Nel silenzio della sera

di ChiaraSerafin22
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Il ragazzo sostava accanto al muretto. Sguardo basso, cappuccio sulla testa e mani a sprofondare nelle larghe tasche dei jeans scuciti. Non si riusciva a vedergli gli occhi, nascosti dall’ombra della felpa e sfuggenti alla curiosità dei passanti.
Stava silenzioso e immobile, e quell’immobilità in qualche modo lo isolava dal resto del mondo, che correva impazzito. Uomini e donne eleganti gli sfilavano davanti: quella gente così distaccata gli pareva ancora più frettolosa e nervosa del solito. Forse era per via del tempo, che stava minacciosamente peggiorando, oppure perché non si aspettavano di vedere lui lì. Trovandoselo davanti, non esibivano moti di sorpresa, ma le loro occhiate silenziose e fugaci erano una frusta molto più irritante.
Le persone lo avevano sempre reso molto nervoso, in quel Paese. Non si limitavano a giudicare: ci tenevano a farlo sapere. Non fissavano, no di certo, ma avevano un atteggiamento che non faceva sentire a proprio agio.
Cercò di non pensarci, ma non gli riusciva molto bene.
Quello su cui doveva concentrarsi era il futuro colloquio di lavoro: era riuscito a rimediarlo con un negoziante che possedeva un’attività poco lontano da lì. Erano passate da poco le quattro e dovevano incontrarsi alle quattro e mezza, ma il ragazzo aveva preferito arrivare in anticipo, per avere il tempo di trovare la tranquillità.
Era la prima occasione che aveva da due settimane. Doveva andare tutto al meglio, qualsiasi proposta gli avesse fatto sarebbe andata bene e, in caso contrario, se la sarebbe fatta piacere.
Aveva bisogno di soldi, la sua famiglia aveva bisogno di soldi, non si sarebbe tirato indietro per nessun motivo.
Stava ancora riflettendo su come presentarsi nel migliore dei modi all’uomo con cui aveva parlato al telefono, quando si accorse che una signorina gli si stava avvicinando, tentando garbatamente di attirare la sua attenzione.
Non si stupì di sentirsi chiedere: “Scusi, potrebbe allontanarsi da davanti il negozio? Sta infastidendo i clienti.” Oltre il muretto, la lucida vetrina di una boutique splendeva ammiccante.
Il ragazzo alzò leggermente la testa, abbastanza da lasciar intravedere i propri occhi all’educata commessa.
Oltre il vetro del negozio altri sguardi erano fissi su di lui.
Fece un cenno impercettibile alla signorina e si voltò senza una parola, cominciando a camminare, ad allontanarsi veloce come un ladro.
Ancora e ancora, occhi giudici lo seguivano implacabili. Le sue mani si conficcarono ancor più nelle tasche e un’impercettibile pioggerellina cominciava già a cadere a bagnargli il viso.
Ah, l’Italia. Il Paese dove era la pioggia a lavare via ogni cosa. Anche il dolore, forse.
Erano solo le quattro e dieci e le strade si riempirono di ombrelli colorati.
Un ragazzo camminava senza altra protezione che il proprio silenzio, verso un lavoro che non gli sarebbe stato dato.
Il ragazzo si chiamava Elvin, aveva diciassette anni e una carta d’identità che lo marchiava a fuoco: veniva dall’Albania.
In quella terra calda e straniera, preferiva definirsi cittadino del mondo.




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