a proseguire.
-Noi
ci siamo incontrati due mesi fa, una sera in discoteca-
-In
discoteca? E quale?-
-Quella
in via Aldo Moro- rispose pronta la ragazza.
Il
ragazzo rifletté. Era la stessa, se non sbagliava, dove era
andato quella sera
con Silvia.
-E
che avrei fatto? Io non ricordo nulla-
-Ci
credo, eri ubriaco fradicio- commentò lei.
-Abbiamo
ballato… tu avevi una maglietta nera, a righe, e un
giubbotto pure nero-
Lui
ci pensò su, e scavando fra i ricordi ammise a se stesso che
le versioni
collimavano.
Una
stanza illuminata ad intermittenza, tante grida esaltate e una ragazza
bionda
che lo accompagnava sulla pista. Che avesse ragione lei?
-Sai
che forse…? Ma come fai a ricordarti tutte queste cose?-
chiese curioso.
Francesca
si morse un labbro e arrossì; spostò a terra lo
sguardo prima di rispondere con
voce flebile e timida.
-Me
lo ricordo perché abbiamo fatto l’amore-
Questa
risposta fece avvampare anche lui.
-Sei
sicura?- chiese esitante
-Sì.
Era la mia prima volta- confidò tornando a guardarlo.
A
questa uscita Davide si sentì quanto mai imbarazzato; non
era certo da lui fare
cose del genere, andare a farsi una ragazzina per un rapporto che
sarebbe
durato solo una notte.
Come
se un peso gli gravasse improvvisamente sullo stomaco, aggiunto a
quello di
prima.
Fu
preso dai sensi di colpa.
-Mi
dispiace- disse serio.
La
guardò, cercando di incrociare i suoi occhi.
Era
notevolmente più piccola di lui, e si notava.
-Non
devi scusarti, e non è questo il problema-
proseguì la ragazza, con tono più
deciso.
Prese
fiato e si decise a vuotare il sacco.
-Il
problema è che sono incinta di due mesi-
Un
terzo mattone piombò sul suo stomaco. Fu tentato di ridere,
e di scuotere la
testa. Credeva fosse tutto un terribile scherzo.
-Non
è possibile-
-Oh
sì che lo è- confermò Francesca.
-Non
può essere-
-è
da due mesi che non ho più le mestruazioni, e ho fatto pure
il test. L’unico
ragazzo che può avermi… cioè,
l’unico con cui può essere successo sei tu-
D’improvviso
Davide ebbe bisogno di sedersi perché la testa gli girava e
le gambe
minacciavano di cedere.
Così
fece, appoggiandosi alla panchina dietro di loro. Subito Francesca si
sedette
affianco a lui.
-Allora?-
domandò.
-Allora
che?-
-Allora
che ne pensi?-
-Cosa
ne penso?- ripeté il ragazzo; sorrise ironico.
-Penso
che sia tutta una pazzia. È una cosa troppo impossibile. Io
non ci credo se non
vedo-
Rispose
continuando a tenerla sott’occhio.
Se
anche fosse successo come diceva quella, come poteva essere che lui
avesse scordato
tutto? Che non ricordasse nemmeno un particolare che potesse confermare
le sue
parole?
Caspita,
e poi possibile che nell’unica serata che aveva deciso di
divertirsi un po’
dovesse capitargli quell’intoppo di dimensioni gigantesche?
Se
fosse stato così, ne era certo. Era pura sfiga.
Si
azzardò a fare una domanda dopo che erano rimasti in
silenzio a riflettere
ognuno sui suoi pensieri.
-Ma
sei sicura che sono proprio io? Che sono io che ti ho messa incinta?-
Forse
un po’ spudorato ma che cavolo, meglio essere sicuri, no?
Francesca
si mise a giocherellare con un orecchino argentato che aveva attaccato
al lobo.
-Non
sono mica una che la dà a tutti-
A
lui venne voglia di sorridere.
-Scusa
eh… ma fartela con uno che manco conosci?- disse come se
dovesse spiegare una
cosa molto semplice ad un bimbo testardo.
-Ricordo
che è stata anche colpa tua. E devi farti un esame-
-Cosa?-
Due
erano le cose, a quel punto: o era tutto un enorme scherzo sciocco,
oppure
quella ragazzina aveva seri problemi al cervello.
-Senti
io non ho tempo da perdere con queste sciocchezze….- la
liquidò alzandosi.
La
bionda saltò su immediatamente mentre il ragazzo si stava
allontanando.
Sentì
i nervi saltargli e ogni buonsenso andare al diavolo.
Si
fece rossa e gli gridò dietro
-E
se invece fosse tuo figlio non te ne importerebbe niente? Mi lasceresti
così?
Rifiuteresti il tuo bambino?-
Davide
si voltò di scatto. Quella pazza stava urlando troppo per i
suoi gusti, e a
quell’ora ne passava ancora di gente, che sentendola si era
voltata curiosa
nella loro direzione. Tornò da lei, premendole una mano
sulle labbra.
-Scema,
che cavolo ti urli?- la sgridò. Lei si scrollò la
sua mano di dosso e
accigliata riprese
-Tu
sei solo un egoista. Non ti importa nulla di me, bastardo! Prima ti
diverti e
poi non accetti le conseguenze! Ma cresci un po’!-
-Ma
che cosa stai dicendo?-
-Perché
non mi vuoi credere?- all’improvviso lei cambiò
tono e passò da carnefice a
vittima.
Lui
la guardò un po’intimorito.
Forse
faceva davvero sul serio.
La
ragazza attese una sua risposta con apprensione, evidentemente ci
teneva.
Il
ragazzo tentennò un po’ sotto il suo sguardo
fiducioso. Gli occhi tremendamente
azzurri lo fissavano carichi di fiducia e supplica.
Indeciso
sbuffò.
-E
va bene. Andrò a fare l’esame, se questo
può tranquillizzarti- acconsentì
stringendosi nelle spalle larghe.
Francesca
emise un sospiro di sollievo.
-Ti
ringrazio. Che ne dici se andiamo domani? Tanto dopo la scuola io vengo
sempre
a mangiare qui-
-Non
ho il turno all’ora di pranzo- disse lui.
Ecco
perché non l’aveva mai vista, pensò fra
sé.
Però
qualcosa, forse la sua espressione mista alla tenerezza che gli faceva
a
vederla così bisognosa di una sua risposta, lo indusse ad
accontentarla.
-Domani,
all’uscita di scuola. Va bene?-
-Va
bene-
-Se
non fossi io il padre del bambino?- domandò quando stavano
per separarsi.
-Mi
scuserei tanto per il disturbo- ribatté svelta, e poi si
allontanò lungo la via
illuminata dalle vetrine e rumorosa per i gruppi di persone che ci
passeggiavano.
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