Idi di Marzo
15
Marzo 44 a.C.
Era una giornata fulgida,
brandelli di nubi bianche si
rincorrevano in un gioco infinito, le acque del Tevere scorrevano
placide.
Giulio Cesare
arrivò alla Curia all’ora quinta, quando il
sole splende luminoso e il cielo è tinto con acquerelli dai
colori intensi e
vividi. Un vento freddo gli sferzava il viso, inclinando dolcemente le
gocce di
sudore che gli imperlavano il volto pallido, verso le orecchie e poi
più giù,
sulla gola palpitante; la toga purpurea, ornata con motivi fogliari,
ondeggiava
lievemente dietro di lui, e muovendosi sembrava che le foglie
d’alloro si
unissero in un unico, magnifico bosco d’oro.
Cesare si
scostò una ciocca dei capelli mori dietro un
orecchio, osservando con sguardo torbido e nero la strada davanti a
lui, mentre
si portava la mano sul petto, là, dove sentiva battere
furioso il cuore, dove
il dolore era lancinante e le fitte gli ricordavano colpi di spada.
Si ricompose quasi subito,
assumendo una postura dignitosa e
indossando una maschera d’indifferenza, sperando che nessuno
avesse scorto, in
fondo ai suoi occhi, gli spasmi che lo stavano torturando; poi si
concentrò su
cosa volesse dire quel giorno, e un sorriso gli si delineò
sulle labbra
sottili.
Dopo tante battaglie
vinte,
dopo tanto sangue
sparso,
dopo tanti incubi
privi di luce.
Era lì, la
corona d’alloro a celare le sue calvizie, lo
sguardo fiero e superbo a nascondere ciò che aveva sofferto
per raggiungere il
suo scopo.
Come inseguendo una stella alla
fine di una grotta buia e fredda, percorsa con occhi bendati cercando,
in
qualche modo, di non cadere continuando a correre.
Marco Antonio gli chiese se stesse
bene, lui non rispose e scorse invece tra la folla il veggente che,
solo pochi
giorni prima, lo aveva avvertito di un grande pericolo che lo
minacciava alle
Idi di Marzo. Cesare lo chiamò, e ridendo disse:
- Le Idi di Marzo sono arrivate
–
Il veggente lo guardò con
uno
sguardo indecifrabile –acqua gelida e profonda, abbastanza
per non scorgere, in
superficie, le torbide correnti del fondale- prima di fare uno strano
sorriso,
guardandolo negli occhi, e dire:
- Sì; ma non sono ancora
passate –
Cesare lo vide sparire nella folla,
ma quelle parole echeggeranno a lungo dentro di lui, come
l’oscuro presagio di
un futuro incerto; poi Antonio lo toccò su una spalla e lui
ricominciò a
camminare.
*
Celebrò le
pratiche religiose, poi fece un cenno a Marco
Antonio, che lo aveva accompagnato fin lì, invitandolo a
seguirlo, ma lo vide impegnato
con Trebonio ed entrò da solo nella Curia di Pompeo.
Si sedette sul seggio che
gli spettava, aspettando tediato
che la seduta cominciasse; vide Cimbro Tullio avvicinarsi, piegarsi
verso di
lui e raccontargli cose futili, deboli ambizioni, di uomini privi di un
futuro
degno di questo nome.
Nel frattempo altri
senatori l’avevano circondato, lui pensò
che volessero rendigli onore e allora cercò di allontanare
Tullio per rinviare
la discussione, ma lui lo afferrò improvvisamente per la
toga purpurea e Cesare
scorse nei suoi occhi un’eccitazione febbrile, una gioia a
lungo nascosta
dietro una maschera che, per una volta, non aveva riconosciuto;
avvertì
qualcuno spostarsi alle sue spalle, allora cercò di girarsi
di scatto, ma Publio
Casca aveva già estratto la daga colpendolo alla gola,
lacerando la carne e
sporcandolo di sangue.
- Ma questa è
violenza! –
Urlò Cesare,
afferrando immediatamente il braccio di Casca e
colpendolo con uno stilo, ma quando vide tutti –ghignavano, i
maledetti- estrarre
le proprie armi, capì di essere perduto.
E si ricordò di
tutti quei presagi a cui non aveva voluto
credere, combattendo l’evidenza con armi impari.
I fuochi celesti che
ardevano
nell’oscurità
notturna,
lo scricciolo con
l’alloro
ucciso
da uccelli rapaci,
le mandrie di cavalli
piangenti.
Si ricordò di
Spurinna, il veggente, di quel libello datogli
dall’indovino Artemidoro, dell’incubo di Calpurnia.
E quando vide Giunio Bruto
avanzare verso di lui, si ricordo
di come aveva insistito, quella mattina, perché lui non
rinviasse la seduta
nonostante stesse male; e allora avvertì una goccia di
pioggia scivolargli,
rovente e sinuosa, sulla guancia pallida e incavata, dagli occhi
torbidi e neri
fino alle labbra sottili.
Il secondo colpo lo
trovò al centro del petto, ma gli altri
si avventarono su di lui impugnando daghe e coltelli, e lui
ripensò alle sue
conquiste, mentre cadeva a terra, e si chiese a cos’erano
serviti
tutti quei sogni
di
potere e gloria,
tutte
le sue vittorie
in quella terra straniera,
fuggire
da Silla,
per trovare la morte lì,
ai
piedi della statua di
Pompeo, un’ultima beffa che non gli era stata risparmiata.
E guardava, osservava i
suoi assassini, chiedendosi dove
avesse sbagliato, perché doveva aver sbagliato a un certo
punto; forse una
frase, interi paragrafi che non sarebbero dovuti stare in quella storia
immortale –pagine e pagine dettate, fogli bianchi in cui
aveva scritto anche
sui bordi-.
Aveva vissuto come in uno
spettacolo mai concluso, fatto
d’attori e d’attrici, battute dimenticate e
improvvisazioni fuori testo che si
erano tramutate in vittorie; aveva indossato la corona
da’alloro, posandola sul
proprio capo con mano tremante, sapendo che non l’avrebbe
più tolta.
Vide Bruto avvicinarsi, e,
chiedendosi da dove provenisse
quella perla di pioggia, disse, con voce flebile:
- Tu
quoque, Brute,
fili mi? –
Poi tacque, socchiudendo
gli occhi e inclinando il capo da
un lato, lasciando che la corona d’alloro scivolasse ai piedi
di Pompeo, con
quell’unica, rovente goccia di pioggia che si spense sul
petto, là, dove il
cuore non batteva. Là, dove tutto finiva.
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